Sentenza n.621 del 1987

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SENTENZA N. 621

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Dott. Francesco SAJA , Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 274 del codice civile, promosso con ordinanza emessa l'11 ottobre 1985 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Fiore Antonio contro Guidone Annamaria ed altro, iscritta al n. 368 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38/1ø serie speciale dell'anno 1986;

Visto l'atto di costituzione di Guidone Annamaria;

Udito nel udienza pubblica del 10 novembre 1987 il Giudice relatore Aldo Corasaniti.

Ritenuto in fatto

1. - La Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 14 ottobre 1985 (R.O. n. 368/1986) nel ricorso proposto da Fiore Antonio nei confronti di Guidone Annamaria avverso decreto della Corte d'appello di Napoli che dichiarava ammissibile l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, ha sollevato, in riferimento agli artt. 30 e 2 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 274 cod. civ., come modificato dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, in quanto la norma impugnata, imponendo un giudizio preliminare di ammissibilità dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, limita il diritto di colui che vuole ottenere detta dichiarazione, senza che tale limite sia giustificato dalla tutela dei diritti fondamentali della persona del convenuto a fronte di azioni persecutorie e temerarie, e lede i diritti inviolabili della persona del convenuto.

In ordine alla rilevanza, osserva l'ordinanza che, dovendosi, per decidere il ricorso, fare applicazione dell'art. 274 cod. civ., la cui violazione é stata dedotta nei motivi di censura, é di tutta evidenza come la eliminazione dall'ordinamento di tale norma, a seguito di un eventuale intervento demolitorio della Corte costituzionale, incida sulla sorte del ricorso stesso.

Con riferimento, poi, alla non manifesta infondatezza dell'eccezione di illegittimità costituzionale, rileva l'ordinanza che tale giudizio può essere formulato partendo dalle stesse premesse della Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare, con la sentenza n. 70 del 1965, la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 274 c.c., nel testo originario, per contrasto con l'art. 24, comma secondo, Cost., ha, sulla base dell'art. 30 Cost., testualmente rilevato: "é chiaro che la ricerca della paternità viene così considerata come una forma fondamentale di tutela giuridica dei figli nati fuori del matrimonio e, come tale, é fatta oggetto di garanzia costituzionale" ed ha poi aggiunto: "la stessa norma costituzionale, però, stabilisce che la legge ordinaria pone i limiti per la detta ricerca: limiti che potranno derivare dalla esigenza, affermata nel terzo comma, di far sì che la tutela dei figli nati fuori del matrimonio sia compatibile con i diritti della famiglia legittima e dall'esigenza di salvaguardare, in materia tanto delicata, i fondamentali diritti della persona, tutelati anche essi dalla Costituzione, dai pericoli di una persecuzione in giudizio temeraria e vessatoria".

Dai suesposti rilievi appare quindi evidente che il diritto costituzionalmente garantito ad ottenere la dichiarazione della paternità o maternità naturale in tanto può essere compresso, in quanto le norme limitative siano poste per la incompatibilità di tale diritto con quelli della famiglia legittima o nella misura in cui le stesse tutelino la persona, nei cui confronti la paternità o la maternità vuole essere conseguita, dai pericoli di una persecuzione in giudizio temeraria e vessatoria.

Da ciò deriva, quindi, che ove si accerti l'esistenza di una norma limitativa del diritto costituzionalmente garantito alla dichiarazione giudiziale di filiazione, tale norma in tanto é conforme al precetto costituzionale, in quanto la stessa miri a tutelare gli anzidetti contrapposti diritti anch'essi di livello costituzionale.

Osserva ancora l'ordinanza che l'affermazione che l'art. 274 cod. civ. limita il libero e pieno esercizio del diritto di colui il quale vuole ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale é ormai frequente nella giurisprudenza (Cass. 5 marzo 1982 n. 1379, Cass. 14 aprile 1983 n. 2600; Cass. 2 giugno 1983 n. 3777), la quale, proprio per ridurre la portata di tale limitazione, ha sostenuto che l'ammissibilità dell'azione deve essere negata soltanto qualora, in mancanza di qualunque serio, concreto elemento che possa essere posto in correlazione con l'asserito concepimento del figlio naturale, essa si mostri, prima facie, palesemente infondata, avventata o temeraria, con la conseguenza che l'azione deve essere ammessa qualora sussistano elementi di fatto che, pur potendo non essere decisivi o risolutivi per il vero e proprio accertamento della paternità o della maternità, siano suscettibili di sviluppo, di approfondimento e di integrazione nel successivo giudizio, in modo da rendere attendibile l'assunto del richiedente e da giustificare il ricorso all'azione giudiziaria, per accertare, in pienezza di cognizione e di contraddittorio, l'effettiva sussistenza dell'asserito rapporto parentale.

Seppure tale tesi é criticata da altra giurisprudenza la quale ritiene che oggetto del giudizio di ammissibilità non sia la non manifesta infondatezza dell'azione, ma la fondatezza della stessa (Cass. 3 marzo 1983 n. 1571), quello che rileva non é tanto la portata dell'espressione "specifiche circostanze", quanto piuttosto l'interpretazione della disposizione in esame - come diritto vivente - quale norma limitativa del diritto ad ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale.

Tale disposizione, di contenuto eminentemente processuale, non disciplina situazioni di compatibilità fra il diritto del figlio naturale e quello dei membri della famiglia legittima, ma risponde - per costante affermazione dottrinale e giurisprudenziale (Cass. 14 aprile 1983 n. 2600; Cass. 7 maggio 1983 n. 3112) - alla ratio di evitare la proposizione di azioni temerarie o infondate con intenti meramente ricattatori o vessatori nei confronti del preteso genitore.

Siffatta affermazione - ormai tralaticiamente ripetuta, sulla scorta soprattutto del dato testuale costituito dall'originaria formulazione dell'art. 274 cod. civ., prima dell'intervento della Corte costituzionale, con la sentenza in precedenza richiamata - ha perduto molto del suo valore a seguito non solo del predetto intervento demolitorio del giudice delle leggi - dopo il quale era stato acutamente rilevato in dottrina che, imposto l'obbligo della motivazione del decreto ed esclusa parzialmente la segretezza dell'inchiesta, il procedimento di ammissibilità non soddisfaceva pienamente l'esigenza della tutela della persona - ma soprattutto dopo la legge 23 novembre 1971 n. 1047, che ha modificato la norma in conformità delle indicazioni della Corte e dopo la riforma del diritto di famiglia che, oltre ad affermare l'imprescrittibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità (art. 270, primo comma, cod. civ.), ha radicalmente innovato la disciplina di tale dichiarazione escludendo le ipotesi tassative in precedenza esistenti (cfr. art. 269 nuovo testo in relazione all'art. 269 cod. civ. del 1942), senza che si possa tacere il costante indirizzo giurisprudenziale per il quale dal carattere contenzioso del procedimento ex art. 274 e dalla conseguente natura decisoria e definitiva del decreto emesso dalla corte d'appello in sede di reclamo avverso il decreto del tribunale sull'ammissibilità dell'azione é stata fatta giustamente derivare la ricorribilità per cassazione della stessa, salvo il contrasto, privo di sostanziale rilievo, se il ricorso sia proponibile ai sensi dell'art. 360 c.p.c. (Cass. 28 settembre 1977, n. 4130) o, invece, a norma dell'art. 111 Cost. (Cass. 20 aprile 1985, n. 2642); nonché l'ulteriore affermazione per la quale la decisorietà e definitività del decreto ritualmente pronunziato non esclude comunque che si tratta pur sempre di una pronuncia emessa allo stato degli atti, con l'ulteriore conseguenza che il giudicato, formatosi sulla pronuncia di inammissibilità, non impedisce la riproposizione di una nuova istanza sulla base della deduzione di circostanze ed elementi probatori nuovi (Cass. 16 febbraio 1981 n. 933).

Sulla base di questo quadro normativo - prosegue l'ordinanza - appare evidente che già in fase di giudizio preliminare di ammissibilità - potendo la prova della paternità o della maternità essere data con ogni mezzo - la parte é libera di dedurre ogni elemento utile per il giudizio e quindi anche la prova ematologica, la quale dovrà essere esperita ove sulla stessa si possa fondare il giudizio di ammissibilità.

A ciò bisogna poi aggiungere che la segretezza dell'indagine, già parzialmente venuta meno per la tutela del diritto alla difesa nei rapporti fra le parti (Corte cost. n. 70 del 1965), scompare del tutto una volta che si ammetta - come deve ammettersi - la ricorribilità per cassazione avverso il provvedimento della corte d'appello, sicché il rispetto di quei diritti inviolabili della persona, che l'inchiesta sommaria dovrebbe tutelare, scompare del tutto, per la pubblicità dell'udienza innanzi alla Corte di cassazione, la quale porta a conoscenza della generalità dei cittadini proprio quegli elementi di fatto che l'art. 274 cod. civ. vorrebbe concretamente sottrarre alla conoscenza pubblica.

La riproponibilità, infine, sulla base di nuovi elementi, della stessa domanda di ammissibilità respinta, finisce con il sottoporre la persona - il cui diritto a non subire giudizi vessatori e temerari si vorrebbe tutelare - senza alcun limite temporale (attesa l'imprescrittibilità dell'azione nei confronti del figlio) ad una serie di indagini e di accertamenti particolarmente penetranti (si pensi alle prove ematologiche), laddove, invece, il rigetto della domanda, nel giudizio di merito, dà al convenuto la possibilità di opporre il giudicato contro ulteriori pretese, attesa l'identità dell'azione successivamente proposta con quella già disattesa, in quanto, in tema di azioni di stato, petitum e causa petendi finiscono con il sovrapporsi e con l'impedire che un nuovo fatto costitutivo qualifichi la successiva domanda come diversa da quella in precedenza respinta (Cass. primo febbraio 1983, n. 8559).

Tutti questi rilievi hanno spinto la più recente dottrina ad insistere per la eliminazione dell'art. 274 cod. civ. dall'ordinamento in quanto, venute meno le motivazioni di ordine sociale che determinarono la sua nascita, lo stesso rappresenta solo un ostacolo per il figlio naturale che vuole sentire dichiarare giudizialmente il proprio status, e tale abrogazione é stata proposta anche dalla Commissione ministeriale per lo studio dei problemi interpretativi ed integrativi della legge 19 maggio 1975, n. 151, istituita presso il Ministero di Grazia e Giustizia con d.m. 25 marzo 1983.

Osserva peraltro il giudice a quo che la questione non si pone solo in termini di mera opportunità di una scelta, demandata al legislatore ordinario, ma che la permanente vigenza dell'art. 274 cod. civ. faccia sorgere consistenti sospetti di illegittimità costituzionale di tale norma non manifestamente infondati in riferimento agli artt. 30 e 2 Cost., in quanto la disposizione limita il diritto costituzionalmente garantito di colui che vuole ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, senza che tale limite sia giustificato dalla tutela dei fondamentali diritti della persona dai pericoli di una persecuzione in giudizio temeraria e vessatoria e lede - per il modo con il quale la norma opera nel nostro ordinamento - i diritti inviolabili della persona.

Né al fine di sostenere la legittimità costituzionale della disposizione sembra sufficiente invocare quella giurisprudenza per la quale la norma denunciata attuerebbe la previsione costituzionale dei limiti alla ricerca della paternità (Cass. 23 aprile 1983, n. 2805), dal momento che, come é stato osservato con altra pronunzia, i limiti posti dall'art. 30, ultimo comma, Cost., non possono essere posti al giudizio preliminare di ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, ma in relazione al successivo giudizio per l'accertamento della paternità, costituendo - o almeno dovendo costituire - il primo giudizio una cautela predisposta dal legislatore in favore del convenuto, al fine di impedire l'esercizio temerario dell'azione (Cass. 14 aprile 1983, n. 2600) e che, comunque, l'ultimo comma dell'art. 30 Cost. va coordinato con il precedente comma dello stesso articolo, circa la piena tutela dei figli nati fuori del matrimonio, sia pure compatibilmente con i diritti della famiglia legittima, e non impone alcun limite probatorio alla dichiarazione giudiziale di paternità, né é riferibile a limitazioni dei mezzi di prova, che introdurrebbero ostacolo alla dichiarazione di paternità (Cass. 10 gennaio 1981, n. 218; Cass. 26 marzo 1981, n. 1752; Cass. 26 novembre 1981, n. 6289), ma impone solo l'esigenza di garantire la riservatezza dell'indagine (Cass. 26 novembre 1981, n. 6289).

2. - Davanti a questa Corte si é costituita Guidone Anna Maria rimettendosi alla decisione della Corte.

Considerato in diritto

1. - É impugnato davanti a questa Corte l'art. 274 cod. civ., recante la disciplina del giudizio preliminare di ammissibilità dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale.

Ad avviso del giudice a quo la suddetta disciplina sarebbe in contrasto con gli artt. 30 e 2 Cost., poiché limita il diritto di colui che vuole ottenere tale dichiarazione, senza che il limite sia giustificato dalla tutela del convenuto a fronte di azioni persecutorie e temerarie, tutela che, anzi, rimane compromessa per il modo in cui opera il limite in parola.

Ciò in base al rilievo che il giudizio preliminare ha perduto le sue originarie caratteristiche di segretezza; che in esso può dedursi ogni mezzo di accertamento; che la domanda, se respinta, é riproponibile senza alcun limite temporale.

2. - Le censure avanzate dal giudice a quo non si rivolgono contro la previsione di un giudizio preliminare di ammissibilità della domanda giudiziale di cui si tratta, previsione che costituisce applicazione di un istituto largamente diffuso nel nostro diritto positivo, e che questa Corte, con la sentenza n. 70 del 1965, non ha ritenuto contrastante con la garanzia costituzionale dei diritti azionati.

Le censure si appuntano, a ben vedere, contro il modo in cui il giudizio preliminare é stato normativamente ristrutturato (con le leggi 23 novembre 1971, n. 1047; 19 maggio 1975, n. 151, di riforma del diritto di famiglia) e concretamente funziona ad opera della giurisprudenza.

Il giudice a quo non disconosce peraltro che la censurata disciplina é stata introdotta per adeguare la normativa, in relazione a quanto statuito da questa Corte con la sentenza n. 70 del 1965, al precetto posto dall'art. 24 Cost.

Ma se così é, le censure si risolvono in una critica, se non del dosaggio dei valori costituzionali operato da questa Corte, della scelta adottata dal legislatore, scelta costituente espressione della insindacabile discrezionalità del legislatore medesimo.

Ciò importa la inammissibilità della questione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 274 cod. civ., in riferimento agli artt. 30 e 2 Cost., sollevata dalla Corte di cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1987.

 

Il Presidente: SAJA

Il redattore: CORASANITI

Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1987.

Il direttore della cancelleria: MINELLI