Sentenza n. 297 del 1986

 

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SENTENZA N. 297

 

ANNO 1986

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Antonio LA PERGOLA. Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL’ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 17, settimo comma del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95 (Disposizioni relative al mercato mobiliare ed al trattamento fiscale dei titoli azionari), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 216 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, recante disposizioni relative al mercato mobiliare ed al trattamento fiscale dei titoli azionari), art. 1, così come modificato dall'art. 51 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), giudizi promossi con due ordinanze emesse il 28 maggio 1985 dal Pretore di Roma nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Garbagnati Edoardo e Venturi Romano, iscritte ai nn. 227 e 228 del registro ordinanze 1986 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, 1a serie speciale, dell'anno 1986;

 

Visti gli atti di costituzione di Garbagnati Edoardo e di Venturi Pomano;

 

Udito nell'udienza pubblica dell'11 novembre 1986 il Giudice relatore Giovanni Conso;

 

Uditi l'avv. Giovanni Maria Flick per Garbagnati e l'avv. Francesco Saverio Musseri per Venturi;

 

Ritenuto in fatto

 

Il Pretore di Roma, con due ordinanze emesse il 28 maggio 1985, nel corso dei procedimenti penali a carico rispettivamente di Garbagnati Edoardo e Venturi Romano, ha denunciato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, l'illegittimità dell'art. 17, settimo comma, del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, così come sostituito dall'art. 51 della legge 24 novembre 1961, n. 689.

 

La difesa degli imputati, ai quali era stato addebitato di vare, l'uno nella qualità di amministratore della AEDES S.p.a. e l'altro nella qualità di sindaco della Agricola Finanziaria S.p.A., dichiarato con ritardo non superiore a trenta giorni sul prescritto termine del 31 marzo 1983 i compensi percepiti durante l'anno solare precedente, aveva richiesto al Pretore: in via principale, il proscioglimento ex art. 2 del codice penale, perché il fatto contestato non sarebbe più preveduto dalla legge come reato stante la depenalizzazione delle contravvenzioni alla legge 7 giugno 1974, n. 216; in subordine, che venisse sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 17 della legge n. 216 del 1974, perché irrazionalmente discriminatorio nell'irrogare sanzioni penali solo nei confronti di "una parte di più soggetti tutti parimenti obbligati ad un medesimo comportamento".

 

Rilevato che la depenalizzazione disposta in via generale dall'art. 32, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, é esclusa, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, per i reati punibili, come nella specie, "con pene alternative nelle ipotesi aggravate astrattamente configurabili a seconda delle singole fattispecie della forma base di reato", e che anche il concorso apparente di norme fra le immeditate ripenalizzazioni disposte dagli artt. 49 e seguenti e l'art. 42 della legge n. 689 del 1981 va risolto nel senso della prevalenza delle nuove specifiche penalizzazioni immediatamente operanti "sulle disposizioni generali depenalizzatrici provvisoriamente conservate in vigore", il giudice a quo ha accolto l'eccezione di illegittimità sollevata dalla difesa degli imputati, ravvisando nelle norme impugnate un "irrazionale discriminatorio trattamento di più soggetti obbligati a comportamenti identici punendone penalmente soltanto alcuni".

 

Il Pretore muove dalla considerazione che, al fine di assicurare la tutela del pubblico risparmio raccolto da società di capitali quotate in borsa e da enti i quali abbiano per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali ed i cui titoli siano quotati in borsa, l'art. 17 della legge n. 216 del 1974 prescrive:

 

a) a carico degli amministratori, dei sindaci e dei direttori generali di società quotate l'obbligo di dichiarare alla Consob le partecipazioni dirette o indirette nelle società stesse o in società controllate (primo comma);

 

b) a carico dei medesimi soggetti l'obbligo di informare la Consob delle ulteriori operazioni partecipative (quarto comma);

 

c) a carico degli amministratori, sindaci e revisori sia di società quotate in borsa sia di enti che emettano titoli quotati l'obbligo di comunicare i compensi percepiti a qualsiasi titolo, anche in società controllate, nell'anno precedente.

 

Dall'assetto normativo in parola risulterebbe, quindi, che, pur in presenza di un uguale obbligo di comunicare i compensi gravante su coloro i quali ricoprono uffici diretti di società od enti, la sanzione colpisce soltanto i primi "con evidente discriminazione a loro danno priva di ragionevolezza, posto che la finalità comune dell'obbligo di comunicazione a carico di entrambe le categorie di obbligati risponde alle esigenze di tutela del risparmio contro quelle degenerazioni speculative che vanno sotto il nome di insider trading".

 

Il giudice a quo prospetta anche l'eventualità di una interpretazione alternativa, nel senso che "l'espressione 'i soggetti indicati nel primo comma potrebbe esser riferita al solo soggetto lessicale della proposizione e non anche al successivo complemento di specificazione riguardante esclusivamente le società quotate, così risolvendosi nella mera indicazione di quanti ricoprono uffici direttivi in società od enti, indifferentemente": ma tale interpretazione, ad avviso dello stesso Pretore, sarebbe, da un lato, contraddetta dal lessico adoperato dal legislatore e, dall'altro, priva di ogni riscontro nel "diritto vivente, che, allo stato, non risulta ancora essersi formato".

 

Le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state entrambe pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 24, 1a serie speciale del 28 maggio 1986.

 

Nel primo giudizio si é costituito il Garbagnati, mediante memoria di costituzione e deduzione del suo difensore prof. avv. Giovanni Maria Flik, chiedendo, in via principale, che la questione venga dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, risultando la violazione contestata all'imputato depenalizzata dall'art. 32 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e, in via subordinata, che venga dichiarata l'illegittimità costituzionale "dell'intero ultimo comma dell'articolo 17 legge 7 giugno 1974, n. 216".

 

Nel secondo giudizio si é costituito il Venturi, mediante atto di deduzioni del suo difensore avv. Giovanni Compagno, chiedendo dichiararsi illegittima la norma denunciata.

 

In prossimità dell'udienza la difesa del Garbagnati ha presentato brevi note con le quali, ribadite le argomentazioni esposte in una memoria depositata nella cancelleria della Pretura di Roma, deduce che i motivi di diseguaglianza rilevati dal giudice a quo sono stati "percepiti" dalla legge 4 giugno 1985, n. 281, il cui art. 14, sostitutivo dell'art. 17, ultimo comma, del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito, con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, modificato per effetto della legge 24 dicembre 1975, n. 706, ed ulteriormente modificato dall'art. 51 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ha esteso "ad entrambe le categorie di preposti il sistema sanzionatorio conseguente alla omessa dichiarazione o comunicazione".

 

La novazione normativa non avrebbe, peraltro, inciso, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 24 del 1958 e n. 77 del 1963), "sulla perdurante rilevanza della questione di legittimità". L'assetto introdotto dalla legge n. 281 del 1985 non esclude "che al fatto oggetto di accertamento penale sia tuttora applicabile - in base al principio che individua il tempo del commesso reato; in base ai principi regolanti la successione di leggi penali nel tempo; nonché in base al principio di irretroattività della disposizione penale incriminatrice - proprio e soltanto la norma, nella sua originaria formulazione, per la quale é stato sollevato il dubbio di legittimità costituzionale".

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due ordinanze del Pretore di Roma, del tutto coincidenti nella motivazione e nel dispositivo, donde la riunione dei relativi giudizi per una decisione comune, sottopongono al vaglio di questa Corte, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, il settimo ed ultimo comma dell'art. 17 del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, quale risultava dopo la sua sostituzione ad opera dell'art. 51 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e prima della sua ulteriore sostituzione ad opera dell'art. 14 della legge 4 giugno 1985, n. 281. E ciò con specifico riguardo alla parte in cui tale comma operava "irrazionale discriminatorio trattamento di più soggetti obbligati a comportamenti identici punendone penalmente soltanto alcuni".

 

2. - Più precisamente, il dubbio di legittimità costituzionale coinvolge quella parte del comma in esame che - richiamandosi alla prescrizione "di comunicare per iscritto alla Commissione (nazionale per le società e la borsa), entro il mese di marzo, i compensi percepiti nell'anno solare precedente a qualsiasi titolo e sotto qualsiasi forma anche in società controllate", contenuta nel sesto comma dello stesso art. 17 - rendeva variamente passibili di sanzione penale, in caso di omessa o ritardata o falsa comunicazione, soltanto "i soggetti indicati nel primo comma" (cioé, gli amministratori ed i sindaci di società con azioni quotate in borsa) e non, invece, tutti i destinatari del relativo obbligo (cioé, gli amministratori ed i sindaci o revisori delle società con azioni quotate in borsa e degli enti aventi per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali, i cui titoli siano quotati in borsa).

 

3. - L'entrata in vigore, subito dopo le ordinanze di rimessione, della legge 4 giugno 1985, n. 281, il cui art. 14 hadato vita ad una nuova sostituzione del settimo comma dell'art. 17 del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216', art. 1, estendendo l'operatività delle sanzioni penali a tutti "i soggetti che non eseguono le dichiarazioni e comunicazioni prescritte dal presente articolo nei termini ivi stabiliti", così da eliminare la disparità di trattamento lamentata dal giudice a quo, fa sorgere il problema dell'eventuale restituzione degli atti al fine di verificare la persistenza del requisito della rilevanza.

 

Come é stato esattamente osservato dalla difesa di una delle parti private costituite, la risposta non può che essere negativa: trattandosi di una norma che ha esteso l'ambito dei soggetti punibili per determinati comportamenti, ogni applicazione retroattiva e, quindi, ogni incidenza sui procedimenti a quibus risulta preclusa dall'art. 2, primo comma, del codice penale e dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, oltreché dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione.

 

4. - La difesa della stessa parte privata contesta, invece, la concreta rilevanza della dedotta questione sotto un altro punto di vista. Muovendo dallo specifico addebito rivolto all'imputato (comunicazione eseguita con un ritardo non superiore a trenta giorni, come tale punibile con la sola pena dell'ammenda da lire 1 milione a lire 20 milioni, a differenza della comunicazione omessa od eseguita con un ritardo superiore a trenta gironi, punibile con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda da lire 2 milioni a lire 40 milioni, é della falsa comunicazione, punibile con l'arresto fino a tre anni), si sostiene che la previsione di reato così ricavabile dal testo dell'art. 17, settimo comma, del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, quale sostituito ad opera dell'art. 51 della legge 24 novembre 1981, n. 689, sarebbe venuta meno a seguito della depenalizzazione dei reati punibili con la sola multa o con la sola ammenda, disposta in via generale dall'art. 32, primo comma, di tale ultima legge: depenalizzazione resa possibile nella specie dalla differita entrata in vigore (29 maggio 1982) delle norme del capo che racchiude l'art. 32 rispetto all'entrata in vigore (15 dicembre 1981) di tutte le altri parti, art. 51 compreso, della legge 24 novembre 1981, n. 689.

 

Ma detta tesi difensiva é già stata confutata nelle ordinanze di rimessione con così diffuse e certamente non inadeguate argomentazioni (l'applicazione dell'art. 32, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, sarebbe preclusa sia dalla prevalenza che l'art. 15 del codice penale assicurerebbe, anche successivamente al 29 maggio 1982, a disposizioni speciali come quella dell'art. 51, sia dall'espressa previsione dell'art. 32, secondo comma, che sottrae alla depenalizzazione i reati che "nelle ipotesi aggravate siano punibili con pena detentiva") da non consentire a questa Corte di contrapporre alle valutazioni effettuate dal giudice a quo in sede di individuazione del thema decidendum eventuali proprie valutazioni in senso contrario (v. sentenze nn. 1, 89 e 238 del 1984, n. 67 del 1985).

 

5. - Preso atto della rilevanza della questione a fronte dell'argomentata applicabilità nei procedimenti a quibus della norma penale che costituisce l'oggetto del giudizio di legittimità, l'esame del merito non può non darsi immediato carico della possibilità, scrupolosamente prospettata dallo stesso giudice a quo, di una più lata interpretazione del settimo comma dell'art. 17 del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, quale risultava dopo la sua sostituzione ad opera dell'art. 51 della legge 24 novembre 1981, n. 689: dell'interpretazione, cioé, che, ritenendo applicabile tale comma pure a coloro che ricoprissero l'ufficio di amministratore o di sindaco in "enti aventi per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali, i cui titoli siano quotati in borsa", eviterebbe la lamentata disparità di trattamento con gli amministratori ed i sindaci delle "società con azioni quotate in borsa".

 

Anche qui, tuttavia, le considerazioni svolte nelle ordinanze di rimessione per dimostrare la insostenibilità di una lettura estensiva della formula "i soggetti indicati nel primo comma" non permettono a questa Corte di opporre l'interpretazione alternativa disattesa dal giudice a quo all'interpretazione su cui é stata impostata la censura di illegittimità costituzionale, tanto meno nell'assenza di un diverso orientamento giurisprudenziale.

 

6. - Così puntualizzata, la questione in esame diventa agevolmente sintetizzabile: la constatazione che "in presenza di un uguale obbligo di comunicare i compensi gravante su coloro che ricoprono uffici direttivi di società o enti, la testuale formulazione... della norma... commina la sanzione penale soltanto a carico dei primi" si risolve in una "evidente discriminazione a loro danno priva di ragionevolezza", cui solo una declaratoria di illegittimità costituzionale potrebbe porre riparo per il passato; poiché, peraltro, "il divieto di dilatazioni in malam partem delle norme penali" impedirebbe di eliminare l'irragionevole discriminazione dichiarando illegittima la parte che escludeva dalla sanzione soggetti parimenti obbligati alla comunicazione, sarebbe necessaria una pronuncia di illegittimità che rendesse "inapplicabile" la "norma discriminatoria denunciata" ai soggetti da essa espressamente menzionati e, quindi, in ogni caso, con conseguente completa estromissione di tale norma dall'ordinamento.

 

La questione non é fondata.

 

7. - Le affermazioni del giudice a quo sono senz'altro da condividere, sia là dove mettono in risalto la "discriminazione priva di ragionevolezza" insita nel "punire penalmente soltanto alcune" fra "più soggetti obbligati a comportamenti identici" nell'esercizio di funzioni del tutto corrispondenti, sia là dove sottolineano l'impossibilità di utilizzare lo strumento della declaratoria di illegittimità costituzionale per dilatare in malam partem l'ambito di applicazione di una norma penale, opponendovisi il principio di legalità non meno che il principio di rilevanza (v. sentenza n. 44 del 1977). Ma l'insieme di tali considerazioni non comporta necessariamente l'illegittimità costituzionale della norma sottoposta a censura.

 

Questa Corte ha già avuto modo di precisare, proprio con particolare riguardo alle norme penali incriminatrici, che in linea di principio "un'irragionevole omissione del legislatore non può condurre alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di altra norma di per sé ragionevole" (v. sentenza n. 168 del 1982 ed ordinanza n. 303 del 1984).

 

A riconoscere che la previsione contenuta nel settimo comma dell'art. 17 del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, quale sostituito ad opera dell'art. 51 della legge 24 novembre 1981, n. 689, sia una norma di per sé ragionevole é lo stesso giudice a quo, quando dà atto al legislatore di essersi preoccupato - anche se non compiutamente, vista l'omissione di alcuni soggetti nelle previsioni sanzionatorie - dell'"esigenza di tutela del risparmio contro quelle ricorrenti degenerazioni speculative che vanno sotto il nome di insider trading". Una tutela che ancor meglio si evidenzia allorché dal comportamento rappresentato da una comunicazione effettuata con ritardo non superiore a trenta giorni il legislatore passa a sanzionare - sempre con gli stessi limiti soggettivi, ma avvalendosi anche della pena detentiva - i comportamenti rappresentati da una comunicazione effettuata oltre i trenta giorni, se non addirittura omessa, o, più gravemente ancora, da una comunicazione falsa.

 

Né esistono, nella specie, motivi per derogare al principio che, pur di fronte ad un'omissione irragionevole, vuole salva la norma di per sé ragionevole. L'unico limite a tale salvezza é, inverso, riscontrabile quando la discriminazione fra soggetti assurga a lesione qualificata, e, perciò, diretta, dell'art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto distinzione dovuta a ragioni di "sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali". Il che non può di certo ravvisarsi - e, comunque, nessuna indicazione del genere si ritrova nelle ordinanze di rimessione - in ordine alla disparità qui concretamente lamentata.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, settimo comma, del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni della legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, quale risultava dopo la sua sostituzione ad opera dell'art. 51 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e prima della sua ulteriore sostituzione ad opera dell'art. 14 della legge 4 giugno 1985, n. 281, questione sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Roma con le due ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1986.

 

 

Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO -Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL’ANDRO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO

 

Depositata in cancelleria il 31 dicembre 1986.