Sentenza n. 150 del 1986

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SENTENZA N. 150

ANNO 1986

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Livio PALADIN, Presidente 

Prof. Antonio LAPERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL’ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge 24 aprile 1941, n. 392 (Trasferimento ai comuni del servizio dei locali e dei mobili degli uffici giudiziari) e dell'art. 91, lettera D, n. 1, del r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (testo unico della legge comunale e provinciale), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 13 gennaio 1978 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra l'Amministrazione delle Finanze dello Stato ed il Comune di Frosinone, iscritta al n. 579 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38 dell'anno 1979;

2) ordinanza emessa il 12 febbraio 1980 dal Consiglio di Stato - Sez. IV giurisdizionale sul ricorso proposto dal Ministero delle Finanze ed altri contro il Comune di Milano, iscritta al n. 689 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 332 dell'anno 1980;

3) ordinanza emessa l'8 aprile 1983 dalla Corte d'appello di Milano nel procedimento civile vertente tra l'Amministrazione delle Finanze dello Stato ed il Comune di Milano, iscritta al n. 922 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 74 dell'anno 1984;

visti gli atti di costituzione del Comune di Milano, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 18 febbraio 1986 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari;

uditi gli Avv.ti Pietro Marchese e Francesco Pirocchi per il Comune di Milano e l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza in data 13 gennaio 1978 - emessa nel corso del giudizio civile promosso dall'amministrazione finanziaria nei confronti del Comune di Frosinone, del quale si chiedeva la condanna al pagamento della pigione dovuta per l'uso del palazzo di giustizia di quella città - il Tribunale di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost., degli artt. 2, terzo e quarto comma, e 3, terzo comma, della legge 24 aprile 1941, n. 392 (trasferimento ai comuni del servizio dei locali e dei mobili degli uffici giudiziari), nella parte in cui, prevedendo che il contributo annuale dello Stato ai Comuni per lo stabilimento, l'uso e la manutenzione dei locali adibiti ad uffici giudiziari sia automaticamente integrato sino all'importo della pigione dovuta dai Comuni allo Stato nel caso in cui locali demaniali avessero già tale destinazione al momento di entrata in vigore della legge, rimettono invece tale adeguamento alla discrezionalità (del legislatore o) dell'amministrazione nel caso in cui locali demaniali siano adibiti ad uso di uffici giudiziari in epoca successiva all'entrata in vigore della legge stessa (come nel caso di specie).

La disparità di trattamento tra le due ipotesi di destinazione già in corso e destinazione posteriore all'entrata in vigore della legge sarebbe del tutto irragionevole, "non essendo ravvisabile tra le due situazioni alcuna differenza che possa valere a spiegare una diversità così sostanziale ed incisiva, come quella tra adeguamento automatico e discrezionale del contributo della pigione, e conseguentemente tra il riconoscimento di un diritto soggettivo e di un semplice interesse".

2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio tramite l'Avvocatura dello Stato, ha instato per la declaratoria di infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale, sostenendo che gli assunti del giudice a quo sarebbero viziati da un evidente travisamento dei limiti di operatività del secondo periodo del secondo comma dell'art. 3 della l. n. 392 del 1941, prevedente che "se la pigione alla data di entrata in vigore della presente legge non fosse stata ancora determinata, lo Stato la stabilirà con le norme di cui al capoverso successivo, aumentando del relativo importo l'annuo contributo di cui al precedente art. 2".

Invero, per gli immobili demaniali già adibiti ad uffici giudiziari ma per i quali, alla data di entrata in vigore della legge, il canone non era stato ancora determinato, l'automatica integrazione del contributo non appena tale canone fosse stato appunto fissato mirò ad assicurare il medesimo trattamento anche ai Comuni che in tale situazione fossero venuti a trovarsi, evitando la necessità di un nuovo ricorso allo strumento legislativo al fine di integrare il contributo che non aveva potuto ovviamente ricomprendere un canone non ancora determinato. Tutto ciò, peraltro, in via del tutto contingente, avendo la norma operato "solo nel primo periodo di applicazione della legge ed in relazione alle specifiche, temporanee situazioni cui ha inteso sopperire".

3. - Con ordinanza emessa il 12 febbraio 1980 nel giudizio d'appello avverso la decisione del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia che aveva annullato, su ricorso del Comune di Milano, il decreto ministeriale con il quale era stato determinato in lire 440.550.000 il canone annuo di locazione dovuto dal Comune per i locali demaniali adibiti ad uffici giudiziari per il periodo dal 1 gennaio al 31 dicembre 1977 nonché la deliberazione dell'intendente di finanza con la quale lo stesso Comune era stato invitato a pagare la somma di lire 2.202.750.000 per canoni complessivamente dovuti dal 1 gennaio 1972 al 31 dicembre 1976, il Consiglio di Stato, su eccezione del Comune di Milano, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della stessa legge n. 392 del 1941, in riferimento agli artt. 5, 110 e 128 della Costituzione.

Premesso che l'"autonomia si esprime ed é garantita per ciascun Comune nei limiti territoriali che a questo sono propri, come misura e riferimento degli interessi riguardo ai quali essa ha trovato collocazione costituzionale", si afferma in ordinanza che la determinazione delle funzioni dei Comuni, affidata dall'art. 128 Cost. a leggi generali della Repubblica, "trova la sua naturale e logica dimensione in quei limiti territoriali e nella loro proiezione sugli interessi cui le funzioni determinate sono riferibili, una volta che per l'art. 5 Cost. i principi ed i metodi della legislazione della Repubblica debbano essere adeguati alle esigenze della autonomia". Da qui il corollario che non può il legislatore attribuire ai Comuni funzioni o compiti eccedenti i limiti della loro autonomia senza che a tali funzioni o compiti partecipi l'ente nella cui sfera essi abbiano rilevanza; tanto meno quando la stessa Costituzione li assegna ad enti diversi, come per "il caso della provvista e della manutenzione dei locali adibiti ad uffici giudiziari, che l'art. 110 Cost. attribuisce al Ministro della giustizia, precludendo con ciò ogni diversa attribuzione con legge ordinaria".

Il contrasto con gli artt. 5 e 128 Cost. - conclude il giudice a quo - sussisterebbe ugualmente quand'anche si ritenesse che la l. n. 392 del 1941 non contempla alcuna attribuzione di funzioni ai Comuni ma semplicemente si limita a porre a loro carico oneri di spesa in ordine a funzioni che competono allo Stato, in tal caso "mancando appunto la determinazione delle funzioni a dare contenuto all'autonomia comunale e privandola dell'autodeterminazione circa la ripartizione della spesa e la provvista delle corrispondenti entrate in ordine al complesso delle funzioni determinate in altra sede legislativa".

4. - Le stesse norme, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, sono state denunciate dalla Corte d'appello di Milano, su eccezione del Comune di Milano, con ordinanza emessa in data 8 aprile 1983 nel giudizio d'appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano che aveva condannato il Comune di quella città a pagare all'amministrazione delle finanze una somma di denaro a titolo di pigione per l'uso, e di indennizzo per l'occupazione, di locali adibiti ad uffici giudiziari. Con la stessa ordinanza é stata altresì sollevata, sempre in riferimento agli artt. 5, 110 e 128 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 91, lettera D, n. 1, del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con r.d. 3 marzo 1934, n. 383, nella parte in cui stabilisce che le spese relative all'ufficio del conciliatore sono obbligatoriamente a carico dei Comuni.

La premessa di fondo delle argomentazioni svolte dal giudice a quo - che fa esplicito riferimento alla precedente, analoga ordinanza del Consiglio di Stato - é costituita dall'affermazione che "gli artt. 5 e 128 Cost., riconoscendo il Comune come circoscrizione territoriale autonoma nell'ambito dei principi fissati dalle leggi della Repubblica, attribuiscono significato costituzionale alla relazione tra le funzioni ed il territorio e quindi alla competenza locale come misura e riferimento degli interessi considerati rilevanti dalla normativa costituzionale". In tale quadro - sostiene la Cortedi appello di Milano - "non pare privo di fondamento sostenere l'impossibilità di attribuire ai Comuni funzioni e compiti eccedenti, sia pure parzialmente, i limiti della loro autonomia costituzionalmente garantita, privando in pari tempo ogni altro ente del potere di partecipare a funzioni e compiti destinati ad avere rilevanza nella loro sfera d'autonomia".

In ordine all'addotto contrasto con l'art. 110 Cost. vengono prospettati gli stessi argomenti di cui alla precedente ordinanza mentre in ordine alla immanente violazione degli artt. 5 e 128 Cost. anche nell'ipotesi in cui si ritenesse che le norme impugnate si limitano a porre a carico dei Comuni oneri di spesa per funzioni statali, si pone altresì in rilievo l'alterazione del rapporto tra compiti propri dei Comuni e copertura finanziaria nel senso che l'imposizione di oneri per attività estranee priverebbe "l'ente obbligato del controllo sulle risorse necessarie per l'assolvimento del complesso delle funzioni istituzionali tipiche".

Quanto alla prospettata illegittimità costituzionale dell'art. 91, lettera D, n. 1, del T.U. della legge comunale e provinciale, si afferma che la coincidenza della giurisdizione territoriale del giudice conciliatore con l'estensione territoriale del Comune non toglie che il conciliatore esercita pur sempre una funzione giurisdizionale civile, "non diversa qualitativamente da quella degli altri giudici, come si desume dagli artt. 1, 4, 20 e 29 dell'ordinamento giudiziario, dal titolo secondo del secondo libro del codice di procedura civile, nonché dall'art. 10, n. 2, l. 24 marzo 1958, n. 195, che attribuisce al C.S.M. la nomina e la revoca dei conciliatori"; e che, dunque, esso partecipi all'amministrazione della giustizia e conseguentemente a "quel complesso di servizi la cui organizzazione ed il cui funzionamento resta affidato, a norma dell'art. 110 Cost., al Ministro della giustizia". La Costituzione prefigurerebbe insomma in modo unitario l'esercizio della funzione giudiziaria, costituente un'attività rientrante tra gli scopi primari dello Stato, anche sotto il profilo dell'apprestamento dei necessari supporti strumentali che, in quanto posti a carico di un ente locale, non valgono certo a costituire un elemento a favore del superamento dei possibili condizionamenti materiali dell'ente locale nei confronti del titolare di una funzione giurisdizionale.

5. - In entrambi i giudizi di costituzionalità si é costituito il Comune di Milano instando per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme denunciate. In atti di costituzione il Comune di Milano, ribaditi gli assunti dei giudici a quibus, osserva che le norme della l. n. 392 del 1941 e del r.d. n. 383 del 1934 si pongono in contrasto non solo con singole disposizioni della Carta fondamentale, ma addirittura con i principi ispiratori della Costituzione, "realizzando nel contempo un passo indietro rispetto alla anteriore legislazione del 1931 (t.u. per la finanza locale approvato con r.d. 14 settembre 1931, n. 1175) che trasferiva definitivamente allo Stato tutti gli obblighi ed adempimenti in questione", obbligandolo a rimborsare integralmente ai Comuni le spese effettuate in materia di giustizia (art. 331, secondo e terzo comma, del r.d. ult. cit.).

6. - Nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Consiglio di Stato é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, instando per la declaratoria di infondatezza delle sollevate questioni.

Ricordati i precedenti normativi in materia ed i provvedimenti che avevano dato luogo alla controversia de qua, l'Avvocatura sostiene che della tradizionale bipartizione delle funzioni dei Comuni in funzioni "proprie" (dirette cioé "alla soddisfazione di interessi esclusivamente propri della popolazione comunale epperciò costituenti quasi la sfera naturale di attività dei Comuni") e funzioni "delegate" (volte "alla soddisfazione di interessi generali, cioé appartenenti in tutto o in parte all'intera comunità nazionale") il costituente ha certamente tenuto conto nella formulazione degli artt. 5, 128 e 129 Cost.. E ciò benché fosse stato da taluno negato ogni valore giuridico al concetto di funzione propria, posto che tutte le funzioni del Comune procedono da un'assegnazione con legge dello Stato e che anche le funzioni cosiddette "delegate" (quali, ad es., quelle relative ai servizi dello stato civile, della leva militare, della formazione delle liste dei giurati di Corte d'assise, alle sedi di alcuni uffici governativi, all'alloggio dei carabinieri e delle truppe di temporaneo soggiorno) sono comunque esercitate dal Comune in nome proprio, riconoscendosi peraltro che solo in relazione alle funzioni proprie il Comune agisce come soggetto di autonomia politica ed organizzativa, laddove nell'esercizio delle funzioni c.d. delegate assume piuttosto il carattere di organo indiretto dello Stato.

Se, dunque, può convenirsi col giudice a quo che il costituente, privilegiando le autonomie locali, abbia inteso favorire il diretto perseguimento da parte dei Comuni degli interessi esclusivamente propri della popolazione locale, non può da ciò evincersi anche che si siano volute eliminare quelle funzioni tradizionalmente attribuite ai Comuni pur se intese al perseguimento di fini eccedenti l'ambito del territorio comunale. Ne costituirebbe incontrovertibile prova la disposizione di cui all'art. 129 Cost., strettamente collegata a quella dell'art. 128, di cui completa la portata nel senso precisato. Autonomia e decentramento non si porrebbero insomma in posizione antinomica nel disegno costituzionale, ma costituirebbero esigenze alle quali, ex art. 5 Cost., deve ispirarsi l'intera legislazione dello Stato, autorizzato dagli artt. 118 e 129 Cost. alla "utilizzazione dei comuni anche quali strumenti di decentramento statale e regionale".

Secondo quanto chiarito dalla stessa Corte costituzionale con sentenze n. 52 del 1969 e n. 118 del 1977, la garanzia accordata alle autonomie locali dall'art. 128 Cost. é di contenuto del tutto diverso. Essa é volta anzitutto a precludere alle regioni ogni ingerenza nell'ordinamento e nelle funzioni di province e comuni; in secondo luogo a vincolare lo Stato "a disciplinare in modo organico ed uniforme - esclusa la possibilità di leggi singolari o in deroga - l'ordinamento e le funzioni dei Comuni e delle Province, così che tutti siano posti in un piano di eguaglianza". Condizioni entrambe rispettate dalla legge impugnata, che disciplina in modo organico ed uniforme le funzioni relative alla provvista ed all'arredamento dei locali degli uffici giudiziari, le quali, se pure innegabilmente dirette a soddisfare l'interesse generale al funzionamento dell'ordinamento giudiziario, non concernono tuttavia sfere che possano considerarsi estranee agli specifici interessi delle popolazioni comprese nell'ambito della circoscrizione dell'ufficio giudiziario, fra i quali é da annoverarsi quello al decoro di un ufficio che ha sede nel territorio comunale. Ed in relazione alla diversa natura ed estensione degli interessi perseguiti la soluzione adottata dalla legge impugnata sarebbe - continua l'Avvocatura - perfettamente logica e conseguente posto che "le funzioni in parola vengono (in ossequio ai principi del decentramento e del buon andamento dell'amministrazione) attribuite al comune dove ha sede l'ufficio giudiziario, ma al loro svolgimento viene chiamato a partecipare anche lo Stato, nella cui sfera quelle funzioni hanno rilevanza ed a carico del quale, col sistema delle contribuzioni soggette a periodica revisione, viene sostanzialmente posto il relativo onere di spesa".

L'Avvocatura nega, da ultimo, che sussista alcuna violazione dell'art. 110 Cost., affermando che il fine della disposizione é quello di render chiaro che l'autonomia e la indipendenza della magistratura, e la conseguente competenza del suo Consiglio superiore, non comportano la negazione delle diverse attribuzioni del Ministro della giustizia; e non già di vietare che taluni compiti, "non strettamente inerenti alla funzione giudiziaria e che si esplicano in mera attività strumentale siano attribuiti ad organismi diversi, anche locali, in base a valutazioni concrete operate di volta in volta, anche al fine di assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione".

In limine iudicii il Comune di Milano ha depositato memorie negando anzitutto che la questione possa essere ricondotta - come si assume che "riduttivamente" sia stato fatto dall'Avvocatura dello Stato - al piano marginale dello svolgimento delle funzioni delegate da parte dei comuni, piuttosto che a quello delle funzioni proprie.

Sulla scorta della premessa che la "funzione giurisdizionale costituisce un vero e proprio potere dello Stato", si sostiene che le due uniche possibili soluzioni costituzionalmente corrette sarebbero state quelle di affidare i servizi in questione o alla stessa Magistratura - in sede di autogoverno - ovvero al Ministero di grazia e giustizia: comunque allo Stato, cui in ogni caso avrebbe dovuto far capo l'onere economico corrispondente.

Il thema decidendi, si afferma, va dunque ricondotto al quesito se sia costituzionalmente legittima una legge che - compiendo un passo indietro rispetto al T.U. approvato con r.d. n. 1175 del 1931 (art. 2, n. 3) prevedente il rimborso a pié di lista in attesa del passaggio effettivo allo Stato dei compiti in questione (art. 331) - da un canto investe i comuni del compito di provvedere al "funzionamento di uno dei poteri dello Stato", dall'altro addossa loro l'onere della relativa spesa, solo in minima parte bilanciata da contributi sovente tanto irrisori da dover essere moltiplicati di ben sedici volte con legge formale non retroattiva.

La legge del 1941 sarebbe insomma ingiustamente sopravvissuta alla Costituzione, contraddicendone addirittura l'ispirazione di fondo, che non era sicuramente quella di far dipendere i mezzi di cui l'amministrazione della giustizia poteva disporre dalle variegate e spesso miserevoli possibilità finanziarie dei comuni nel cui territorio fossero ubicati uffici giudiziari. In tal modo, inoltre, chiamando il comune a sostenere spese inerenti a servizi che trascendono il suo territorio - costituente "il limite positivo, ma anche negativo delle sue potestà giuridiche e l'elemento identificatore ... dei fini che possono essergli attribuiti" - e che la Costituzione (art. 110) assegna al Ministero di grazia e giustizia, senza consentirgli alcuna possibilità di scelta in ordine ai tempi ed alle modalità della loro erogazione.

Infine - conclude il Comune di Milano - l'illegittimità costituzionale dell'art. 91, lettera D, n. 1, del T.U. n. 383 del 1934, relativa agli uffici del giudice conciliatore, si fonderebbe sulle stesse considerazioni.

Considerato in diritto

1. - Le disposizioni alle quali muovono censure il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 13 ottobre 1978 (r.o. 579/1979), il Consiglio di Stato e la Corte d'appello di Milano, con ordinanze emesse, rispettivamente, il 12 febbraio 1980 (r.o. 689/1980) e l'8 aprile 1983 (r.o. 922/1983), hanno tutte per oggetto l'onere, gravante sui Comuni nei quali hanno sede uffici giudiziari, delle spese per la provvista dei locali ad uso di tali uffici, sicché i giudizi relativi alle sollevate questioni, risultando evidente la loro connessione oggettiva, possono venire riuniti e definiti con unica sentenza.

2. - Per quanto delle tre ordinanze suindicate sia di gran lunga anteriore quella del Tribunale di Roma, all'esame di essa va anteposto l'esame delle due successive. Queste, infatti, pongono in dubbio la legittimità costituzionale del sistema in genere dell'accollo ai Comuni delle spese di cui sopra - e la Corte d'appello di Milano estende il dubbio alle spese per gli uffici di conciliazione -, quella, invece, esprime una doglianza specifica, nel senso che non investe il sistema in sé, ma in una sua puntuale applicazione.

3. - La legge 24 aprile 1941, n. 392, recante "trasferimento ai Comuni del servizio dei locali e dei mobili degli uffici giudiziari", stabilisce: all'art. 1, che sono "obbligatorie" per i Comuni le spese necessarie, oltre che "per il primo stabilimento" di tutti gli organi giurisdizionali ordinari di merito - dalle Corti d'appello alle Preture -, anche "per i locali ad uso degli uffici giudiziari e per le pigioni, riparazioni, manutenzione, illuminazione, riscaldamento e custodia dei locali medesimi, per le provviste di acqua, il servizio telefonico, la fornitura e la riparazione dei mobili e degli impianti", nonché "per la pulizia dei locali innanzi indicati"; all'art. 2, che tali spese "sono a carico esclusivo dei Comuni nei quali hanno sede gli uffici giudiziari, senza alcun concorso nelle stesse da parte degli altri Comuni componenti la circoscrizione giudiziaria"; che ai detti Comuni viene corrisposto "un contributo annuo alle spese medesime nella misura stabilita nella tabella allegata" alla stessa legge; che, "quando ricorrono particolari esigenze", i contributi in parola "potranno essere riveduti ed eventualmente modificati annualmente, e comunque in ogni momento" con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con quelli del tesoro e dell'interno, mentre "nel caso di costruzione, ricostruzioni, sopraelevazioni, ampliamenti o restauri generali... e relativo nuovo arredamento", "potranno essere aumentati con legge"; all'art. 3 (terzo ed ultimo comma), che i Comuni di che trattasi "dovranno corrispondere allo Stato la pigione nella misura che verrà indicata dal Ministro delle finanze di concerto con quelli della giustizia e dell'interno, su parere dell'ufficio tecnico erariale" per i locali demaniali adibiti ad uso di uffici giudiziari e che sono a loro carico "in ogni caso la manutenzione ordinaria e le piccole riparazioni" dei detti locali. A sua volta, poi, l'art. 91, lettera D, n. 1 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, richiamando la distinzione fra spese obbligatorie e facoltative, recentemente abolita (art. 7 decreto legge 10 novembre 1978, n. 702), pone a carico del Comune anche le spese concernenti l'"ufficio del conciliatore".

4. - Tanto il Consiglio di Stato, quanto la Corte d'appello di Milano, impugnano gli artt. 1, 2 e 3 legge n. 392 del 1941 - e quest'ultima anche l'art. 91, lettera D, n. 1, testo unico n. 383 del 1934 - in riferimento agli artt. 5, 110, 128 Cost., ritenendo che le relative norme costituiscono fondamento dell'accollo ai Comuni, nei quali hanno sede uffici giudiziari, delle spese necessarie per la provvista e la manutenzione dei locali ad uso dei detti uffici. Ed al riguardo così argomentano:

a) l'art. 128 Cost. affida la determinazione delle funzioni dei Comuni (e delle Province) a "leggi generali", che ne garantiscono l'autonomia nell'ambito dei principi, e gli artt. 5 e 128 Cost., riconoscendo il Comune come circoscrizione territoriale autonoma, danno rilievo costituzionale alle relazioni tra le funzioni ed il territorio e, quindi, alla competenza locale, nel senso che l'autonomia é garantita per ciascun Comune nei limiti territoriali che gli son propri. Il legislatore, insomma, nel determinare le funzioni dei Comuni, trova "la sua naturale e logica dimensione in quei limiti territoriali" e non può, conseguentemente, attribuire loro "funzioni o, più genericamente, compiti eccedenti in tutto o in parte i limiti della loro autonomia".

b) Gli invocati artt. 5 e 128 Cost. risultano violati altresì, sia per il fatto che l'accollo delle spese per attività estranee priva l'autonomia comunale "dell'autodeterminazione circa la ripartizione della spesa e la provvista delle corrispondenti entrate in ordine al complesso delle funzioni determinate in altra sede legislativa", nonché "della possibilità del controllo sulle risorse necessarie per l'assolvimento del complesso delle funzioni istituzionalmente tipiche", sia per il fatto che a tali spese non siano chiamati a partecipare gli altri enti "nella cui sfera... abbiano rilevanza" le funzioni ed i compiti in discorso, cioé gli altri Comuni compresi nella circoscrizione giudiziaria.

c) Ma é violato anche l'art. 110 Cost., il quale, attribuendo al Ministro della giustizia "l'organizzazione... dei servizi relativi alla giustizia" - e provvista e manutenzione dei locali per gli uffici giudiziari rientrano nella "organizzazione" - indica che spetta allo Stato di provvedere ai locali per detti uffici, con conseguente esclusione di ogni onere a carico dei Comuni.

5. - La questione non può dirsi fondata.

Lo Stato può amministrare, sia direttamente, cioé attraverso propri organi, sia indirettamente, cioé attraverso enti, fra i quali in primo luogo quelli territoriali, che sono ripartizioni della complessiva struttura della Repubblica. E che questo possa, per l'esercizio delle sue funzioni amministrative, valersi degli uffici dei Comuni (oltre che delle Province e degli altri enti locali), é nella logica e nella tradizione dello Stato unitario, il quale é, per espresso dettato costituzionale (art. 5), tenuto ad attuare, "nei servizi che dipendono" da esso "il più ampio decentramento amministrativo" e che altrimenti dovrebbe creare, anche nelle località più decentrate, propri ed appositi organi tecnici, costituendo così un doppione di quelli degli enti territoriali. La Costituzione ha enunciato espressamente tale principio, rispondente altresì a quello dell'onere di buona amministrazione (art. 97 Cost.), solo a riguardo delle regioni, trattandosi di entità di nuova istituzione, cui ha ritenuto opportuno segnare l'indirizzo nell'esercizio dell'attività amministrativa. Ne consegue che - a parte la non pertinenza nella specie dell'art. 110 Cost., dettato per segnare il confine tra le competenze del Consiglio superiore della magistratura e quelle del Ministro della giustizia - l'affidamento ai Comuni del compito di fornire, arredare, custodire i locali per gli uffici giudiziari, provvedendo anche ai servizi necessari per il funzionamento di questi, non viola gli artt. 5 e 128 Cost..

Detti articoli non risultano violati neppure in conseguenza dell'accollo ai Comuni delle spese all'uopo occorrenti. Va tenuto, infatti, presente: in primo luogo, che la legge impugnata obbliga lo Stato a corrispondere annualmente ai Comuni un contributo, che di regola copre la maggior parte delle spese; in secondo luogo, che allo stato attuale dell'ordinamento ormai la finanza locale é in gran parte finanza derivata; da ultimo, che presentemente lo Stato provvede al risanamento dei bilanci comunali.

6. - Deve dichiararsi inammissibile la "questione di legittimità costituzionale delle norme degli artt. 2, commi terzo e quarto, e 3, comma terzo, della legge 24 aprile 1941, n. 392, per contrasto coll'art. 3 della Costituzione", sollevata dal Tribunale di Roma (r.o. 579/1978) nel corso della controversia tra l'amministrazione finanziaria ed il Comune di Frosinone. Secondo il giudice a quo, il principio d'eguaglianza sarebbe violato, perché, mentre nel caso di immobili demaniali già adibiti a sede di uffici giudiziari é riconosciuto ai Comuni il diritto soggettivo all'automatico adeguamento al contributo, tale diritto é negato, quando trattisi, come nella specie, di palazzi di giustizia costruiti successivamente alla legge de qua. Senonché, sembra essere sfuggito al Tribunale di Roma che la disposizione dalla quale in effetti deriverebbe la disparità di trattamento (art. 3, terzo comma) in relazione all'art. 2 (terzo e quarto comma) aveva carattere contingente, cioé era stata adottata per operare esclusivamente nel primo periodo di applicazione della legge, come esattamente rileva l'Avvocatura dello Stato.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi in epigrafe:

a) dichiara non fondata la questione di legittimità Costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge 24 aprile 1941, n. 392, sollevata dal Consiglio di Stato (r.o. n. 689/1980) e dalla Corte d'appello di Milano (r.o. n. 922/1983), in riferimento agli artt. 5, 110 e 128 Cost.;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 91, lettera D, n. 1, del testo unico 3 marzo 1934, n. 383, sollevata dalla Corte d'appello di Milano in riferimento agli artt. 5, 110 e 128 Cost.;

c) dichiara inammissibile la questione di legittimità Costituzionale degli artt. 2, terzo e quarto comma, e 3, terzo comma, della legge 24 aprile 1941, n. 392 sollevata dal Tribunale di Roma (r.o. n. 579/1978), in riferimento all'art. 3 Cost.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1986.

 

Livio PALADIN - Antonio LAPERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL’ANDRO – Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA

 

Depositata in cancelleria il 27 giugno 1986.