Sentenza n.290 del 1985

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SENTENZA N. 290

ANNO 1985

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Livio PALADIN, Presidente

Avv. Oronzo REALE

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, terzo comma, e 8 legge 13 novembre 1960 n. 1407 (Norme per la classificazione e la vendita degli olii di oliva) in relazione all'art. 13 legge 30 aprile 1962 n. 283, modificato dall'art. 10 della legge 26 febbraio 1963 n. 441, promosso con ordinanza emessa il 29 dicembre 1977 dal Pretore di Lecce nel procedimento penale a carico di Rollo Carmelo ed altro, iscritta al n. 217 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 186 dell'anno 1978.

Visto l'atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 ottobre 1985 il Giudice relatore Ettore Gallo;

udito l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un processo penale contro Carmelo Rollo ed Italo Proti, imputati del delitto di cui agli artt. 5, comma terzo e 8 legge 13 novembre 1960 n. 1407, il pretore di Lecce, con ord. 29 dicembre 1977, sollevava questione di legittimità costituzionale delle norme predette in riferimento all'art. 3 Cost.. I due imputati dovevano rispondere rispettivamente di avere detenuto per la vendita, e di avere prodotto e messo in commercio, olio d'oliva denominato "olio vergine d'oliva di frantoio": denominazione diversa da quella prescritta negli artt. 1, 2 e 3 della stessa legge. Rilevava in proposito l'ordinanza che la previsione come delitto della fattispecie di cui all'art. 8 della legge impugnata, e la sanzione congiunta di pena detentiva e pena pecuniaria proporzionale, determinavano palese disparità di trattamento nei confronti dell'art. 13 della legge 30 aprile 1962 n. 283 che commina la sola pena dell'ammenda nei confronti di situazione che il pretore giudica analoga. In realtà, l'art. 13 citato prevede il fatto di chi offre in vendita o propaganda sostanze alimentari, adottando denominazioni e nomi impropri o, in genere, mezzi tali da sorprendere la buona fede ed indurre gli acquirenti in errore circa la natura, sostanza, qualità delle sostanze stesse.

Secondo il rimettente, ambo le disposizioni si riferiscono alla circolazione di alimenti con denominazioni improprie, ambo mirano a salvaguardare la buona fede del consumatore, e non ci sarebbe, perciò, ragione che giustifichi un trattamento così diverso. Per di più, poi, l'art. 8 denunziato sottopone allo stesso trattamento sanzionatorio tanto chi metta in commercio olii rispondenti a tutte le caratteristiche organolettiche prescritte dalla legge, ma portanti denominazione non conforme a quella dalla legge indicata, e chi, invece, ponga in commercio una sostanza alterata nelle proprietà organolettiche (anche se fedele alla denominazione prescritta).

Interveniva nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, che chiedeva dichiararsi l'infondatezza della questione sollevata.

Osservava in proposito l'interveniente che le situazioni poste a raffronto sono obiettivamente diverse. L'una, infatti, si riferisce a sostanze alimentari in genere, mentre l'altra ne disciplina uno specifico settore: quello degli olii d'oliva.

L'una tende genericamente ad impedire denominazioni che possono trarre in inganno, l'altra, quella denunziata, sanziona la violazione di una specifica prescrizione nella quale il legislatore ha indicato categoricamente le denominazioni consentite, vietandone ogni altra diversa.

All'udienza odierna il rappresentante dell'Avvocatura dello Stato insisteva nelle conclusioni prese nell'atto d’intervento.

 

Considerato in diritto

 

La prospettazione del giudice a quo é molto suggestiva, ma non supera i punti fermi stabiliti dalla giurisprudenza di questa Corte. In prima approssimazione, la divergenza che l'ordinanza sottolinea fra il grave trattamento sanzionatorio previsto dalle norme impugnate (rectius dall'art. 8 della legge) e quello disposto dall'art. 13 della legge 30 aprile 1962 n. 283, può effettivamente indurre l'impressione di una inspiegabile disparità.

Ma non appena si consideri che la legge 283/1962 rappresenta un complesso di norme a carattere generale, che s'inserisce nel T. U. delle leggi sanitarie di cui modifica quattro articoli, quell'impressione si dilegua.

Infatti, mentre con la detta legge si é inteso dettare nuove norme in materia di produzione e commercio delle sostanze alimentari in genere, la legge impugnata disciplina invece, in modo particolare, uno specifico e delicato settore di quelle sostanze, qual é quello degli olii d'oliva; settore dove più facili e più frequenti si sono dimostrate nell'esperienza le frodi perpetrate ai danni tanto dei produttori quanto dei consumatori. Il legislatore, perciò, ha inteso assumere una rigorosa posizione, tutelando non soltanto i modi di produzione e le proprietà organolettiche dei prodotti, ma altresì, e con lo stesso rigore, ogni possibile fraudolenta escogitazione nelle denominazioni e nelle indicazioni d'origine. A tal fine, ha predisposto d'autorità una serie di denominazioni ufficiali corrispondenti alle varie categorie del prodotto, singolarmente precisate per metodo di lavorazione e contenuto di acidità oleica. Sembra evidente allora che la trasgressione al divieto di usare una denominazione diversa da quella rigorosamente indicata é considerata dal legislatore come indicativa di uno specifico intento criminoso, ben più grave di una semplice "improprietà" di denominazioni, su cui la legge ha lasciato agli interessati ampia libertà: salvo ovviamente il limite della idoneità a trarre in errore l'acquirente.

Fra le due situazioni, pertanto, lungi dal verificarsi le identità segnalate dall'ordinanza, corrono invece notevoli differenze sia in ordine all'ampiezza degl'interessi tutelati (anche quello dei produttori nelle norme impugnate, prevalentemente quello dei consumatori nel tertium comparationis), sia in relazione alla loro qualità (generica nell'una, specifica nell'altra), sia infine con riguardo alla condotta criminosa, sicuramente più grave da parte di chi si pone in contraddizione con un espresso e categorico divieto specifico della norma.

In difetto, pertanto, del presupposto su cui l'ordinanza fondava il sospetto d'illegittimità costituzionale di un trattamento sanzionatorio asseritamente ingiustificato, la lamentata violazione dell'art. 3 Cost. non sussiste.

Tuttavia, richiamandosi al pertinente rilievo conclusivo contenuto nella sent. 22 febbraio 1974 n. 57 concernente analoghe situazioni, questa Corte ribadisce che spetta al giudice di merito stabilire nel caso di specie se, avuto riguardo alla ratio legis, la denominazione in concreto usata assuma effettivamente rilevanza giuridica agli effetti penali.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 comma terzo, e 8 legge 13 novembre 1960 n. 1407, sollevata dal pretore di Lecce, con ord. 29 dicembre 1977, in riferimento all'art. 3 Cost.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 novembre 1985.

Livio PALADIN - Ettore GALLO

Depositata in cancelleria il 15 novembre 1985.