Sentenza n.189 del 1987

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SENTENZA N. 189

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Antonio LA PERGOLA, Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 legge 24 giugno 1926 n. 1085 ("Disciplina della esposizione di bandiere estere") promosso con l'ordinanza emessa il 2 novembre 1983 dal pretore di Gorizia nel procedimento penale a carico di Marusic Stanislao, iscritta al n. 1070 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 120 dell'anno 1984;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nella camera di consiglio dell'11 febbraio 1987 il giudice relatore Renato Dell'Andro.

Ritenuto in fatto

1. - Il pretore di Gorizia, con ordinanza emessa il 2 novembre 1983 nel procedimento penale a carico di Marusic Stanislao - imputato del reato di cui agli artt. 1 e 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1085 ("Disciplina della esposizione di bandiere estere") per aver esposto o fatto esporre, il 25 aprile 1983, in Gorizia, due bandiere slovene accanto a due bandiere nazionali italiane senza la preventiva autorizzazione dell'autorità politica locale - ha sollevato, su istanza di parte, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, comma 1, e 6 Cost., degli artt. 1 e 3 della legge n. 1985 del 1929, nella parte in cui fanno divieto alle minoranze etniche esistenti nel territorio dello Stato d'esporre le proprie bandiere, corrispondenti a quelle di Stati esteri, senza la preventiva autorizzazione dell'autorità politica locale.

Il giudice a quo rileva, in primo luogo, che il divieto di esporre bandiere di Stati esteri senza autorizzazione é di portata generale, dirigendosi a tutti i soggetti - cittadini o stranieri - che si trovino nel territorio nazionale, e quindi non potrebbe configurarsi, sotto tale aspetto, una disparità di trattamento. Nonostante ciò, appare lecito il dubbio circa la violazione dei principi costituzionali, relativi all'eguaglianza ed alla tutela delle minoranze, violazione realizzata attraverso la mancata considerazione dell'esistenza, nel territorio nazionale, di cittadini italiani di diversa origine etnica che si riconoscono nelle proprie tradizioni, costumi, lingua e nei propri colori nazionali, talvolta corrispondenti a quelli di Stati esteri. In considerazione del fatto che l'ordinamento riconosce a diverse comunità operanti nel territorio dello Stato (enti pubblici e privati, associazioni politiche, religiose, culturali e sportive) il diritto d'esporre, senza autorizzazione, insegne, stemmi o bandiere quali segni distintivi della loro individualità, il trattamento operato per le predette minoranze appare discriminatorio.

L'esigenza di un'autorizzazione per l'esposizione delle bandiere delle comunità etniche minoritarie - che, per essere proprie di gruppi esistenti nel territorio della Repubblica, potrebbero essere considerate interne, anche se coincidenti con quelle di Stati esteri - appare limitativa della libertà di taluni gruppi di manifestare la propria identità.

L'ordinanza é stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.

2. - É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l'infondatezza della questione.

In primo luogo, l'Avvocatura dello Stato nega che il collegamento con uno Stato estero caratterizzi tutte le minoranze etniche nei riguardi degli altri gruppi intermedi. Infatti, esistono minoranze alloglotte che non si riconoscono (o non si riconoscono più) in uno Stato diverso da quello d'appartenenza (ad esempio i serbo-croati del Molise, i catalani di Alghero o i greco-albanesi del meridione d'Italia); inoltre, esistono formazioni sociali diverse dalle minoranze etniche (organizzazioni politiche, sindacali o culturali) che si riconoscono in determinati Stati ed hanno interesse ad adottare le relative bandiere come segno distintivo della propria individualità.

Secondariamente, il valore tutelato dall'art. 6 Cost. non sarebbe costituito dall'allogenia bensì dall'alloglossia e, quindi, dall'aspetto linguistico-culturale del legame con un'etnìa diversa da quella maggioritaria e non dall'aspetto politico nazionale d'un eventuale collegamento con un'etnìa corrispondente con uno Stato estero.

Pertanto, la normativa in questione non violerebbe gli artt. 6 e 3, primo comma Cost., poiché le minoranze alloglotte non si trovano in posizione differenziata rispetto ad altri gruppi intermedi e la pronuncia di incostituzionalità richiesta dal giudice a quo violerebbe il principio di eguaglianza per ingiustificato favore verso alcune minoranze etniche rispetto a formazioni sociali diverse ma egualmente interessate ad adottare bandiere di Stati esteri come segno distintivo della propria individualità. Peraltro, conclude l'Avvocatura, le norme impugnate sarebbero state dettate a supporto di valori fondamentali tutelati dalla Carta costituzionale: la sovranità dello Stato e la "complessiva ed assorbente riserva" ad esso del potere estero.

Considerato in diritto

1. - Il richiamo al caso di specie, di cui all'ordinanza di rimessione, vale già ad ingenerare un iniziale, grave sospetto d'incostituzionalità della normativa impugnata.

Il pretore dà atto che l'esposizione delle bandiere slovene, avvenuta in data 25 aprile 1983 nei pressi del monumento ai Caduti della Resistenza, nella piazza di S. Andrea di Gorizia, tendeva ad esprimere la piena adesione della minoranza d'origine slovena alla commemorazione dei Caduti della Resistenza italiana; ma non dubita che la normativa impugnata per illegittimità costituzionale sia applicabile alla specie. Il fatto che possa costituire illecito penale un comportamento che non solo non viola alcun valore costituzionalmente garantito ma non lascia intravvedere neppure quale bene giuridico comprometta e che, per di più, oggettivamente tende ad esprimere convinta adesione della minoranza slovena, alloglotta od allogena che sia, al ricordo di coloro che offrirono la vita per la conquista della nuova unità istituzionale e politica degli italiani, sconcerta non poco. La minoranza in questione intendeva, con l'esposizione in pubblico delle bandiere slovene, aderire alla commemorazione in discorso e così unirsi a tutti gli italiani nel riaffermare i valori dai quali é nata la Resistenza e quest'ultima, che della Costituzione repubblicana é origine e sostanza sempre vivente: può tutto ciò costituire fatto penalmente sanzionato? L'illegittimità costituzionale della normativa impugnata comincia a profilarsi già dall'indiscutibile risposta negativa all'ora proposto quesito.

E vale subito aggiungere il netto contrasto tra l'asserito "vigore" formale degli artt. 1 e 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1085, e la realtà nella quale, come é stato sottolineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, l'esposizione in pubblico di bandiere estere, senza necessità di preventive autorizzazioni, é puntualmente tollerata, in tutto il territorio nazionale, in occasione di "nobili" manifestazioni politiche o di "meno nobili" esigenze turistico-commerciali. L'esperienza, in altre parole, ha avvertito il contrasto tra gli articoli citati, emanati in un determinato clima ideologico-politico e la successiva Costituzione e lo ha già risolto (salvo rare eccezioni) dando concreta prova della sempre invocata e non sempre adottata interpretazione "secondo Costituzione".

Va, infine, osservato che il ristretto profilo dal quale il giudice a quo propone la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della legge n. 1085 del 1929 non impedisce a questa Corte d'essere consapevole che la stessa questione coinvolge anche più vaste prospettive, ossia quelle delle manifestazioni di gruppi e soggetti che possono esporre in pubblico bandiere estere al solo scopo di manifestare adesione a concrete realizzazioni ideologico-politiche perseguite da alcuni Stati. Il tener presente anche l'ora indicata, più vasta prospettiva, dalla quale può esser considerata la proposta questione di legittimità costituzionale, non nuoce alle conclusioni che qui si vanno ad assumere, tenuto conto del fatto che la consapevolezza dell'ampiezza delle implicazioni inerenti ad una decisione non può che rendere più avvertiti nell'assunzione di quest'ultima, anche se ad essa si deve giungere attraverso un esame limitato da alcuni canoni costituzionali di valutazione.

2. - Il profilo dal quale l'ordinanza di rimessione considera l'illegittimità dell'impugnata normativa ed il riferimento agli artt. 3 e 6 Cost. impone a questa Corte alcune riflessioni relative al confronto tra il diritto delle minoranze linguistiche d'esprimere la propria identità e quello degli altri gruppi sociali.

L'ordinanza di rimessione assume che l'esigenza della preventiva autorizzazione, per l'esposizione in pubblico delle bandiere delle comunità etniche minoritarie, "ancorché coincidenti con le bandiere di determinati Stati esteri", limiti la libertà delle stesse comunità di manifestare la propria identità; mentre ad ogni "altra" comunità, vivente nel territorio dello Stato, (enti pubblici e privati, associazioni politiche, religiose, culturali, sportive) che non sia illecita, é riconosciuto, senza necessità d'autorizzazione, il diritto d'esporre in pubblico insegne, stemmi, bandiere ecc., espressivi della propria individualità.

A chi osservasse che il diritto d'un qualsiasi ente od associazione politica, culturale ecc. d'esporre le proprie bandiere non può essere confuso con il diritto delle minoranze etniche d'esporre bandiere di Stati esteri (che simboleggiano le Nazioni nelle quali le stesse minoranze spesso dichiarano di riconoscersi, a volte in dialettica con la Nazione italiana, simboleggiata dalla relativa bandiera) ed a chi tentasse d'opporre che il collegamento con lo Stato estero si verifica per le minoranze etniche e non per gli altri gruppi interni e che, conseguentemente, l'incidenza che l'esposizione delle bandiere delle predette minoranze ha o può avere sugli interessi degli Stati esteri, ed anche su quelli dello Stato italiano, si verifica per le minoranze etniche e non per gli altri gruppi interni (questi ultimi, nell'esporre i propri segni distintivi, ed anche le proprie bandiere, non incidono, in alcun modo, su rapporti relativi a Stati diversi) il giudice a quo replica che più razionale sarebbe affermare il principio della liceità dell'esposizione delle bandiere delle minoranze etniche, ancorché coincidenti con quelle di Stati esteri, con l'attribuzione, peraltro, all'autorità statale del potere di vietare la predetta esposizione soltanto per particolari situazioni internazionali o per gravi motivi d'ordine pubblico.

Ma il problema non attiene specificamente alle minoranze "etniche: esso é più generale, ove si consideri che qualsiasi gruppo interno (ed anche qualsiasi cittadino) può riconoscersi ed esprimere la propria identità politico-sociale attraverso un simbolo, una bandiera corrispondente a quella d'uno Stato estero. E ciò per motivazioni le più varie, nelle quali é almeno dubbio che lo Stato possa interferire.

3. - La verità é che non soltanto le minoranze etniche ma anche gruppi intermedi (ad es. associazioni politiche, sindacali, culturali ecc.) e soggetti pubblici e privati possono riconoscersi nelle idealità perseguite da Stati ed avere, pertanto, interesse ad adottare le relative bandiere come segno distintivo della propria individualità politico-sociale.

Da ciò discende che, mentre costituirebbe ulteriore discriminazione non sottoporre ad alcuna limitazione l'esposizione in pubblico di bandiere di Stati esteri da parte delle sole minoranze etniche e sottoporre, invece, a discrezionale autorizzazione dell'autorità politica la stessa (identica) esposizione da parte degli altri soggetti che intendano, comunque, caratterizzare la propria identità politico-sociale attraverso simboli o bandiere corrispondenti a quelle di Stati esteri, va necessariamente chiarito in questa sede se costituisca "scelta" razionale quella d'imporre a preventiva autorizzazione dell'autorità politica l'esposizione di bandiere che (nel caratterizzare l'identità politico-sociale di gruppi, minoranze etniche oppure no, e di soggetti singoli) corrispondono a quelle di Stati esteri e di lasciare, invece, tutti gli altri soggetti liberi d'esporre i propri simboli, emblemi e bandiere, che non s'identificano con simboli e bandiere di Stati esteri.

A tal proposito va, anzitutto, ricordato che dal 1929 ad oggi é notevolmente modificato il significato dei simboli, emblemi e bandiere.

Forse, e fino ad un certo punto, il clima politico nel quale furono emanate le norme impugnate può, in qualche modo, spiegare (giammai giustificare) il perché del divieto di cui al primo comma dell'art. 1 della legge 24 giugno 1929, n. 1085. Ove la bandiera nazionale costituisca, come nel regime politico-istituzionale vigente in Italia nel 1929, simbolo ed emblema della sovranità nazionale, d'uno Stato che "non riconosce" altri valori oltre quelli dei quali si fa detentore ed impositore, l'esposizione, nel territorio nazionale, di bandiere di Stati esteri non può esser guardata con favore. Che senso può mai avere l'esposizione di bandiere di Stati esteri nel territorio ove impera la sovranità dello Stato italiano? Come possono ideologie e valori diversi da quelli dello Stato che insiste sul territorio esser dialetticamente confrontati con gli "unici" valori e con l'"unica" ideologia dello stesso Stato?

Dando alla bandiera nazionale il significato ora posto in luce, é fin troppo evidente che le concezioni generali imperanti nel 1929 finivano con l'attribuire anche alle bandiere estere lo stesso significato: da ciò l'impossibilità "in radice" d'un confronto tra valori "validi", quelli nazionali, ed ideologie "non valide"; e, in conseguenza, il generale divieto d'esposizione di bandiere estere. É da notare ancora che il divieto é generale e "prioritario": non solo il diniego d'autorizzazione dell'autorità politica ma anche la mancanza di richiesta d'autorizzazione, per qualsiasi motivo, lascia inalterata l'illiceità del fatto; lo stesso divieto é inefficace per la sola ipotesi della concessione dell'autorizzazione.

Non é necessario insistere sulla significatività della natura politica dell'autorizzazione: non sono, infatti, motivi di ordine pubblico a condizionare, almeno nelle intenzioni del legislatore del 1929, la predetta autorizzazione bensì ragioni attinenti alla valutazione politica del fatto. Soltanto quando l'esposizione di bandiere estere, in concreto, non sia indirizzata a proporre confronti dialettici con valori "non validi", rispetto a quelli nazionali, e soprattutto non manifesti l'adesione di cittadini alle ideologie "non valide", l'autorizzazione può essere concessa; l'esposizione di bandiere estere, in tal caso, "non offende" l'esclusività e totalitarietà dell'ideologia espressa dalla bandiera dello Stato insistente sul territorio nel quale la bandiera estera é esposta.

Sennonché, mutato il clima politico, emanata la Costituzione, sia la bandiera nazionale sia le bandiere estere non costituiscono più l'emblema, il simbolo della sovranità territoriale, concepita nel senso sopra indicato, ma designano simbolicamente un certo Paese, l'identità d'un determinato Stato e, se mai, anche l'ideologia che la maggioranza del popolo di quest'ultimo accetta e propone al confronto internazionale. Non avendo lo Stato da imporre valori propri, contenuti ideologici che investano tutti i cittadini, e "totalmente" ogni singolo cittadino, le bandiere valgono soltanto quale simbolo identificatore d'un determinato Stato e, se mai, di precisi, inconfondibili ideali dai quali muove il popolo e, conseguentemente, la sua sovranità.

Dalle precedenti osservazioni discende che, se mai, il divieto d'esposizione di bandiere estere poteva avere, nel 1929, una motivazione: ma, con la Costituzione, con l'avvento della democrazia, mutato il significato delle bandiere, anche quella motivazione é venuta meno. Di tal che é, oggi, manifestamente irrazionale discriminare fra coloro che intendano esprimere la propria identità attraverso segni e bandiere corrispondenti a quelle di Stati esteri e coloro che caratterizzino la propria identità diversamente.

Lo Stato democratico non può temere il confronto con le idealità perseguite da popoli di altri Stati e da Nazioni diverse da quella espressa dalla maggioranza dei propri cittadini: anzi, lo Stato democratico s'instaura e vive nel predetto confronto e, pertanto, non può che avere interesse al medesimo. Tanto più che, come ritiene il giudice a quo, affermata la generale liceità dell'esposizione in pubblico di bandiere estere, rimarrebbe sempre possibile un eventuale divieto che, di volta in volta, come in ogni altra situazione, l'autorità istituzionale competente (e non l'autorità politica) ponesse, a causa di davvero eccezionali ragioni di ordine pubblico o di carattere internazionale.

4. - Finora si é fatto riferimento esclusivamente al divieto previsto dalla lettera c) del primo comma dell'art. 1 della legge 24 giugno 1929 n. 1085.

L'ordinanza di rimessione impugna anche l'art. 3 della predetta legge. A parte la rimozione delle bandiere, prevista in quest'ultimo articolo, vale considerare il collegamento tra il precitato divieto e la sanzione penale di cui al terzo comma dello stesso articolo. Infatti, dalla sintesi tra il divieto previsto nel primo comma e la sanzione di cui al terzo comma dell'articolo in esame risulta completa la norma penale, sulla quale va rivolta ora particolare attenzione.

Il diritto penale costituisce, rispetto agli altri rami dell'ordinamento giuridico dello Stato, l'extrema ratio, il momento nel quale soltanto nell'impossibilità o nell'insufficienza dei rimedi previsti dagli altri rami é concesso al legislatore ordinario di negativamente incidere, a fini sanzionatori, sui più importanti beni del privato. Anche tenendo presente la motivazione dalla quale, come si é innanzi notato, é presumibilmente partito il legislatore nell'emanare il divieto previsto dal primo comma dell'art. 1 della legge n. 1085 del 1929, il ricorso alla sanzione penale appare sproporzionato: se si tiene conto che, con la Costituzione, é caduta anche quella motivazione, tal ricorso si palesa oggi manifestamente irrazionale.

Non si può, certo, fondatamente sostenere che si tuteli, attraverso l'incriminazione del fatto in discussione, lo Stato rappresentato dalla bandiera esposta; lo Stato estero trova già sufficiente tutela nell'art. 299 del codice penale che, appunto, incrimina, sia pure a condizione di reciprocità (v. art. 300 c.p.) il vilipendio alla bandiera ufficiale o ad altro emblema di Stato estero. Né é sostenibile che si tuteli, attraverso la semplice esposizione in pubblico di bandiere estere, lo Stato italiano nei suoi rapporti con gli Stati esteri, giacché un turbamento di tali rapporti può aversi soltanto nell'ipotesi d'offesa o vilipendio della bandiera dello Stato estero; tanto più che, come già s'é rilevato e come sostiene il giudice a quo, nell'ipotesi d'eventuale, eccezionale pericolo di turbamento dei predetti rapporti internazionali o per motivi d'ordine pubblico, permangono inalterate le facoltà ed i poteri che le norme dei rami dell'ordinamento diversi dal penale attribuiscono alle autorità istituzionali dello Stato.

Né si può, infine, obiettare che é comune alle incriminazioni di fatti contravvenzionali la mancanza di ben individuati oggetti di tutela, prevenendo le stesse incriminazioni pericoli di lesione di ulteriori beni: sono, infatti, "inafferrabili" appunto questi "ulteriori" beni che sarebbero garantiti attraverso l'incriminazione del fatto contravvenzionale in discussione.

Vero é che, attraverso la penalizzazione del fatto in esame, non é tutelato alcun bene giuridico: il fatto stesso manca di qualsiasi oggetto giuridico specifico e della benché minima ratio incriminandi.

5. - La struttura della norma penale risultante dal combinato disposto degli artt. 1 e 3 della legge n. 1085 del 1929 conferma quanto ora osservato e svela anche altra, gravissima discriminazione, manifestamente irrazionale.

L'autorizzazione di cui alla lettera c) del più volte citato art. 1 della legge n. 1085 del 1929 non rientra nella fattispecie tipica del reato in esame: la predetta autorizzazione costituisce "condizione di liceità" della stessa fattispecie ma non incide né sulla struttura né sulla qualificazione della medesima. Il fatto tipico, legislativamente definito, consiste nell'"esposizione in pubblico di bandiere estere". Anche ad aggiungere, alla descrizione tipica, l'espressione "senza autorizzazione", e cioè anche ad assumere la mancanza di quest'ultima quale elemento negativo del fatto, le cose non cambiano: l'autorizzazione, in ogni caso, fa mutare la qualificazione "negativa", già impressa dal legislatore al "tipo" (esposizione, in pubblico, di bandiere estere) e, escludendo il rilievo penale del comportamento conforme al "tipo", impedisce, in concreto, il sorgere della punibilità.

La struttura della norma in discussione é "simile" a quella delle norme parzialmente in bianco e cioè a quella delle norme che, pur descrivendo tutto il comportamento (ed anche, eventualmente, l'evento naturalistico) condizionano l'esclusione dell'antigiuridicità ad altra norma o ad altro fatto: tuttavia, mentre in queste ultime, almeno di regola, il fatto (ad esempio l'abilitazione di cui all'art. 662 c.p. o la licenza di cui all'art. 348 c.p. ecc.) che condiziona in concreto l'esclusione dell'antigiuridicità del comportamento conforme al tipo legislativamente definito, oltre ad essere concesso dalle autorità istituzionali, é soggetto a ben precise regole, l'autorizzazione prevista dalla norma penale in esame é assolutamente discrezionale. Nella specie manca, cioè, la benché minima indicazione dei "criteri" in base ai quali l'autorizzazione può esser concessa. Da ciò discende che, a parte ogni altra questione di costituzionalità, la concreta punibilità del fatto é rimessa all'"arbitrio" dell'autorità: sicché i soggetti che non ottengono la predetta autorizzazione vengono sanzionati penalmente e sono, pertanto, trattati in maniera diversa, opposta e deteriore, rispetto a quella in cui sono trattati coloro i quali, in virtù della incontrollabile ed assolutamente discrezionale autorizzazione, vanno del tutto esenti da pena.

E la discriminazione (dovrebbe ormai esser evidente) é manifestamente irrazionale, anche in base a quanto sopra osservato in relazione all'assunta, ex adverso, tutela del pericolo di turbamento delle relazioni internazionali ed agli assunti motivi d'ordine pubblico.

Razionale é stabilire la normale liceità dell'esposizione in pubblico delle bandiere estere, in base all'evoluzione del significato che le bandiere di tutti gli Stati oggi esprimono, salvo i divieti, specifici ed eccezionali, che, a parere del giudice a quo, possono sempre esser determinati dalle autorità istituzionali (e non politiche) ai sensi ed in virtù delle norme di rami dell'ordinamento diversi dal penale.

6. - Né é il caso d'insistere sulle gravi anomalie che la norma penale in discussione genera. Mancando il fatto tipico (l'esposizione in pubblico di bandiere estere) d'ogni significatività ed offensività, prescindendo esso anche da ogni valutazione relativa alle finalità oggettive del comportamento tipico, non solo possono profilarsi situazioni paradossali, come quella relativa al caso di specie (l'adesione alla Resistenza, al ricordo di coloro che diedero la vita per la realizzazione dell'unità morale e politica dell'Italia, da parte di minoranze etniche, configurata come illecito penalmente sanzionato) ma vengono, in ogni caso, anche irrazionalmente stravolti i principi che, ad esempio in tema di elemento soggettivo del reato, costituiscono acquisizioni costituzionalmente sancite e certamente irreversibili. Allorché il fatto tipico é costruito esclusivamente da elementi naturalistici, la volontà del medesimo viene a confondersi con il dolo che, in ogni ipotesi di illecito penale, é, invece, volontà del significato del fatto tipico, significato per il quale il fatto stesso é incriminato. É ben vero che l'ipotesi in esame é contravvenzionale e che, pertanto, si risponde anche per sola colpa: ma é quanto meno discutibile una "colpa" che, prescindendo del tutto dall'autorizzazione (che, si é già notato, non attiene al fatto tipico) si risolve nella mera volontà dell'esposizione in pubblico di bandiere estere. A quali regole od a quali norme può farsi riferimento per determinare la "negligenza", "imprudenza" ecc.? Né va dimenticato che, l'autorizzazione all'esposizione delle bandiere estere, escludendo l'antigiuridicità del fatto attiene, come s'é già sottolineato, alla qualificazione e non al fatto tipico: l'ignoranza e l'errore su tale autorizzazione rimarrebbero, fra l'altro, almeno a parere d'autorevole dottrina, fuori dell'ambito d'operatività dell'art. 47, ultimo comma, c.p., e, in virtù dell'art. 5 c.p., del tutto privi di rilevanza penale.

Non v'é chi non veda, in conseguenza, che non soltanto v'é discriminazione irrazionale tra soggetti che "fortunatamente" riescono ad ottenere l'autorizzazione all'esposizione di bandiere estere e soggetti che, magari per ignoranza od errore sull'autorizzazione stessa, sono penalmente sanzionati per aver commesso lo stesso fatto tipico realizzato dai primi, ma che, mentre per ogni illecito penale, in tema di elemento subiettivo del reato, si risponde in virtù di ben precise norme e principi, anche costituzionalmente garantiti, per il reato in esame si dovrebbe rispondere in base a principi disattesi dalla dottrina e sconosciuti alla vigente legislazione penale.

7. - L'art. 1 della legge n. 1085 del 1929 va dichiarato incostituzionale nella sola parte in cui subordina alla autorizzazione delle autorità politiche locali l'esposizione di bandiere di Stati esteri, giacché, ovviamente, rimangono inalterate tutte le norme e consuetudini internazionali vigenti in materia, come tutte le norme interne relative all'uso di bandiere di Stati esteri all'esterno degli edifici che godono dell'immunità riconosciuta dal diritto internazionale od in occasione di visite di sovrani esteri o di loro delegati. Conseguentemente l'art. 3 della predetta legge va dichiarato incostituzionale nella parte in cui prevede la sanzione penale per la trasgressione al divieto d'esposizione in pubblico di bandiere estere senza preventiva autorizzazione delle autorità politiche locali.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara costituzionalmente illegittimi:

a) l'art. 1 della legge 24 giugno 1929, n. 1085, nella parte in cui fa divieto d'esposizione in pubblico di bandiere estere, consentendo l'esposizione delle medesime soltanto quando sia stata preventivamente autorizzata dalle autorità politiche locali;

b) l'art. 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1085, nella parte in cui prevede la sanzione penale per la trasgressione al divieto d'esposizione in pubblico, senza autorizzazione delle autorità politiche locali, di bandiere estere.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 1987.

 

Il Presidente: LA PERGOLA

Il Redattore: DELL'ANDRO

Depositata in cancelleria il 25 maggio 1987.

Il direttore della cancelleria: VITALE