Sentenza n. 115 del 1986

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SENTENZA N. 115

ANNO 1986

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Livio PALADIN, Presidente 

Prof. Antonio LAPERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL’ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 74 bis, secondo comma, (come introdotto dall'art. 1 d.P.R. 23 dicembre 1974 n. 687) del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 24 ottobre 1975 dal giudice delegato del Tribunale di Cassino sull'istanza proposta da Sartoro Luciano iscritta al n. 511 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17 dell'anno 1979;

2) ordinanza emessa il 7 novembre 1983 dalla Commissione tributaria di primo grado di Cremona sul ricorso proposto da Gualazzini Cesare c. Ufficio IVA di Cremona iscritta al n. 287 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 238 dell'anno 1984.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 4 febbraio 1986 il Giudice relatore Giuseppe Borzellino.

Ritenuto in fatto

1.1 - Con ordinanza emessa il 24 ottobre 1975 (pervenuta alla Corte costituzionale il 6 settembre 1978) il giudice delegato al fallimento dei F.lli Castellucci, pendente dinanzi al Tribunale di Cassino, ha sollevato d'ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'art. 74 bis, secondo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, (come introdotto dall'art. 1 del d.P.R. 23 dicembre 1974 n. 687), in quanto tale norma, avendo esteso il regime IVA alle vendite fallimentari, si porrebbe in contrasto con gli artt. 76, 77, primo comma, 87, quinto comma, Cost. e con gli artt. 1 e 5 della legge di delegazione 9 ottobre 1971 n. 825, a mente dei quali ultimi applicabilità dell'IVA é riferita alle cessioni di beni effettuate nell'"esercizio di impresa".

In punto di fatto, si desume dall'ordinanza di rinvio: che il giudice a quo é stato adito in data 6 settembre 1975 dal curatore fallimentare perché stabilisse, nell'esercizio dei poteri direttivi ex art. 25 legge fallimentare, "se le vendite fallimentari siano o non assoggettabili all'I.V.A."; che la vendita mobiliare é stata regolarmente tenuta il 6 settembre 1975; e che il nuovo esperimento d'asta, fissato per il giorno 1 dicembre 1975, con ordinanza del 9 ottobre 1975 é stato sospeso fino alla definizione dell'incidente di costituzionalità.

A sostegno della propria legittimazione, il giudice a quo rileva come la più recente dottrina ravvisi "nel fallimento tutti i presupposti della giurisdizione contenziosa assimilandolo al processo esecutivo individuale"; tale legittimazione sussisterebbe anche se la procedura fallimentare venisse assimilata ai procedimenti di volontaria giurisdizione non avendo il provvedimento richiesto dal curatore "un carattere puramente amministrativo" ed essendo esso di esclusiva competenza del giudice delegato, con possibilità di eventuale reclamo al collegio a norma dell'art. 26 menzionata legge fallimentare.

1.2 - Nel merito, l'ordinanza sostiene che il legislatore delegato con l'art. 1 del d.P.R. 23 dicembre 1974 n. 687, che ha introdotto l'art. 74 bis del d.P.R. n. 633/1972, nel disporre applicabilità dell'IVA alle "operazioni effettuate successivamente all'apertura del fallimento", non ha osservato, in violazione dell'art. 76 Cost., i principi e criteri direttivi della legge di delega 9 ottobre 1971 n. 825. "Questa infatti all'art. 5 n. 1 aveva più volte fatto riferimento, come presupposto per l'applicabilità dell'IVA, all' "esercizio dell'impresa", e lo aveva indirettamente ribadito con la menzione dell'art. 2195 cod. civ., il quale presuppone evidentemente un'impresa in atto, nel successivo art. 16".

Secondo il giudice a quo il fallimento non potrebbe considerarsi un'impresa, della quale costituirebbe semmai un "atto di morte". Ciò sarebbe confermato dal carattere eccezionale e temporaneo della continuazione dell'impresa, pur dopo il fallimento, previsto dall'art. 90 legge fallimentare.

L'attività diretta all'accertamento del passivo e alla acquisizione, liquidazione e distribuzione dell'attivo non potrebbe assimilarsi all'attività di gestione di un'impresa, né gli organi a ciò preposti a degli imprenditori.

2. - Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha dedotto in primo luogo l'inammissibilità della questione "difettando nella specie la sussistenza di un "giudizio" di merito" Secondo l'Avvocatura, "l'unica competenza della quale il giudice delegato al fallimento era stato investito era quella di indirizzare e dirigere l'attività del curatore per l'amministrazione del patrimonio fallimentare" ai sensi dell'art. 25, primo comma, legge fallimentare, e non di emettere una decisione nel merito e nei confronti dell'Amministrazione finanziaria. In effetti, solo dopo l'emanazione del richiesto provvedimento di autorizzazione del giudice delegato al pagamento o non dell'IVA e, quindi, dell'ulteriore autorizzazione rispettivamente a chiedere il rimborso o a resistere alle pretese di pagamento da parte dell'ufficio competente si sarebbe dovuta proporre la presente questione avanti al giudice di tali controversie.

Nel merito, l'Avvocatura rileva che, pur essendo indubbio che il fallimento non può considerarsi una impresa, l'attività degli organi fallimentari tuttavia "riguarda direttamente l'impresa fallita ed é quindi da ricomprendersi nel concetto sostanziale di esercizio di impresa, cui corrispondono puntualmente le cessioni dei beni relativi". Infine, la fase di liquidazione, sia essa compiuta o meno dagli organi del fallimento, rientrerebbe nell'"attività imprenditrice di intermediazione nella circolazione dei beni" con conseguente acquisto di maggior valore degli stessi. Da ciò il fondamento dell'imposizione (I.V.A.), in assenza della quale si creerebbe una assurda ed ingiustificata disparità di trattamento delle vendite in sede di fallimento rispetto a quelle, ugualmente liquidatorie, compiute dall'imprenditore individuale o dal liquidatore delle società commerciali, allorché non si verifica lo stato di insolvenza.

3. - Analoga questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 76 e 87, quinto comma, Cost., é stata sollevata, con ordinanza emessa il 7 novembre 1983, dalla Commissione tributaria di primo grado di Cremona sul ricorso prodotto dall'Avv. C. Gualazzini (nella sua qualità di curatore del fallimento della ditta Komberg di Corbari Franco) avverso un avviso di rettifica dell'ufficio IVA di Cremona, per inesattezze dei dati nella dichiarazione annuale 1978.

L'ordinanza prospetta gli stessi dubbi già sintetizzati nella presente narrativa. Ha messo in luce, in particolare, che il curatore fallimentare, tenuto, in base all'art. 74 bis, ad applicare l'IVA, gestisce una esecuzione concorsuale in modo più complesso, ma non sostanzialmente diverso da quanto compia il giudice dell'esecuzione. "E nessuno si é mai sognato di ravvisare (in questo) la figura dell'imprenditore quando oggetto della vendita abbiano ad essere attività provenienti da imprese lato sensu commerciali (art. 2082 C.C. in relazione all'art. 2195 C.C.)".

4. - Anche in tale giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri che, tramite l'Avvocatura dello Stato, ha dedotto l'infondatezza della questione avendo la norma impugnata lo scopo di individuare il soggetto competente agli adempimenti relativi alle operazioni da ritenere oggettivamente commerciali, anche se effettuate nell'ambito di una procedura concorsuale.

Inoltre, viene rilevato che essendo l'IVA un tributo afferente ai consumi, frazionato nelle varie fasi della produzione e distribuzione (con effettivo e definitivo prelievo soltanto a carico del consumatore finale), l'attribuzione alla curatela fallimentare di adempimento in tema di IVA "risponde alle esigenze proprie della particolare struttura di questo tributo".

Considerato in diritto

1. - Le due ordinanze in epigrafe sollevano un'identica questione di legittimità costituzionale; i relativi giudizi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

2. - L'art. 74 bis, comma secondo, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), come introdotto dall'art. 1 del d.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687 (sostituito, ma senza incidenza in punto, dall'art. 1 del d.P.R. 29 gennaio 1979, n. 24), estende il regime d'imposta sul valore aggiunto alle vendite fallimentari, ponendo i relativi adempimenti a carico del curatore. Tuttavia, secondo i giudici a quibus tale norma sarebbe in contrasto con gli artt. 1 e 5 della legge 9 ottobre 1971 n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), ove é prevista applicabilità del tributo in parola alle "cessioni di beni di ogni specie effettuate nell'esercizio di imprese" (Così testualmente art. 5, n. 1, legge n. 825) e tali non apparendo, in generale, le operazioni conseguenti al fallimento.

Sicché, sempre a parere dei remittenti, risulterebbero violati (eccesso di delega) gli artt. 76, 77, primo comma, e 87, quinto comma, della Costituzione.

3. - Dall'Avvocatura generale dello Stato, intervenuta per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, é stata eccepita la inammissibilità della questione sollevata dal giudice delegato al fallimento (ord. 511/1978): difetterebbe, infatti, la sussistenza di un "giudizio", non spettando al giudice a quo emettere, in fattispecie, una decisione nel merito e nei confronti dell'Amministrazione finanziaria.

L'eccezione va accolta.

In concreto, il curatore fallimentare aveva fatto istanza al giudice delegato affinché nell'esercizio dei poteri direttivi ex art. 25 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), questi avesse a chiarire l'assoggettamento o meno della vendita fallimentare all'imposta sul valore aggiunto (IVA).

Sicché il provvedimento richiesto, chiaramente da emanarsi nell'ambito di una mera potestà direttiva, risulta privo delle connotazioni di esercizio della funzione giurisdizionale.

Il "giudizio" incidentale di cui alla menzionata ordinanza va dichiarato, pertanto, inammissibile.

4. - L'incidente viene, peraltro, in rilievo nel merito con l'ordinanza n. 287/1984 della Commissione tributaria di primo grado di Cremona.

Ma la questione non é fondata.

Essa si incentra su di un assunto eccesso, ad opera del legislatore delegato, il quale avrebbe normativamente affermato applicabilità del tributo, esorbitando dai principi e criteri emanati con la legge n. 825/1971, determinanti l'assoggettamento all'imposta (art. 5, n. 1) delle cessioni effettuate nell'esercizio d'impresa.

Esercizio questo che viene ora contestato nell'ambito proprio delle vendite fallimentari, finalizzate - quando siano al di fuori della continuazione temporanea dell'impresa (autorizzabile ex art. 90 regio decreto n. 267/1942) - alla liquidazione delle passività e delle attività ed al solo scopo, perciò, delle inerenti operazioni debitorie e creditorie.

Ora é noto che l'attività liquidatoria é volta alla tutela di interessi precipuamente radicati nelle elaborazioni comuni largamente regolate nell'esperienza civilistica, con indubbia confliggenza, se esaminata in tali sensi, tra liquidazione da fallimento e normale esercizio d'impresa.

Senonché, é altrettanto rimarchevole che i principi regolanti i rapporti privati in genere non si trapiantano per ciò stesso, integralmente, nella normativa tributaria cui essi danno origine. Per quest'ultima infatti i rapporti giuridici che la presuppongono costituiscono, generalmente, soltanto un dato di fatto ai fini del successivo - ma non per questo identico-rapporto d'imposta, le cui finalità e il cui svolgimento, attengono al potere d'imposizione, e sono indipendenti, di regola, dai primi.

Il fenomeno impositivo, in altri termini, viene sovente a incidere nella realtà economica con una disciplina che può divergere e financo ampliare - per gli interessi sociali che vi sono coinvolti - il corpus di regole comuni.

Può essere conferente evidenziare, all'uopo, come anche nella identificazione positiva del reddito d'impresa i connotati deducibili delle norme civilistiche siano stati utilizzati, nel campo tributario, per dilatare in parte le configurazioni civilistiche medesime (sentenza n. 42 del 1980), sì da trarne una concettualità positiva più lata pei fini del carico tributario relativo.

In concreto, adunque, con riferimento alla dedotta vicenda di applicazione dell'IVA, il legislatore tributario ha ragionevolmente mostrato, con stretto riferimento all'imposta di cui trattasi (a tanto conforta anche recente giurisprudenza della Corte di cassazione), di non voler distinguere tra l'attività gestionale dell'impresa e il momento della sua liquidazione, ancorché coattiva. All'incontro, per gli specifici intenti di prelievo fiscale cui si riconducono i principi normativi relativi, ha proiettato in un unicum le due fasi: di gestione, cioé, e di liquidazione. Talché nessun eccesso di delega appare essersi prodotto negli ambiti puntuali di cui é questione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi (ordinanze n. 511/1978 e 287/1984);

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 74 bis, secondo comma, (come introdotto dall'art. 1 d.P.R. 23 dicembre 1974 n. 687 e sostituito dall'art. 1 d.P.R. 29 gennaio 1979 n. 24) del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) sollevata, con riferimento agli artt. 76, 77, primo comma, e 87, quinto comma, Cost. e agli artt. 1 e 5 della legge 9 ottobre 1971 n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), dal giudice del Tribunale di Cassino, delegato al fallimento con l'ordinanza emessa il 24 ottobre 1975 (n. 511 R.O. 1978);

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 74 bis, secondo comma, d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (Così come introdotto e sostituito) sollevata, con riferimento agli artt. 76 e 87, quinto comma, Cost. e agli artt. 1 e 5 della legge di delega 9 ottobre 1971 n. 825, dalla Commissione tributaria di primo grado di Cremona con ordinanza emessa il 7 novembre 1983 (n. 287 R.O. 1984).

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 aprile 1986.

 

Livio PALADIN - Antonio LAPERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL’ANDRO – Gabriele PESCATORE

 

Depositata in cancelleria il 30 aprile 1986.