Sentenza n. 110 del 1986

 

 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 110

ANNO 1986

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Livio PALADIN, Presidente 

Prof. Antonio LAPERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL’ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 5 giugno 1984 dal Tribunale di Milano, il 13 luglio 1984, il 15 gennaio 1985 (due ordinanze), il 17 dicembre 1984, il 26 novembre 1984, il 12 gennaio 1985 (due ordinanze) e il 14 febbraio 1985 dalla Corte di cassazione, iscritte ai nn. 984 e 1214 del registro ordinanze 1984 e ai nn. 153, 154, 201, 202, 227, 228 e 255 del registro ordinanze 1985 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 34-bis, 65-bis, 137-bis, 179- bis, 167-bis, 131-bis e 208-bis dell'anno 1985.

Visti gli atti di costituzione di Terruzzi Guido Angelo e di Ortolani Umberto;

udito nell'udienza pubblica del 18 marzo 1986 il Giudice relatore Giovanni Conso;

udito l'Avv. Mario Savoldi per Ortolani Umberto.

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale di Milano, investito dell'appello proposto da Terruzzi Guido Angelo contro il provvedimento con il quale era stata respinta l'istanza di revoca del mandato di cattura rimasto ineseguito, con ordinanza del 5 giugno 1984 (r.o. 984 del 1984), premesso che, alla stregua dell'art. 263 del codice di procedura penale, l'impugnazione avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, ha denunciato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, l'illegittimità dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui, anche nella nuova formulazione introdotta dall'art. 6 legge 12 agosto 1982, n. 532, non riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro l'ordinanza del giudice istruttore con la quale é stata respinta l'istanza di revoca del mandato di cattura".

Sarebbe violato il principio di eguaglianza perché - a differenza di quanto stabilito per l'imputato in stato di custodia cautelare, legittimato a proporre appello sia avverso l'ordinanza con la quale, ai sensi dell'art. 272-bis del codice di procedura penale, venga respinta l'istanza di scarcerazione per insufficienza di indizi sia avverso l'ordinanza con la quale, ai sensi dell'art. 281 dello stesso codice, venga respinta l'istanza di libertà provvisoria - all'imputato che non si trovi in stato di custodia cautelare perché latitante é inibito l'appello avverso l'ordinanza con la quale sia stata disattesa l'istanza diretta a conseguire la revoca del mandato di cattura ineseguito. Il sistema delle impugnazioni non giustificherebbe il trattamento di sfavore riservato al latitante, legittimato, invece, ex art. 263-bis del codice di procedura penale, a chiedere il riesame del mandato di cattura tanto se eseguito quanto se ineseguito: resterebbe, anzi, incomprensibile il divieto di chiedere, con l'appello, "la verifica in suo favore della situazione processuale".

Sarebbe anche violato il diritto di difesa, che subirebbe un affievolimento per la qualità di latitante del soggetto interessato.

"L'imputato latitante", conclude il giudice a quo, "subisce una ingiustificato discriminazione rispetto ai poteri di impugnazione riconosciuti, in situazioni analoghe.. al pubblico ministero ed all'imputato detenuto".

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 34-bis dell'8 febbraio 1985.

Nel giudizio si é costituito il Terruzzi, rappresentato e difeso dagli avvocati Alberto Crespi e Corso Bovio del foro di Milano e dall'avvocato Vincenzo Siniscalchi del foro di Roma.

Nell'atto di costituzione la difesa del Terruzzi ha rimarcato, in particolare, l'esistenza, in materia di impugnazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, di regimi e modalità differenziati a seconda che l'impugnazione venga proposta dal pubblico ministero o dall'imputato e a seconda che il provvedimento di cattura venga o no eseguito: il pubblico ministero é legittimato a promuovere giudizio d'appello avverso il provvedimento di revoca del mandato di cattura; l'imputato in vinculis é legittimato a promuovere giudizio d'appello avverso il provvedimento che abbia respinto la sua richiesta di scarcerazione; l'imputato latitante ha solo la possibilità di proporre ricorso per cassazione, istituzionalmente limitato a motivi di legittimità.

La Presidenza del Consiglio dei ministri non ha spiegato intervento.

2. - La Corte di cassazione, investita del ricorso del Terruzzi avverso il provvedimento di rigetto dell'istanza di revoca dello stesso mandato di cattura, rigetto contro il quale il ricorrente aveva proposto appello al "tribunale della libertà", con ordinanza del 13 luglio 1984 (r.o. 1214 del 1984), ha denunciato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, l'illegittimità dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui, anche nella nuova formulazione introdotta dall'art. 6 legge 12 agosto 1982, n. 532, non riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro l'ordinanza del giudice istruttore con la quale é stata respinta l'istanza di revoca del mandato di cattura".

Si denuncia, anzitutto, ingiustificato disparità di trattamento fra pubblico ministero e imputato: mentre il primo ha la possibilità di ottenere dal tribunale un controllo di merito sull'ordinanza con cui il giudice istruttore abbia respinto la sua richiesta di emettere mandato di cattura o abbia revocato il mandato di cattura già emesso, il secondo non ha la possibilità di ottenere, se siano venute a mancare le condizioni sulle quali il provvedimento restrittivo era fondato, un identico controllo sull'ordinanza di revoca del mandato di cattura.

Si denuncia, altresl', ingiustificato disparità di trattamento fra imputato detenuto e imputato latitante: l'imputato in vinculis può, ai sensi dell'art. 272-bis del codice di procedura penale, proporre appello contro il provvedimento che gli neghi la scarcerazione; l'imputato latitante può, ai sensi degli artt. 111 della Costituzione e 190, secondo comma, del codice di procedura penale, ricorrere per cassazione avverso il provvedimento che abbia respinto la sua istanza diretta ad ottenere la revoca del mandato di cattura, con conseguente privazione "del grado di impugnazione nel merito consentito, invece, al P.M. e all'imputato detenuto".

"Nessuna apprezzabile differenza sembra esistere", conclude il giudice a quo, "tra il latitante e il detenuto rispetto all'interesse ad ottenere il ripristino dello stato di libertà, anche sul piano formale, una volta che siano venute meno le condizioni legittimatrici del provvedimento di cattura": non si comprende, perciò, la minore tutela accordata in fase d'impugnazione all'interesse del latitante.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65-bis del 18 marzo 1985.

In questo giudizio non vi é stato né intervento della Presidenza del Consiglio dei ministri né costituzione della parte privata.

3. - Analoghe questioni la Corte di cassazione ha proposto con ordinanze del 26 novembre 1984 (r.o. 202 del 1985), del 17 dicembre 1984 (r.o. 201 del 1985), del 12 gennaio 1985 (due: r.o. 227 del 1985 e 228 del 1985), del 15 gennaio 1985 (due: r.o. 153 del 1985 e 154 del 1985) e del 14 febbraio 1985 (r.o. 255 del 1985) emesse sui ricorsi proposti da Avagliani Giuseppe, Iafulli Michele, Iacomino Francesco, Sacco Almerico, Ortolani Umberto (due ricorsi) e Corallo Gaetano, denunciando, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, l'illegittimità dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui, anche nella formulazione introdotta dall'art. 6 della legge 12 agosto 1982, n. 532, e ulteriormente modificata dall'art. 18 della legge 28 luglio 1984, n. 398, non riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro l'ordinanza di rigetto dell'istanza di revoca del mandato di cattura".

Dopo aver sostanzialmente riprodotto le argomentazioni svolte dalla ordinanza del 13 luglio 1984, la Corte rileva che tali argomentazioni restano valide "anche nel vigore della legge n. 398 del 1984, che non ha inciso sulla titolarità del diritto di appello nella materia in esame e trovano conferma nella giurisprudenza costituzionale relativa all'equilibrio del contraddittorio fra accusa e difesa" (sentenze n. 70 del 1975, n. 73 del 1978, n. 72 del 1979, n. 53 del 1981, n. 224 del 1983).

Le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 167-bis del 17 luglio 1985, n. 179-bis del 31 luglio 1985, n. 131-bis del 5 giugno 1985, n. 137-bis del 12 giugno 1985 e n. 208-bis del 4 settembre 1985.

Nei giudizi promossi dalle due ordinanze emesse il 15 gennaio 1985 si é costituito l'imputato Ortolani Umberto, rappresentato e difeso dagli avvocati Aldo Pannain e Mario Savoldi, chiedendo che la Corte dichiari illegittima la norma impugnata.

Negli altri giudizi le parti private non si sono costituite né ha spiegato intervento la Presidenza del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - Le nove ordinanze riassunte in narrativa, la prima delle quali proveniente dal Tribunale di Milano e le altre otto dalla Corte di cassazione, sollevano questioni di legittimità costituzionale sostanzialmente coincidenti: i relativi giudizi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

2. - Comune oggetto di censura é l'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro l'ordinanza che rigetta l'istanza di revoca del mandato di cattura.

Trattandosi di un comma la cui formulazione é stata sostituita dapprima ad opera dell'art. 6 della legge 12 agosto 1982, n. 532, e poi ad opera dell'art. 18 della legge 28 luglio 1984, n. 398, non si può non sottolineare come le prime due ordinanze (r.o. 984 del 1984 e 1214 del 1984), entrambe posteriori all'entrata in vigore della legge n. 532 del 1982 ma anteriori all'entrata in vigore della legge n. 398 del 1984, abbiano riguardo - come si legge nell'ordinanza della Corte di cassazione - all'indicata "parte" dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale "anche nella nuova formulazione introdotta dall'art. 6 della legge 12 agosto 1982, n. 532", mentre le altre sette ordinanze (r.o. 153, 154, 201, 202, 227, 228, 255 del 1985), posteriori all'entrata in vigore della legge n. 398 del 1984, hanno riguardo alla stessa "parte" dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale "anche secondo la formulazione introdotta dall'art. 6 della legge 12 agosto 1982, n. 532, e ulteriormente modificata dall'art. 18 della legge 28 luglio 1984, n. 398".

Le esigenze inerenti al requisito della rilevanza impongono, peraltro, di prescindere dal testo originario del secondo comma dell'art. 263 del codice di procedura penale, che pur sembrerebbe implicitamente richiamato da tutte le ordinanze della Corte di cassazione attraverso il ricorrente uso della particella "anche".

Va, inoltre, precisato che l'art. 18 della legge 28 luglio 1984, n. 398, più che ad una modifica della formulazione introdotta dall'art. 6 della legge 12 agosto 1982, n. 532, hadato vita ad un'ulteriore sostituzione dell'art. 263 del codice di procedura penale.

Le doglianze in esame vengono, quindi, direttamente a coinvolgere, per un verso, il testo del secondo comma dell'art. 263 del codice di procedura penale, quale sostituito ad opera della legge n. 532 del 1982, e, per l'altro, il testo dello stesso comma, quale sostituito ad opera della legge n. 398 del 1984, nella rispettiva parte in cui non viene riconosciuto all'imputato il diritto di proporre appello contro l'ordinanza che rigetta l'istanza di revoca del mandato di cattura.

3. - Ad avviso dei giudici a quibus, la norma di volta in volta censurata si troverebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione per due ordini di considerazioni.

In primo luogo, la mancata legittimazione dell'imputato ad appellare l'ordinanza di rigetto dell'istanza volta ad ottenere la revoca del mandato di cattura comporterebbe la violazione dei due parametri costituzionali congiuntamente invocati, il tutto a causa dell'ingiustificata disparità di trattamento che si verrebbe a creare "fra imputato e pubblico ministero", essendo riconosciuto a quest'ultimo, proprio dal secondo comma dell'art. 263 del codice di procedura penale, il diritto di appellare tanto il provvedimento con cui "il giudice non accoglie la richiesta" di emissione del mandato di cattura quanto il provvedimento con cui il giudice "dispone la revoca del mandato di cattura" e, dopo la sostituzione operata dall'art. 18 della legge 28 luglio 1984, n. 398, anche "i provvedimenti che dispongono la misura dell'arresto domiciliare emessi nell'istruzione dal giudice istruttore o dal pretore ai sensi dell'art. 254-bis o del terzo e quarto comma dell'art. 246" del codice di procedura penale.

Il secondo ordine di considerazioni attiene, più particolarmente, all'ipotesi in cui la revoca del mandato di cattura sia stata richiesta, come sempre é accaduto nella specie, per essere "venute meno successivamente le condizioni sulle quali il mandato era stato fondato", cioé all'ipotesi di revoca espressamente configurata dall'art. 260, primo comma, del codice di procedura penale ("In ogni stato dell'istruzione, quando vengono a mancare le condizioni che legittimano il mandato di cattura, il giudice deve revocarle"). Per le ordinanze di rimessione un'ulteriore violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione sarebbe, infatti, da ravvisare nell'ingiustificata disparità di trattamento riscontrabile "fra imputato latitante ed imputato detenuto", una volta accolta, come tutte le ordinanze accolgono, l'interpretazione - del resto, ormai pacificamente condivisa dalla dottrina e dalla giurisprudenza (v. in proposito anche l'ordinanza di questa Corte n. 21 del 1979) - che ritiene l'istituto della revoca del mandato di cattura ai sensi dell'art. 260, primo comma, del codice di procedura penale applicabile nei soli confronti dell'imputato latitante: mentre quest'ultimo non può far sottoporre a controllo nel merito l'ordinanza che gli nega la revoca Così richiesta, l'imputato detenuto, in forza del combinato disposto degli artt. 269, primo comma, e 272-bis, secondo comma, del codice di procedura penale, é legittimato a proporre appello contro l'ordinanza che gli rifiuta la scarcerazione richiesta per essere "venute meno le condizioni legittimatrici del provvedimento di cattura".

4. - L'esame delle doglianze addotte deve prendere le mosse da quella che lamenta un'ingiustificata disparità fra imputato e pubblico ministero, non soltanto perché si tratta di una censura non vincolata ad una particolare interpretazione normativa, ma anche e soprattutto perché riveste una portata più ampia dell'altra, coinvolgendo tutti i casi di possibile revoca del mandato di cattura, che, come più specificamente risulta dagli artt. 256, secondo periodo, 260, secondo comma, e 277-bis, secondo comma, del codice di procedura penale, non si limitano al caso configurato dall'art. 260, primo comma.

La questione é fondata, sia per quanto riguarda il testo dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale, quale sostituito ad opera dell'art. 6 della legge 12 agosto 1982, n. 532, sia per quanto riguarda il testo dello stesso comma, quale sostituito ad opera dell'art. 18 della legge 28 luglio 1984, n. 398, bastando notare che le varianti apportate in tale ultima occasione non incidono menomamente sui termini della questione proposta in precedenza, tutta concentrata com'essa é sull'appellabilità dei soli provvedimenti riguardanti la revoca del mandato di cattura.

5. - Questa Corte, pur ribadendo che non necessariamente "i poteri processuali del pubblico ministero debbano sempre ed in ogni caso essere pari a quelli dell'imputato e del suo difensore", dato che "la peculiare posizione istituzionale e la funzione assegnata al primo ovvero esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia e di rilievo costituzionale possono giustificare una disparità di trattamento"(sentenza n. 190 del 1970; v. anche la sentenza n. 155 del 1974), considera punto altrettanto fermo che ogni eventuale disparità si giustifica "solo quando in quella posizione, in quella funzione ed in quelle esigenze essa possa trovare una ragionevole motivazione" (ancora sentenza n. 190 del 1970). In caso contrario, non può essere disattesa la "necessità di ristabilire la par condicio tra imputato e pubblica accusa" (sentenza n. 62 del 1981).

Nell'ambito di tale ottica, sono ormai numerose, come tutte le ordinanze di rimessione provenienti dalla Corte di cassazione puntualmente ricordano, le pronunce di illegittimità costituzionale che hanno invalidato, per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, norme del codice di procedura penale "escludenti" il diritto dell'imputato di proporre appello contro sentenze di proscioglimento suscettibili di essere appellate dal pubblico ministero, nonostante che il primo non meno del secondo potesse avere motivo di lamentarsene (v. le decisioni di questa Corte n. 70 del 1975, n. 73 del 1978, n. 72 del 1979, n. 53 del 1981, n. 224 del 1983 e, da ultimo, n. 280 del 1985).

L'interesse dell'imputato a dolersi anche per ragioni di merito del provvedimento che, negandogli la revoca del mandato di cattura, viene direttamente ad incidere sul bene della libertà personale non può certo ritenersi meno meritevole di considerazione del già riconosciuto interesse dello stesso imputato a dolersi anche per ragioni di merito di determinate sentenze di proscioglimento in grado di "arrecargli) pregiudizi di ordine morale e di ordine giuridico" (v., in particolare, la decisione n. 224 del 1983), allorché il legislatore ordinario riconosca al pubblico ministero il diritto di appellare provvedimenti dall'analogo contenuto.

Poiché, più precisamente, il denunciato art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale legittima il pubblico ministero ad appellare l'ordinanza che "dispone la revoca del mandato di cattura", all'accoglimento della questione di legittimità si potrebbe obiettare che il provvedimento contro cui l'imputato ha qui interesse a proporre appello (ordinanza che nega la revoca) non é il medesimo provvedimento appellabile dal pubblico ministero. Ma, a parte il fatto che sarebbe assurdo ipotizzare un gravame dell'imputato contro l'ordinanza di revoca del mandato di cattura data l'assoluta mancanza di un suo interesse al riguardo, la parità di trattamento con il pubblico ministero non può essere raggiunta se non dichiarando costituzionalmente illegittima proprio la mancata previsione per l'imputato del diritto di appellare il provvedimento che si presenta come il puntuale rovescio di quell'ordinanza di revoca nei cui confronti unicamente il pubblico ministero può avere ragione di dolersi. Soltanto Così, infatti, si perviene a realizzare quel "necessario equilibrio del contraddittorio"(sentenza n. 224 del 1983) attualmente turbato, sotto l'aspetto qui in discussione, da una disparità di trattamento non fondata su "motivi razionalmente giustificabili con il pubblico interesse" (sentenza n. 2 del 1974).

Tanto meno la lamentata disparità può trovare una ragionevole giustificazione ora che, in seguito all'integrale sostituzione dell'art. 263-bis del codice di procedura penale operata dall'art. 7 della legge 12 agosto 1982, n. 532, e poi, nuovamente, dall'art. 19 della legge 28 luglio 1984, n. 398, all'imputato o al suo difensore é riconosciuto il diritto di proporre "richiesta di riesame, anche nel merito, del mandato o dell'ordine di cattura o di arresto", con la sola eccezione del "mandato di cattura emesso a seguito di impugnazione del pubblico ministero oppure emesso dalla sezione istruttoria".

Anzi, l'introduzione del nuovo istituto ha già suggerito l'eventualità di una sua estensione proprio nei confronti dell'ordinanza che rigetta l'istanza di revoca del mandato di cattura, soluzione a cui, peraltro, soltanto il legislatore sarebbe in grado di dare ingresso nel quadro di una revisione organica dell'intera materia. Del resto, a questa Corte non sarebbe comunque consentito di intervenire nella presente occasione sull'art. 263-bis del codice di procedura penale, non soltanto perché i giudici a quibus hanno sottoposto a controllo di legittimità una norma tratta da altro articolo del codice, ma anche perché diverso avrebbe dovuto essere l'approccio agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto un discorso impostato sull'art. 263-bis del codice di procedura penale coinvolgerebbe non i rapporti (soggettivi) fra pubblico ministero ed imputato o fra imputato detenuto ed imputato latitante, bensì i rapporti (oggettivi) fra mandato di cattura ed ordinanza di rigetto dell'istanza di revoca.

Non resta, quindi, che concludere dichiarando l'illegittimità costituzionale, per ingiustificato disparità di trattamento fra imputato e pubblico ministero, dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non riconosce all'imputato il diritto di appellare l'ordinanza che rigetta l'istanza di revoca del mandato di cattura, e ciò tanto con riguardo al testo sostituito ad opera dell'art. 6 della legge 12 agosto 1982, n. 532, quanto con riguardo al testo sostituito ad opera dell'art. 18 della legge 28 luglio 1984, n. 398. Con il che rimane assorbita l'altra censura dedotta nei confronti della medesima norma sempre in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, ma sotto il profilo dell'ingiustificata disparità di trattamento fra imputato latitante ed imputato detenuto.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale (testo sostituito in forza dell'art. 6 della legge 12 agosto 1982, n. 532), nella parte in cui non riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro l'ordinanza che rigetta l'istanza di revoca del mandato di cattura;

2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 263, secondo comma, del codice di procedura penale (testo sostituito in forza dell'art. 18 della legge 28 luglio 1984, n. 398), nella parte in cui non riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro l'ordinanza che rigetta l'istanza di revoca del mandato di cattura.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 1986.

 

Livio PALADIN - Antonio LAPERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL’ANDRO – Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA

 

Depositata in cancelleria il 23 aprile 1986.