Sentenza n.225 del 1987

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SENTENZA N. 225

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Virgilio ANDRIOLI , Presidente

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 42 c.p.m.p., promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 18 marzo 1986 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Tarlazzi Lucio, iscritta al n. 512 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale dell'anno 1986;

2) ordinanza emessa il 27 febbraio 1986 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Casaroli Claudio, iscritta al n. 531 del registro ordinanze 1986 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale dell'anno 1986;

Udito nella camera di consiglio del 6 maggio 1987 il giudice relatore Ettore Gallo;

Ritenuto in fatto

Con due ordinanze datate 27 febbraio e 18 marzo 1986 il Tribunale militare di Padova sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 42 c.p.m.p. con riferimento agli art.li 2 e 3 Cost.

Nel presupposto che nelle specie sottoposte al suo giudizio fossero prospettabili gli estremi di legittima difesa, quanto meno putativa, secondo i criteri del codice penale ordinario, a causa di atteggiamenti ed espressioni intensamente aggressivi di commilitoni, osserva il Tribunale, però, che nell'ordinamento penale militare l'istituto della legittima difesa, per la sua particolare configurazione, sembrerebbe escludere la possibilità di applicare la scriminante ai fatti di causa.

A parte, infatti, il limite dei diritti difendibili, nella specie non rilevante, l'art. 42 citato delinea la legittima difesa come necessità di respingere una "violenza attuale ed ingiusta" e non di reagire al "pericolo attuale di un'offesa ingiusta" come, invece, consente l'ordinamento penale comune. Ma - secondo l'ordinanza questo ritardo nel giustificare l'azione di difesa interferisce sull'autotutela di diritti inviolabili dell'uomo, in contrasto con l'art. 2 Cost., e contemporaneamente condiziona negativamente la posizione del militare rispetto a quella della generalità dei cittadini, violando l'art. 3 Cost.

Tutto ciò senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione, non potendosi accettare come plausibile quella della Relazione che sembra intendere il valore della scriminante nel profilo di tutela del superiore, quando in realtà la situazione di legittima difesa ben può aversi nei confronti di pari grado o anche di inferiore.

Considerato in diritto

1. - Le due ordinanze prospettano la medesima questione e, perciò, gli incidenti possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - In realtà, deve dirsi che, nonostante l'opinione del Relatore della legge, giustamente criticata dall'ordinanza, la ratio della disposizione é probabilmente da ravvisarsi nel particolare status del militare che si vorrebbe esposto al pericolo per dovere di istituto, in guisa da non ritenere giustificabile la reazione se prima non si profili l'attualità della violenza ingiusta. Ratio, per verità, non accettabile, sopratutto in un codice penale militare di pace, giacché la doverosa esposizione al pericolo del militare riguarda il comportamento in guerra, o in altre situazioni di grave contingenza, ma non può giustificare la sua esclusione da una ragionevole difesa della sua incolumità nelle quotidiane vicende dell'esistenza. É molto più probabile, perciò, che il legislatore militare, ritenendo eccessiva la formula adottata per il codice penale comune dal legislatore del '30, abbia semplicemente preferito attenersi a quella precedentemente vigente nel codice Zanardelli, che nell'art. 49, co. primo, ammetteva la scriminante esclusivamente appunto in relazione alla "necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale ed ingiusta".

E tuttavia é possibile, restando sul piano interpretativo, rendere la disposizione meno riduttiva e compatibile con i principi costituzionali richiamati dall'ordinanza, anche tenendo conto dell'elaborazione che l'espressione aveva ricevuto nella giurisprudenza del codice penale del 1889.

3. - Già il codice stesso offre nell'art. 43 una prima chiave di lettura, quando comprende nella nozione di violenza anche il tentativo di omicidio e quello di offesa con le armi. Qualunque fosse il concetto che del delitto tentato avesse il legislatore dell'epoca, é certo che oggi il dibattito scientifico attorno all'elemento dell'idoneità degli atti e della loro univocità ha fissato nella fase esecutiva dell'iter la configurabilità del tentativo, e perciò proprio nel momento in cui il bene tutelato é messo in pericolo: e la giurisprudenza si é da tempo mostrata concorde. Dunque, nella nozione di violenza propria dell'ordinamento penale militare c'é l'elemento normativo del pericolo: chi respinge una violenza attuale (ed ingiusta) diretta ad uccidere o a recare offesa con le armi, respinge in realtà il pericolo dell'offesa alla propria vita, o alla propria incolumità portata mediante le armi.

Certo, il tentativo non é, però, espressamente richiamato a proposito dei maltrattamenti, delle percosse e delle lesioni, vale a dire delle residue offese all'incolumità individuale che integrano il concetto penalistico militare della violenza. Ma, intanto, si dovrebbe considerare che l'atto diretto a percuotere o a ledere può comunque cagionare la morte, e la norma richiama appunto, nel concetto di violenza, anche l'omicidio preterintenzionale.

La dottrina specialistica sottovaluta questo richiamo, ritenendolo fuori luogo e falso, perché solo a delitto compiuto sarebbe possibile valutare la preterintenzione: il che é esatto se ci si riferisce al procedimento mentale del giudice. Ma la norma ha riguardo all'aggredito quando utilizza il concetto di violenza nell'ambito dell'art. 42: e l'aggredito non ha certo, nel frangente della necessità, né il tempo né la serenità per valutare se il colpo di mano o la bastonata che gli possono essere assestati dall'aggressore abbiano intensità o possano colpire punti vitali tali da cagionare la sua morte, sia pure non voluta. Se su ciò si riflette, il richiamo all'omicidio preterintenzionale non appare più così superfluo, perché quanto meno esonera l'aggredito dal valutare il reale obbiettivo del dolo, e lo faculta a difendersi anche "da atti diretti a percuotere o a ledere" perché da essi potrebbe oggettivamente derivare la morte contro la stessa volontà dell'aggressore.

Ma "gli atti diretti a..." sono quanto meno atti di tentativo e, se ci si volesse attenere (ma non si dovrebbe) al vecchio concetto di "attentato" della tradizione repressiva, sarebbero anche molto meno, visto che si sosteneva per quella espressione la punibilità anche di atti preparatori. Ne consegue che anche la nozione di legittima difesa ex art. 42 c.p.m.p. richiama il concetto di "pericolo", esplicitamente per l'omicidio volontario tentato e il tentativo di offesa con le armi, implicitamente per le percosse e le lesioni, attraverso la nozione propria dell'omicidio preterintenzionale.

4. - Ma, anche se da tutto ciò si volesse prescindere, la dottrina più recente ha indicato la teoria cosiddetta dell'"azione che si sta verificando", non potendo esservi "attualità" di una violenza se l'azione si é già verificata: il requisito dell'attualità, pertanto, aiuta a risolvere, caso per caso, le situazioni in cui di fatto può manifestarsi l'effettività della violenza.

La percossa - ad esempio - é spesso integrata in una frazione di secondo, nel corso della quale la mano che s'é levata s'é già abbattuta sul volto. Se l'aggredito deve attendere che l'azione di percossa gli si presenti come chiara violenza in itinere, vuol dire che gli é inibito di difendersi, se non é provetto in difficili esercizi di difesa scientifica che lo abilitino a reazioni riflesse ed istantanee.

Il giudice, perciò, secondo l'id quod plerumque accidit dovrà tenere conto, nel contesto di un episodio litigioso, proprio di quegli "atteggiamenti aggressivi" che rappresentano, in definitiva, il momento scatenante dell'azione violenta e di cui si parla nelle ordinanze: nell'ordinanza n. 531 del 27 febbraio 1986 si accenna, anzi, a un "movimento brusco" del presunto aggressore che "aveva allontanato il braccio dell'imputato e si era girato di scatto verso di lui "in atteggiamento aggressivo". Nel secondo episodio c'é, dunque, persino un'azione attuale vera e propria di maltratti che ben può essere prudentemente apprezzata dal giudice di merito nella libertà del suo convincimento.

In definitiva, e in attesa che il legislatore adotti il nuovo codice penale militare di pace, ben può frattanto il giudice dare alla norma un'interpretazione adeguatrice al dettato costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42 c.p.m.p. (difesa legittima) sollevata dal Tribunale militare di Padova, con le ordinanze 27 febbraio e 18 marzo 1986 (n. 512 e 531/86 Reg. ord.), in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 1987.

 

Il Presidente: ANDRIOLI

Il Redattore: GALLO

Depositata in cancelleria l'11 giugno 1987.

Il direttore della cancelleria: VITALE