Sentenza n. 236 del 1984

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SENTENZA N. 236

ANNO 1984

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Antonino DE STEFANO,Presidente

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv Albero MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LAPERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 3 legge 8 ottobre 1976, n. 689 (Conversione in legge del decreto-legge 10 agosto 1976, n. 543, concernente modifica dell'art. 2 della legge 30 aprile 1976, n. 159, nella quale é stato convertito, con modificazioni, il decreto-legge 4 marzo 1976, n. 31, contenente disposizioni penali in materia di infrazioni valutarie. Ulteriori modifiche al decreto-legge 4 marzo 1976, n. 31, e alla legge 30 aprile 1976, n. 159) che ha modificato l'art. 2 legge 30 aprile 1976, n. 159 promossi con ordinanze emesse il 28 gennaio 1978 dalla Sezione Istruttoria della Corte d'appello di Bologna, il 20 novembre 1978 dal Tribunale di Oristano, il 20 settembre 1979 dalla Corte d'appello di Cagliari, il 17 dicembre 1980 dal Tribunale di Livorno, il 27 ottobre 1980 dal Tribunale di Salerno (tre ordinanze), il 2 aprile, il 1 aprile e il 12 marzo 1982 dal Tribunale di Napoli, il 30 marzo 1982 dal Tribunale di Salerno e il 15 giugno 1982 dal Tribunale di Genova, iscritte rispettivamente al n. 267 del registro ordinanze 1978 e ai nn. 305 e 833 del registro ordinanze 1979; ai nn. 85, 278, 279 e 280 del registro ordinanze 1981; ai nn. 506, 507, 508, 603 e 799 del registro ordinanze 1982 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 243 del 1978, n. 168 del 1979, n. 15 del 1980, nn. 123 e 200 del 1981, nn. 344 e 357 del 1982 e n. 101 del 1983.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 gennaio 1984 il Giudice relatore Alberto Malagugini;

udito l'avvocato dello Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Pignatti Romano, imputato del delitto di contrabbando doganale (artt. 216 e 287 d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43) per avere, dal 1973, introdotto nel territorio doganale italiano un natante a vela battente bandiera inglese, la Sezione Istruttoria della Corte d'Appello di Bologna, con ordinanza del 28 gennaio 1978 R.O. 267/78), sollevava d'ufficio, in riferimento all'art. 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 8 ottobre 1976, n. 689 (sostitutivo dell'art. 2 della legge 30 aprile 1976, n. 159), nella parte in cui rende obbligatoria per i cittadini italiani possessori di navi o natanti non nazionalizzati, la regolarizzazione della situazione di acquisizione di detti beni nello Stato, esonerandoli dalle sole sanzioni amministrative previste dalle norme valutarie e fiscali vigenti al momento del fatto e non anche dalle sanzioni penali che il medesimo fatto dell'introduzione di essi nello Stato comporta.

La Sezione osservava innanzitutto: a) che - contrariamente a quanto ritenuto dal G.I. del Tribunale di Rimini con sentenza di proscioglimento del 26 ottobre 1977, appellata dal Procuratore Generale - il contestato delitto di contrabbando doveva ritenersi nella specie astrattamente sussistente, in quanto esso si consuma non solo quando il natante battente bandiera straniera sia immatricolato in violazione degli obblighi doganali, ma anche quando, come nella specie, sia introdotto e destinato "al consumo" nel territorio doganale senza che ricorrano le condizioni per la sua temporanea importazione (artt. 2 e 30 della Convenzione di Ginevra del 18 maggio 1956, approvata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1961, n. 1553); b) che il fatto che l'immatricolazione del natante nei pubblici registri navali italiani ed il suo trasferimento al nome dell'imputato non fossero avvenuti entro il termine del 19 maggio 1977 fissato dalla norma impugnata (nella specie la dichiarazione d'importazione era stata presentata solo il 22 giugno 1977 ed il natante era stato sequestrato nel porto di Rimini il 30 giugno 1977) non poteva nella specie comportare l'inapplicabilità del beneficio dell'esonero dalle sanzioni amministrative e la sussistenza del reato dalla medesima disposizione previsto per l'inosservanza di tali prescrizioni, in quanto le relative pratiche risultavano iniziate fin dal febbraio 1977 ed il loro mancato compimento nel termine era da addebitare ad un ingiustificato ritardo dell'Ufficio del Registro navale italiano.

Tanto premesso, la Sezione istruttoria osservava che la lettera della norma prevede l'esonero dalle sole sanzioni amministrative e non anche da quelle penali; e che, se scopo della sanatoria é di favorire il rientro nel territorio della Repubblica di beni ed utilità attraverso la loro intestazione ai cittadini italiani che ne erano già effettivamente proprietari - anche al fine di sottoporli, per essi, al giusto regime tributario - "tale scopo sarebbe chiaramente frustrato dall'applicabilità delle norme sul contrabbando doganale, le quali prevedono (come obbligatoria) la confisca del bene introdotto nel territorio doganale da chi abbia la abituale residenza nel territorio dello Stato". E cioé, una norma intesa a far coincidere la proprietà dichiarata e registrata, in capo ad un cittadino italiano, sortirebbe l'effetto di trasferire quel bene allo Stato, anziché al cittadino cui si promette impunità se provvede a intestarsela.

Ma poiché tale azione (di intestarsi il bene che egli aveva già, di fatto, all'estero) non costituisce una semplice facoltà, ma un obbligo penalmente sanzionato "la norma comporterebbe la ulteriore conseguenza di obbligare, sotto comminatoria della pena anche della reclusione, il cittadino a denunciare se stesso per il reato di contrabbando, consistente nell'introduzione nel territorio doganale, ovvero nell'iscrizione nei pubblici registri italiani, di quel bene che, in forza della citata legge n. 159 del 1976, é tenuto ad intestarsi, a far registrare e ad introdurre nel territorio dello Stato".

Di qui, ad avviso della Sezione, l'irragionevolezza del mancato esonero (anche) dalle sanzioni penali ed il contrasto tra l'autodenuncia scaturente necessariamente dall'osservanza delle norme di sanatoria valutaria ed il diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost., che non consente che alcuno sia tenuto a confessare di aver commesso un reato.

  1. - La medesima questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge n. 159/1976, sostituito dall'art. 3 della legge n. 689/1976, veniva altresì sollevata, sempre in riferimento all'art. 24, secondo comma, Cost. e con argomentazioni analoghe a quelle sopra riferite: a) dal Tribunale di Oristano con ordinanza del 20 novembre 1978 emessa nel procedimento penale a carico di Cruciani Umberto ed altro R.O. 305/1979); b) dalla Corte d'Appello di Cagliari con ordinanza del 20 settembre 1979 emessa nel procedimento penale a carico di Bianco Carmine R.O. 833/79); c) dal Tribunale di Salerno con quattro ordinanze emesse il 27 ottobre 1980 nei procedimenti penali a carico di Ventra Domenico, Malafronte Antonio e Nesta Luigi R.O. 278, 279 e 280 del 1981) ed il 30 marzo 1982 in quello a carico di Pezzullo Sossio R.O. 603/82); d) dal Tribunale di Napoli con tre ordinanze emesse rispettivamente il 12 marzo, 1 aprile e 2 aprile 1982 nei procedimenti penali a carico di Bruglia Antonio ed altro, Castellano Lidia, Monaco Lucrino ed altro R.O. 506, 507 e 508 del 1982).

In tutti i predetti casi, i procedimenti avevano ad oggetto il delitto di contrabbando doganale addebitato a residenti in relazione al possesso ed uso nello Stato di natanti da diporto battenti bandiera straniera, e gli imputati risultavano aver adempiuto alle prescrizioni necessarie per fruire della sanatoria prevista dal quinto comma dell'art. 2 della legge n. 159/76, nel testo sostituito con l'art. 3 della legge 689/76.

  1. - Alle argomentazioni dell'ordinanza 28 gennaio 1978 della Sezione istruttoria della Corte d'Appello di Bologna (v. sopra, punto 1), da "intendersi qui integralmente richiamate versandosi in analoga fattispecie", si riferiva espressamente il Tribunale di Livorno nel sollevare - con ordinanza del 17 dicembre 1980 R.O. 85/81) emessa nel corso del procedimento penale a carico di Trevisani Adalberto per contrabbando doganale di un natante battente bandiera panamense - una questione di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni (artt. 2 della legge n. 159/1976 e 3 della legge n. 689/1976): questione che peraltro veniva testualmente riferita all'art. 3 Cost.

Il Tribunale di Livorno, inoltre, prospettava - sempre in riferimento all'art. 3 Cost. - un ulteriore profilo d'illegittimità costituzionale, rilevando che in base al testo dell'art. 2 legge n. 159 la sanatoria ivi prevista, in quanto riferita alle "sanzioni valutarie e fiscali", avrebbe operato anche per il delitto di contrabbando, a suo avviso ricompreso in questa ultima "ampia e generica dizione", e che, viceversa, l'art. 3 legge n. 689/1976 ha espressamente limitato la sanatoria alle sole "sanzioni amministrative previste dalle norme valutarie e fiscali", con ciò evidenziando la volontà del legislatore di escluderla per le sanzioni penali conseguenti a fatti di contrabbando.

Ciò premesso, il Tribunale osservava che "tale ultima norma é intervenuta in pendenza del termine stabilito dalla legge n. 159 del 1976 per la osservanza delle prescrizioni comportanti l'inapplicabilità delle sanzioni sia di natura amministrativa che di natura penale, conseguenti a fatti di contrabbando, cosicché si é creata di fatto una situazione di disparità di trattamento tra coloro che hanno osservato le prescrizioni suddette prima dell'entrata in vigore della legge n. 689/76 e coloro che hanno adempiuto a dette prescrizioni successivamente all'entrata in vigore della nuova normativa, ma anteriormente alla scadenza del termine originariamente prescritto facendo ragionevolmente affidamento sulla applicabilità della sanatoria".

Di qui, ad avviso del giudice a quo, una disparità di trattamento priva di una qualsivoglia giustificazione razionale.

  1. - Un'ulteriore ordinanza sul medesimo tema veniva emessa dal Tribunale di Genova il 15 giugno 1982 nel corso di un procedimento penale a carico di Bozzo Ferdinando R.O. 799/82). Nel caso di specie erano stati contestati - in relazione al possesso, anteriore al 6 marzo 1976, di un'imbarcazione da diporto battente bandiera straniera acquisita per interposta persona - non solo il delitto di contrabbando (art. 282, lett. f), T.U. n. 43/1973) e la connessa evasione dell'IVA all'importazione (capi a) e b)) ma anche il delitto valutario di cui agli artt. 2 e 2 bis legge 30 aprile 1976, n. 159 per aver omesso l'adempimento delle prescrizioni di cui al medesimo art. 2 (capo c)). Tenuto conto di quest'ultima imputazione, ed ai fini della rilevanza rispetto ad essa della questione sollevata, il Tribunale di Genova impugnava - non (come le precedenti ordinanze) la prima parte, bensì - la seconda parte del quinto comma del citato art. 2 legge n. 159/76 (come modificato dall'art. 3 legge n. 689/76), in quanto essa assoggetta a sanzione penale chi non osservi le prescrizioni di cui ai precedenti commi del medesimo art. 2, "senza prevedere l'esonero dalla pena nei confronti di chi ometta la osservanza di tali prescrizioni al fine di non rendere, con le dichiarazioni impostegli dalla norma, una confessione di fatti costituenti reato". In tal modo, secondo il giudice a quo, da un lato la questione si palesava rilevante rispetto al reato contestato per tale omissione (capo c), e dall'altro si evitava la censura ascrivibile alla prospettazione delle precedenti ordinanze, e cioé quella di disparità di trattamento tra chi avendo osservato le citate prescrizioni - andava esente da pena non solo per le violazioni valutarie, ma anche per quelle di altro tipo (doganali, finanziarie, societarie) e chi, avendo commesso solo queste ultime, doveva invece soggiacere alle relative sanzioni.

In punto di non manifesta infondatezza il Tribunale affermava che "l'imposizione di una sanzione criminale nella ipotesi di omessa osservanza di prescrizioni, il rispetto delle quali implicherebbe necessariamente la scoperta di reati precedentemente commessi dall'obbligato a detta osservanza, comporta a carico di costui una menomazione del diritto di difesa che é garantito come inviolabile dalla Costituzione, e di cui aspetto essenziale é l'inammissibilità di un dovere, penalmente sanzionato, di confessarsi autore di un reato"; rimettendo poi alla Corte - in relazione a tale assunto - di valutare se la garanzia del diritto di difesa si estenda a fasi anteriori a quella processuale e se non debba affermarsi la esistenza nell'ordinamento penale di una causa scriminante non codificata, relativa alla non punibilità di chi commetta un fatto-reato per esservi stato costretto dalla necessità di evitare l'accertamento a suo carico di un altro reato, da lui precedentemente commesso.

Le predette ordinanze, tutte ritualmente notificate e comunicate, venivano pubblicate, rispettivamente, nella Gazzetta Ufficiale n. 243 del 30 agosto 1978 R.O. 267/78); n. 168 del 20 giugno 1979 R.O. 305/79); n. 15 del 16 gennaio 1980 R.O. 833/79); n. 123 del 6 maggio 1981 R.O. 85/81); n. 200 del 22 luglio 1981 R.O. 278, 279, 280/81); n. 344 del 15 dicembre 1982 R.O. 506, 507, 508/82); n. 357 del 29 dicembre 1982 R.O. 603/82); n. 101 del 13 aprile 1983 R.O. 799/82).

  1. - L'Avvocatura dello Stato, intervenendo in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri nel giudizio promosso con la sopracitata ordinanza della Sezione istruttoria della Corte d'Appello di Bologna, osservava che il comportamento la cui esecuzione é prescritto che sia compiuta nel termine del 19 maggio 1977 non é - come ritenuto dalla Sezione istruttoria - la registrazione o intestazione del bene in capo al cittadino italiano bensì la semplice domanda di importazione (quarto comma dell'art. 3 citato) come tale dipendente dalla sola iniziativa dell'interessato e non anche da formalità amministrative successive. Se quindi tale domanda non fosse stata nella specie presentata nei termini - come all'Avvocatura sembra di poter dedurre dal riferimento fatto nell'ordinanza a formalità del tutto diverse - non vi sarebbe stata esecuzione dello specifico comportamento obbligatorio previsto dalla norma, e quindi la questione sollevata si appaleserebbe irrilevante.

Nel merito l'Avvocatura "pur non sottovalutando le incertezze che possono essere ingenerate dalla formulazione non esplicita del testo legislativo", riteneva che l'interpretazione logica e sistematica di esso debba condurre a concludere che "la dichiarazione di importazione del natante valga a regolarizzare in toto la posizione del natante stesso non solo per quanto concerne l'aspetto valutario ma anche per quanto concerne l'eventuale precedente violazione di norme vietanti l'uso da parte di residenti di natanti di bandiera estera, ammessi ad importazione temporanea a nome di proprietari fittizi stranieri". Poiché infatti la norma (art. 3, lett. d)) autorizza espressamente il "trasferimento della proprietà" (senza corrispettivo) al cittadino possessore del natante e prevede tale operazione come coonestata con quella di importazione, la "finzione" cui essa é complessivamente ispirata non dovrebbe ritenersi limitata al solo trasferimento del bene, ma estesa "alla assunzione formale, anche ai fini delle leggi doganali, di una posizione corrispondente a quella di un continuato possesso del bene da parte del proprietario straniero, posizione escludente per incompatibilità ad ogni effetto legale il rilievo di eventuale diversa utilizzazione o uso del bene stesso". Realizzandosi cioé la fattispecie normativa "con il regolare trasferimento del natante al cittadino italiano e con la contestuale importazione", si darebbe "rilievo formale ed esclusivo alla situazione simulata di appartenenza "di esso ad uno straniero, con ciò riassorbendosi logicamente ogni diversa (ed incompatibile) situazione di fatto: il che esclude che le dichiarazioni volte a rendere operativa l'importazione - da considerare a tutti gli effetti come regolare - possano costituire autodenuncia per violazioni precedentemente perpetrate.

L'Avvocatura dello Stato interveniva anche nei giudizi promossi con le sopracitate ordinanze dei Tribunali di Oristano R.O. 305/79), Salerno R.O. 278, 279, 280/81, 603/82), Napoli R.O. 506, 507 e 508/82) e Livorno R.O. 85/81), riportandosi, nelle relative memorie, alle deduzioni già svolte nel merito rispetto all'ordinanza della Sezione istruttoria di Bologna.

Rispetto alla disparità di trattamento ravvisata dal Tribunale di Livorno - mancata estensione alle sanzioni penali conseguenti a fatti di contrabbando della sanatoria prevista dall'art. 3 della legge n. 689/76 in rapporto a quanto, invece, disponeva l'art. 2, secondo comma, legge n. 159/76 per il periodo in cui é rimasto in vigore nel suo testo originario l'Avvocatura osservava che quanto già da essa sostenuto rispetto al citato art. 3 (che cioé tale norma "non può comportare l'insorgere di una situazione per la quale sia contestabile il reato di contrabbando a colui che opera la regolarizzazione del possesso dei beni anteriormente detenuti in condizioni di illegittimità") fa venir meno il presupposto in base al quale tale disparità di trattamento é stata prospettata.

Anche rispetto alla censura prospettata dal Tribunale di Genova, l'Avvocatura ribadiva la tesi secondo cui l'adempimento delle prescrizioni previste per fruire della sanatoria valutaria vale ad impedire la stessa prospettabilità di una "importazione illegittima". Questa, invero, essendo assunta ad elemento della fattispecie normativa di sanatoria, non potrebbe logicamente fungere da presupposto dei delitti - di contrabbando doganale o di evasione dell'IVA, all'importazione - che su di essa si fondano, mentre le medesime conseguenze (a smentita di quanto paventato dal citato Tribunale) non potrebbero verificarsi rispetto a quei reati - societari o finanziari - che non presentano tali caratteristiche.

Considerato in diritto

  1. - Le dodici ordinanze di rimessione propongono questioni identiche od analoghe, aventi per oggetto alcuni disposti dell'art. 2 della legge 30 aprile 1976, n. 159 - di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 4 marzo 1976, n. 31 - nel testo sostituito dall'art. 3 della legge 8 ottobre 1976, n. 689 di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 10 agosto 1976, n. 543. I relativi giudizi possono, quindi, essere riuniti e decisi con unica sentenza.
  2. - "Ritenuta la necessità e l'urgenza di emanare disposizioni penali in materia di infrazioni valutarie", con il decreto legge 4 marzo 1976, n. 31, l'esportazione all'estero, senza la prescritta autorizzazione, di valuta nazionale o estera, titoli azionari e obbligazioni, titoli di credito ovvero altri mezzi di pagamento, é stata punita con la multa dalla metà al triplo del valore dei beni esportati (art. 1, primo comma).

Del pari, "chiunque costituisce fuori del territorio dello Stato, a favore proprio o di altri, disponibilità valutarie o attività di qualsiasi genere senza l'autorizzazione prevista dalle norme valutarie é punito con la multa dalla metà al triplo del valore delle disponibilità valutarie o attività illecitamente procurate" (art. 1, secondo comma).

I successivi commi del medesimo art. 1 prevedono ipotesi aggravate (commi terzo, quarto e quinto), l'obbligo della confisca (sesto comma), l'equiparazione del reato tentato a quello consumato (settimo comma).

Il d.l. n. 31 del 1976 venne convertito in legge, con la legge 30 aprile 1976, n. 159, che, all'art. 1, ha introdotto talune modificazioni al testo del decreto convertito.

La medesima legge n. 159 del 1976, all'art. 2, ha istituito per i possessori all'estero di disponibilità valutarie o di altre attività costituite in violazione delle norme valutarie vigenti al momento del fatto, l'obbligo di farne dichiarazione, entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge stessa (19 maggio 1976), all'Ufficio italiano dei cambi e di far rientrare in Italia, nei tre mesi successivi, i capitali, ovvero di depositare i titoli esteri, mentre per gli immobili, fermo l'obbligo della dichiarazione predetta, l'interessato era tenuto a far entrare in Italia il loro corrispondente valore nel termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge.

L'osservanza di tali disposizioni - recita l'art. 2, secondo comma - "rende inapplicabili le sanzioni valutarie e fiscali previste dalle leggi vigenti al momento del fatto".

Di converso, l'inosservanza delle disposizioni del primo comma entro i termini ivi fissati é punita a norma dell'art. 1 del d.l. n. 31 del 1976 (terzo comma).

  1. - Con il d.l. 10 agosto 1976, n. 543, entrato in vigore il 12 agosto dello stesso anno, venne prorogato al 19 novembre 1976 il termine previsto dal succitato art. 2 della legge n. 159 del 1976 per la presentazione della dichiarazione all'Ufficio italiano dei cambi; termine che secondo l'originaria disposizione di legge sarebbe venuto a scadere il 19 agosto 1976.

Il d.l. n. 543 del 1976 venne a sua volta convertito in legge con la legge 8 ottobre 1976, n. 689 (art. 1).

La stessa legge, per quanto interessa nel presente giudizio, con l'art. 3 sostituisce interamente l'art. 2 della legge n. 159 del 1976.

Giova riprodurre il testo novellato nelle parti che rilevano ai fini della decisione: "art. 3 - L'art. 2 della legge 30 aprile 1976, n. 159 é sostituito con i seguenti:

Art. 2 - Chiunque alla data del 19 novembre 1976 possiede all'estero direttamente o indirettamente disponibilità valutarie o attività di qualsiasi genere, costituite anteriormente al 6 marzo 1976, in violazione delle norme valutarie vigenti al momento del fatto, é tenuto, con le modalità stabilite dall'Ufficio italiano dei cambi, a farne dichiarazione all'Ufficio stesso entro il 19 novembre ed a provvedere ai seguenti altri adempimenti: ... d) vendere o liquidare entro il 19 maggio 1977 le attività mobiliari diverse da quelle indicate alle lettere precedenti e cedere alla Banca d'Italia o a una banca agente le disponibilità valutarie liquide e trasferibili ricavate nei termini stabiliti dalle norme valutarie vigenti alla data della vendita o liquidazione. Quando tali attività sono costituite da aeromobili, navi o natanti non iscritti in pubblici registri nazionali, i possessori entro la detta data possono importarli trasferendone la proprietà a loro nome senza corrispettivo e iscriverli nei pubblici registri nazionali secondo le formalità stabilite dal ministro per il commercio con l'estero, di concerto con i ministri competenti.

(Quarto comma) - L'obbligo della dichiarazione previsto nei commi precedenti si considera assolto qualora si provveda direttamente alla cessione di cui alle lettere (a), c) d)) (o al deposito di cui alla lettera b) e alla domanda di importazione di cui alla lettera d)).

(Quinto comma) - L'osservanza delle prescrizioni di cui ai precedenti commi rende inapplicabili le sanzioni amministrative previste dalle norme valutarie e fiscali vigenti al momento del fatto. Chi non osserva le prescrizioni stesse é punito con la multa fino a lire 500 mila ovvero se la violazione si riferisce a disponibilità o attività di valore superiore a 15 milioni di lire, con la reclusione da uno a sei anni e con la multa fino al quadruplo del predetto valore".

"Art. 2 bis - I residenti che, tramite l'interposizione di non residenti o la partecipazione in società o in enti od organizzazioni estere di qualsiasi tipo, possiedono in Italia attività di qualsiasi genere costituite anteriormente al 6 marzo 1976 possono, entro il 19 maggio 1977, rendersene cessionari senza corrispettivo, previo adempimento degli obblighi di cui al primo comma del precedente art. 2 dei quali ricorrano i presupposti.

Negli atti di cessione le parti devono dichiarare che gli atti stessi sono stipulati ai sensi e per gli effetti del presente articolo. La cessione deve essere comunicata tramite le banche agenti all'Ufficio italiano dei cambi, con le modalità stabilite dall'Ufficio stesso.

Agli effetti fiscali le cessioni di cui al presente articolo si considerano effettuate a titolo oneroso".

Infine, con il d.l. 19 novembre 1976, n. 759 (convertito in legge 23 dicembre 1976, n. 863), la data del 19 novembre 1976 di cui all'art. 2 della legge n. 159 del 1976, nel testo novellato dall'art. 3 della legge n. 689 dello stesso anno, è stata sostituita con quella del 3 dicembre 1976.

  1. - Dalla ricognizione della normativa in esame - a prescindere da qualsiasi considerazione sulla tecnica usata emerge con chiarezza che il legislatore ha inteso disciplinare le infrazioni valutarie sottoponendo i trasgressori, fino ad allora soggetti soltanto a sanzioni amministrative, a sanzioni penali. Nello stesso tempo, in via transitoria e cioé entro limiti temporali oggi e da tempo superati, il legislatore medesimo - per citare le parole del Ministro per il commercio con l'estero in sede di discussione, avanti la Commissione giustizia del Senato della Repubblica, del disegno di legge di conversione del decreto legge n. 543 del 1976 - ha inteso "impedire l'esportazione di capitali all'estero comminando sanzioni penali; effettuare una ricognizione dei patrimoni di cittadini italiani ivi costituitisi; facilitare il rientro dei capitali nonché "rinazionalizzare" beni siti in Italia fittiziamente intestati a nominativi esteri" (al che provvedeva l'art. 2 bis della legge 159 nel testo introdotto con l'art. 3 della legge n. 689 del 1976).

Per raggiungere questi obiettivi il legislatore, da un lato ha imposto l'obbligo della dichiarazione all'Ufficio italiano cambi delle disponibilità valutarie e delle attività costituite all'estero in violazione delle norme valutarie, con l'ulteriore obbligo del rientro dei capitali o del ricavato della vendita o liquidazione di taluni beni (analogamente disciplinando le diverse situazioni di cui all'art. 2 bis sopra richiamato); e, dall'altro ha garantito che, ove le prescrizioni imposte fossero state puntualmente ed esattamente adempiute, non avrebbero trovato applicazione le sanzioni amministrative previste dalle norme, valutarie e fiscali, vigenti al momento del fatto, le uniche, cioé, applicabili in virtù della normativa previgente.

Con l'art. 3 della legge n. 689 del 1976, poi, per la prima volta, venne presa specificatamente in considerazione la posizione di quanti, nel novero di coloro che avevano illecitamente costituito all'estero attività mobiliari, possedessero aeromobili, navi o natanti.

A costoro la legge, fermo l'obbligo della dichiarazione all'UIC, ha imposto o di vendere o liquidare il bene, cedendo le disponibilità valutarie liquide e trasferibili ricavate alla Banca d'Italia o ad una banca agente; o di importarli, trasferendone la proprietà a loro nome ma senza corrispettivo, e di iscriverli nei pubblici registri nazionali, il tutto entro il termine del 19 maggio 1977.

Quel che preme sottolineare si é che la normativa in esame (art. 3 della legge n. 689 del 1976) disciplina una fattispecie legale ben definita: il fatto cioé di chi abbia costituito all'estero anteriormente al 6 marzo 1976, in violazione delle norme valutarie vigenti all'epoca, disponibilità valutarie o attività di qualsiasi genere. A tali soggetti é stato imposto di regolarizzare la loro situazione provvedendo nei termini stabiliti a determinati adempimenti. Analoghe disposizioni sono state dettate per quanti possedevano in Italia, alla medesima data del 6 marzo 1976, beni fittiziamente registrati a nominativi stranieri (art. 2 bis sopra citato).

  1. - A fronte della normativa sin qui esaminata, la grande maggioranza dei giudici remittenti, chiamati a giudicare soggetti imputati soltanto o anche del delitto di contrabbando doganale, dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, lettera d) e quinto comma della legge n. 159 del 1976, nel testo sostituito dall'art. 3 della legge n. 689 del medesimo anno (con la modifica di cui al d.l. 19 novembre 1976, n. 759, convertito in legge con legge n. 863/1976).

Secondo i giudici a quibus, le disposizioni di legge censurate, che da un lato impongono ai cittadini residenti nel territorio nazionale possessori all'estero, alla data del 3 dicembre 1976 e da data anteriore al 6 marzo 1976, di natanti non iscritti nei pubblici registri nazionali, l'obbligo, penalmente sanzionato di dichiararne il possesso (entro il 3 dicembre 1976) e di venderli o nazionalizzarli a proprio nome (entro il termine del 19 maggio 1977) e, dall'altro, ricollegano all'osservanza di tali prescrizioni l'esonero dalle sole sanzioni amministrative previste dalle norme valutarie e fiscali, violerebbero il diritto di difesa di cui all'art. 24, secondo comma, Cost..

Ciò perché, secondo i giudici rimettenti, l'esecuzione degli adempimenti prescritti dalla legge darebbe necessariamente luogo ad una autodenuncia per il delitto di contrabbando doganale del natante, così che il mancato esonero dalle relative sanzioni (penali) comprometterebbe il diritto di difesa, in forza del quale nessuno può essere tenuto a confessare di aver commesso un reato.

  1. - Così posta la questione, al fine di verificarne la rilevanza e la fondatezza, in ognuno dei giudizi a quibus, é necessario aver presente quale é la fattispecie del reato di contrabbando doganale contestata agli imputati nei giudizi medesimi.

Il secondo comma dell'art. 216 del d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43 (Approvazione del T.U. delle disposizioni legislative in materia doganale), punisce con le pene previste per il reato di contrabbando l'uso nel territorio dello Stato, tra l'altro, delle imbarcazioni di cui alla convenzione di Ginevra 18 maggio 1956, resa esecutiva in Italia con la legge 3 novembre 1961, n. 1553, che fruiscono del regime di temporanea importazione, "quando manchino o siano venute a cessare le condizioni indicate" nella convenzione predetta. Tali condizioni sono: che si tratti di imbarcazioni adibite ad uso privato, che appartengano a persone che hanno la loro normale residenza al di fuori dello Stato di importazione e che vengano utilizzate da persona non avente la sua residenza nello Stato di importazione (artt. 1 e 2 della Convenzione di Ginevra).

Il reato, dunque, si consuma tanto se l'imbarcazione introdotta nel territorio dello Stato italiano in regime di temporanea importazione appartiene a persona che ha la normale residenza nel territorio dello Stato stesso, quanto se una tale imbarcazione, pur appartenendo a persona che abbia la sua normale residenza fuori del territorio dello Stato di importazione, venga utilizzata nel territorio italiano da soggetto ivi residente.

  1. - Da quanto sin qui detto é consentito dedurre che diversi e distinti sono i fatti disciplinati dalla legge n. 689 del 1976, da un lato e dall'art. 216, secondo comma, del d.P.R. n. 43 del 1973, dall'altro.

Una cosa, invero, é il fatto consistente nel possesso all'estero di un natante in violazione delle norme valutarie, altra cosa é il fatto dell'introduzione del natante stesso e della sua utilizzazione nel territorio dello Stato da parte del possessore medesimo ivi residente, per beneficiare indebitamente del regime di temporanea importazione in franchigia previsto dalla Convenzione di Ginevra, sopra citata, nonché delle connesse agevolazioni fiscali per dotazioni e provviste di bordo.

Tra il primo ed il secondo fatto non sussiste alcun rapporto di conseguenzialità necessaria, dal momento che nulla impone al cittadino residente nel territorio dello Stato il quale, in violazione delle norme valutarie, abbia conseguito all'estero il possesso di un natante, di introdurre tale natante nel territorio italiano, in regime di temporanea importazione, per ivi utilizzarlo.

La conseguenza si é che le dichiarazioni e gli adempimenti di cui all'art. 3 della legge n. 689 del 1976 attengono a fatti diversi da quelli costitutivi del delitto di contrabbando e non possono quindi essere considerati, di per sé, autodenuncia del reato medesimo, eventualmente commesso in epoca precedente.

Se poi per avventura si ritenesse che il fatto-reato di contrabbando coincida col fatto del residente che, possedendo all'estero un natante in violazione delle norme valutarie, abbia reso in termini la dichiarazione di possesso del medesimo (art. 3, primo comma, primo periodo legge n. 689) ed adempiuto, pure tempestivamente, alle ulteriori prescrizioni di cui al successivo comma d), secondo periodo e quarto comma; ebbene, é evidente che in tale ipotesi (peraltro del tutto astratta e comunque non ricorrente in alcuno dei giudizi a quibus) il soggetto non sarebbe punibile a titolo di contrabbando per un simile fatto, dal momento che egli avrebbe agito nell'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica (art. 51, primo comma, del codice penale).

  1. - Prima di trarre le conseguenze dalle considerazioni sopra svolte, si deve osservare che le ordinanze del Tribunale di Oristano R.O. n. 305 del 1979) e della Corte d'Appello di Cagliari R.O. n. 833 del 1979) non spendono parola per motivare la rilevanza delle proposte questioni e neppure contengono riferimenti (di fatto) che consentano di formulare un giudizio in proposito. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr, tra le tante, le ordinanze nn. 22, 102, 140, 272, 305, 347, 371, 377/83, 57/84), le questioni così proposte devono, perciò, essere dichiarate manifestamente inammissibili.

Un autonomo profilo di inammissibilità é desumibile anche dall'ordinanza della Corte d'Appello di Bologna R.O. n. 267 del 1978) dalla quale, mentre non é dato ricavare se l'imputato abbia adempiuto in termini all'obbligo della dichiarazione di cui al primo comma, primo periodo dell'art. 3 della legge n. 689 del 1976, risulta - come giustamente osserva l'Avvocatura dello Stato - che egli ha provveduto ad adempimenti del tutto diversi da quelli imposti dalla successiva lettera d) e dal comma quarto del medesimo articolo di legge.

Non é quindi neppure prospettabile la questione di legittimità costituzionale di un disposto di legge che non ha trovato e non può trovare applicazione nel giudizio a quo; talché la questione medesima deve, per questo preliminare ed assorbente motivo, essere dichiarata inammissibile.

  1. - Le ordinanze del Tribunale di Salerno R.O. nn. 278, 279, 280 e 603 del 1982) e del Tribunale di Napoli R.O. nn. 506, 507 e 508 del 1982) presuppongono tutte una interpretazione del quinto comma dell'art. 3 della legge n. 689 del 1976 per cui resta escluso l'esonero dalle sanzioni penali eventualmente applicabili (nella specie, per il già commesso reato di contrabbando) nei confronti di chi, avendo posseduto natanti all'estero, in violazione delle norme valutarie, da epoca anteriore al 6 marzo 1976, abbia poi puntualmente provveduto agli adempimenti di cui al primo comma, primo periodo e lettera d), e quarto comma del citato art. 3.

Le ordinanze qui considerate - muovendo da tale interpretazione del quinto comma, primo periodo, dell'art. 3 della legge n. 689 del 76 e affermato che tutti gli imputati hanno tempestivamente provveduto a tutti gli adempimenti imposti dal primo comma, primo periodo e lettera d), e dal quarto comma del medesimo articolo di legge - denunziano, in riferimento all'art. 24, secondo comma, Cost. le disposizioni che impongono l'obbligo della dichiarazione e degli adempimenti ivi previsti, la cui omissione é sanzionata penalmente. Ciò perché essi adempimenti avrebbero contenuto sostanziale di autodenuncia ovvero anche di confessione del reato di contrabbando.

La censura investe, dell'art. 3, anche il quinto comma sia nel primo che nel secondo periodo, essendo diretta a colpire i presupposti per la loro applicabilità.

Per quanto sopra detto sub 7, la prospettazione dei giudici a quibus non può però, essere condivisa; ma occorre precisare che la questione, nei termini in cui é stata proposta, prima che infondata, é irrilevante.

Invero, una eventuale pronuncia di accoglimento non spiegherebbe alcun effetto nei procedimenti penali a quibus, nei quali i giudici non sono chiamati a fare applicazione delle norme da loro censurate, posto che nessun imputato é chiamato a rispondere del reato omissivo di cui al quinto comma, secondo periodo dell'art. 2 della legge n. 159 del '76, nel testo come sopra sostituito; nei quali, ancora, il fatto costitutivo del reato di contrabbando doganale, consistente (come recita anche l'emendamento governativo, più sopra riportato) "nell'indebita utilizzazione" del natante battente bandiera estera, é diverso e anteriore rispetto a quello che gli attuali imputati erano tenuti a dichiarare o che é desumibile dagli altri adempimenti cui essi hanno provveduto in ottemperanza a quanto previsto dalle disposizioni di legge censurate.

  1. - Per completezza si deve aggiungere che le quattro ordinanze del Tribunale di Salerno e le tre ordinanze del Tribunale di Napoli prospettano, nella parte motiva, anche una questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 3 della legge n. 689 del 1976 ritenendolo viziato da intrinseca irrazionalità e, per questo contrastante con l'art. 3 Cost.

Valgono, al proposito, le stesse considerazioni qui sopra svolte, volta che presupposto della censura é il ritenuto rapporto di conseguenzialità necessaria tra il fatto del possesso illecito del natante all'estero da parte del residente e il fatto del reato di contrabbando doganale, così che la condotta penalmente imposta dall'art. 3 della legge n. 689 del 1976 costituirebbe autodenuncia o confessione del reato di contrabbando.

Si é visto che così non é e che taluni reati (non solo il contrabbando doganale, ma anche il falso in bilancio, le false comunicazioni sociali, la frode fiscale e via dicendo) non sono affatto conseguenze astrattamente necessarie e inevitabili del fatto di possedere all'estero disponibilità valutarie o attività di qualsiasi genere in violazione delle norme valutarie vigenti al momento del medesimo, ma semplici eventualità di fatto.

É opportuno, in proposito, notare che il Tribunale di Salerno sembrerebbe far coincidere, nei casi di specie, il fatto del reato di contrabbando (e cioé l'introduzione e l'utilizzazione nel territorio dello Stato, in regime di temporanea importazione, e la iscrizione nei pubblici registri nazionali del natante battente bandiera straniera da parte del residente) con il fatto degli adempimenti penalmente imposti dall'art. 3 della legge n. 689 del 1976, cui l'imputato avrebbe puntualmente provveduto (nella quale ipotesi, come si é detto, ricorrerebbe la causa di non punibilità di cui all'art. 51, primo comma, del codice penale). Un tale assunto é però smentito dalle ordinanze stesse, là dove danno conto della circostanza che i natanti sono stati sequestrati nei mesi di giugno e luglio del 1976; anteriormente, cioé, all'entrata in vigore della legge n. 689 del 1976, che, all'art. 3, primo comma, lett. d) e quarto comma, per la prima volta attribuiva ai possessori di natanti all'estero, la facoltà di importarli per il trasferimento senza corrispettivo a loro nome e la conseguente iscrizione nei pubblici registri nazionali.

Anche questa questione, proposta dalle sette ordinanze qui considerate peraltro, prima che infondata, é irrilevante e perciò inammissibile per le ragioni medesime che già si sono esposte al precedente n. 9.

  1. - Il Tribunale di Livorno R.O. n. 85 del 1981) dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge n. 159 del 1976, nel testo sostituito dall'art. 3 della legge n. 689 del medesimo anno, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto un duplice profilo.

Sotto un primo aspetto, il giudice a quo fa riferimento "alle argomentazioni poste a fondamento dell'ordinanza in data 28 gennaio 1978 dalla Sezione istruttoria della Corte di Appello di Bologna" "che devono intendersi qui integralmente richiamate". Ora, anche a prescindere dalla circostanza che la citata ordinanza R.O. 267 del 1978 di cui sopra sub 8) non ha formalmente sollevato questione alcuna in riferimento all'art. 3 Cost., la questione proposta dal Tribunale di Livorno, nei termini qui riferiti - e cioé con motivazione per relationem - é manifestamente inammissibile, secondo la già richiamata costante giurisprudenza di questa Corte.

Sotto un secondo profilo, il Tribunale di Livorno dubita, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., della legittimità costituzionale del quinto comma, primo periodo dell'art. 3 della legge n. 689 del 1976. Il disposto di legge denunziato, garantendo, in caso di osservanza delle prescrizioni di cui al medesimo art. 3, l'inapplicabilità delle sanzioni amministrative valutarie e fiscali vigenti al momento del fatto, violerebbe il principio di uguaglianza, tutte le volte che gli adempimenti medesimi fossero stati osservati entro il 19 novembre 1976. Tale, infatti, é il termine fissato dalla precedente legge n. 159 del medesimo anno 1976 per l'osservanza degli adempimenti ivi prescritti; termine che ove rispettato, garantiva l'inapplicabilità delle sanzioni valutarie e fiscali - e non delle sole sanzioni amministrative valutarie e fiscali - previste dalle leggi vigenti al momento del fatto, tra le quali, a giudizio del Tribunale rimettente, sarebbero da ricomprendere anche le sanzioni penali previste per il delitto di contrabbando.

Ora, a prescindere da ogni considerazione in ordine sia alla interpretazione del secondo comma dell'art. 2 della legge n. 159 del 1976 come presupposta dal giudice a quo, sia alla circostanza che le prescrizioni di cui all'art. 2 della legge n. 159 del 1976, nel testo originario, sono diverse da quelle imposte dall'art. 3, primo comma, primo periodo e lettera d) secondo periodo della legge n. 689 del 1976; sta di fatto che il Tribunale di Livorno afferma apoditticamente la rilevanza della questione sollevata, senza spendere parola per motivarla e senza nemmeno descrivere, sia pure nel modo più sintetico possibile, la fattispecie giudicanda. Ne consegue che anche per il secondo profilo la questione in esame deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

  1. - Da ultimo il Tribunale di Genova R.O. 799 del 1982), chiamato a giudicare soggetto imputato di vari reati, tra i quali quello previsto dall'art. 282 lett. F del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (lettera A della rubrica) e quello di cui agli artt. 2, quinto comma e 2 bis della legge 30 aprile 1976, n. 159 (nel testo sostituito dall'art. 3 della legge n. 689) (lettera c della rubrica), dubita della legittimità costituzionale del citato art. 2, quinto comma, secondo periodo. Ciò perché "la imposizione di una sanzione criminale nell'ipotesi di omessa osservanza di prescrizioni, il rispetto delle quali implicherebbe necessariamente la scoperta di reati precedentemente commessi dall'obbligato a detta osservanza comporta a carico di costui una menomazione del diritto di difesa".

La questione, prospettata in termini diversi rispetto alle altre sin qui esaminate, é certamente rilevante nel giudizio a quo, ma non é fondata.

Invero, il giudice rimettente non propone, pur dandone conto, la questione, sollevata dalla difesa dell'imputato, circa la legittimità costituzionale dell'art. 2, quinto comma, primo periodo della legge n. 159 del 1976 (nel testo come sopra sostituito), "per la mancata previsione" "della inapplicabilità delle sanzioni penali, oltre che di quelle amministrative, nelle ipotesi in cui il trasgressore delle norme valutarie, per uniformarsi alle prescrizioni impostegli (sotto comminatoria di pena anche detentiva) dai precedenti commi dell'art. 2, sarebbe costretto a rendere dichiarazioni implicanti sostanziale confessione di reati di altro genere, da lui commessi".

Il Tribunale di Genova osserva che accettando una tesi siffatta, "si perverrebbe in ultima analisi, alla conseguenza di ammettere l'esonero da responsabilità penale per tutta una serie di reati (doganali, finanziari, societari). Ciò comporterebbe violazione del principio di uguaglianza perché, mentre chi avesse violato le norme valutarie ed altre di genere diverso (doganali, finanziarie, societarie) godrebbe di una duplice impunità "(o meglio di molteplici impunità); "chi avesse, invece, violato soltanto norme doganali, finanziarie o societarie e non anche quelle valutarie delle quali si discute sarebbe chiamato a rispondere delle conseguenze penali delle sue azioni". A tacere la considerazione che il principio di uguaglianza é rispettato se l'esimente si applica a chiunque commette un fatto di reato nelle circostanze previste dall'esimente stessa, l'argomentazione del giudice coglie, quanto meno implicitamente, un punto fondamentale, nel senso che evidenzia il rapporto di semplice eventualità di fatto, e non di conseguenzialità necessaria, che intercorre tra la condotta di chi, avendo costituito all'estero, in violazione delle norme valutarie, tra le altre attività, quella rappresentata da un natante ovvero avendo posseduto in Italia una attività del genere tramite l'interposizione di un non residente o la partecipazione in società o in enti o in organizzazioni estere di qualsiasi tipo (art. 2 bis della legge n. 159 introdotto con l'art. 3 della legge n. 689 dello stesso anno), abbia reso la dichiarazione e osservato gli altri adempimenti prescritti, da un lato; e la condotta di chi in epoca precedente, abbia commesso il reato di contrabbando doganale (o un reato finanziario o societario), dall'altro.

Anzi nel caso di specie il preteso rapporto di conseguenzialità se mai é rovesciato, nel senso che l'accertamento del reato di cui all'art. 282 lettera F in relazione all'art. 25, ultimo comma, d.P.R. n. 43 del 1973 (e cioé il fatto di chi, detentore di merce estera nella zona di vigilanza doganale terrestre, non sia in grado di dimostrarne la legittima provenienza) costituisce il presupposto per la ipotizzabilità del reato di cui agli artt. 2 e 2 bis dell'art. 2 legge n. 159 del 1976 sub 3 legge n. 689 dello stesso anno.

Invero, soltanto se sarà provato che l'imputato ha detenuto (fin dal 1975) il natante de quo e che detto natante (dismessa la bandiera italiana in data 9 dicembre 1975) é stato solo fittiziamente intestato ad un cittadino statunitense rimanendo invece nella disponibilità dell'imputato, costui, in quanto responsabile del reato doganale, potrà essere chiamato a rispondere anche del reato omissivo in forza degli articoli di legge della cui legittimità si discute.

Tanto rilevato, va precisato che il Tribunale di Genova, nel prospettare la questione nei termini più sopra riferiti, investendo con la propria denunzia il secondo periodo del quinto comma dell'art. 2 della legge n. 159 sub 3 della legge n. 689 del 1976, si chiede e chiede alla Corte anzitutto se la garanzia di cui all'art. 24, secondo comma, Cost. sia limitata alla sola fase processuale, ivi "compreso lo stadio preliminare degli atti di polizia giudiziaria, ma con esclusione di ogni fase anteriore "e pone l'ulteriore" problema, evidentemente connesso, consistente nell'individuare, a garanzia del diritto di difesa di ogni potenziale imputato, l'eventuale esistenza nell'ordinamento giuridico penale di una causa scriminante non codificata, di portata generale e trascendente sia il ristretto ambito di previsione dell'art. 54 c.p. (stato di necessità) e dell'art. 384 stesso codice, sia le ipotesi di cui alla questione di legittimità costituzionale dianzi prospettata, che dovrebbe condurre alla non punibilità di colui che commette un fatto (generalmente omissivo) previsto dalla legge come reato, per esservi stato costretto dalla necessità di evitare l'accertamento a suo carico di un altro reato, da lui precedentemente commesso".

I due quesiti meritano risposta l'uno affermativa l'altro negativa.

Infatti lo stesso giudice rimettente rileva che é la lettera medesima della norma di cui all'art. 24, secondo comma, Cost. a limitare la garanzia ivi apprestata alla sola fase processuale, e in questo senso questa Corte si era pronunciata con le sentenze n. 10 del 1963, n. 80 del 1964, n. 149 del 1967, n. 44 del 1968.

L'ambito di efficacia della garanzia difensiva é stato poi ampliato con le sentenze nn. 53 e 88 del 1968, n. 149 del 1969, n. 179 del 1971 cui hanno fatto seguito numerose altre.

Va però ribadito che la Corte ha inteso garantire il diritto di difesa in quei procedimenti (come quello per l'applicazione delle misure di sicurezza al di fuori del processo penale: sent. n. 53 del 1968) in cui é in gioco l'interesse supremo dell'uomo alla libertà personale, ovvero in tutti i procedimenti autoritativi diretti alla formazione delle prove, a partire dal momento in cui l'indizio di reato si soggettivizza nei confronti di una determinata persona (sent. n. 149 del 1969, ribadita da sent. n. 179 del 1971). In questo ambito opera il diritto di difesa e il soggetto interessato (indiziato di reato ovvero sottoposto a procedimento dal quale possono derivare limitazioni alla sua libertà personale) può esercitarlo in tutti i suoi aspetti attivi e passivi, tra i quali ultimo rientra certamente il diritto di rifiutarsi di rispondere (tranne ovviamente che alle richieste attinenti all'identificazione del soggetto medesimo).

Come é stato notato dalla dottrina in sede di commento alla sent. n. 32 del 1965 (emessa in fattispecie per alcuni versi analoga, denunziata peraltro in riferimento al diverso ed estraneo parametro di cui all'art. 13 Cost.) se "manca un rapporto diretto tra l'incriminazione e le domande della pubblica autorità" ovvero, nel caso in esame, tra le dichiarazioni e gli adempimenti cui il soggetto é penalmente tenuto da un lato e l'incriminazione, eventuale, per uno o più reati, dall'altro, viene meno in radice ogni possibilità di invocare la garanzia costituzionale di cui all'art. 24, secondo comma, Cost.

Quanto poi all'esistenza nell'ordinamento giuridico penale di una causa scriminante non codificata che abbia la portata generale prospettata dal giudice a quo, é sin troppo evidente che tale scriminante non esiste e non può esistere se non si vogliono travolgere principi cardine dell'ordinamento medesimo. A convincerne sono gli stessi esempi indicati, a sostegno di tale prospettazione, dal medesimo Tribunale di Genova: il quale propone che si pervenga, attraverso tale causa scriminante, alla non punibilità dell'autore del reato "nel caso di omessa denuncia di un'arma per non consentire la scoperta di un precedente delitto (furto, ricettazione) collegato al possesso dell'arma medesima, ovvero nel caso di omissione di soccorso (art. 133 Cod. strad.) motivata dalla necessità di sfuggire alla propria identificazione quale autore del reato di furto del veicolo investitore, o del reato di omicidio o lesioni colpose, o di quelli di guida senza patente o di guida in stato di ebrezza". Alla stessa stregua dovrebbe andare esente da pena per il reato di cui all'art. 495 c.p. chi fornisca false generalità per impedire che lo si identifichi quale autore di precedenti reati.

Il risultato cui in tal modo si perverrebbe sarebbe, perciò, quello di una parziale cancellazione dell'aggravante comune di cui all'art. 61, n. 2 c.p. (e cioé dell'ipotesi ivi prevista, del reato commesso per conseguire l'impunità di un altro reato) la quale é, evidentemente, fondata su solide ragioni di prevenzione generale e speciale dei reati. Paradossalmente, tale ragione di aggravamento della pena finirebbe con tramutarsi in una causa di esenzione dalla pena medesima: la quale tra l'altro, per la sua latitudine, sortirebbe un effetto di impunità a cascata del quale é impossibile disegnare a priori confini certi.

La suaccennata prospettazione va pertanto respinta. E va, d'altro canto, ribadito che il diritto di difesa, nel senso qui considerato, opera solo in favore dell'imputato o dell'indiziato di reato e che neppure nella più lata concezione é ipotizzabile il suo esercizio in relazione a comportamenti che in sé considerati non costituiscono autodenunzia o confessione di reati. Che sul piano probatorio una condotta (nel caso di specie una dichiarazione o un adempimento penalmente imposti) possano essere utilizzati dall'autorità inquirente come indizio o anche prova della precedente commissione di un diverso reato é del tutto legittimo e non viola un inesistente diritto all'impunità, nel che si vorrebbe far consistere il diritto di difesa.

La questione sollevata dal Tribunale di Genova deve quindi dichiararsi infondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

- dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, primo periodo e lettera d), quarto e quinto comma della legge 30 aprile 1976, n. 159, nel testo sostituito dall'art. 3 della legge 8 ottobre 1976, n. 689 e modificato con l'art. 1 del decreto legge 19 novembre 1976, n. 759, convertito con la legge 23 dicembre 1976, n. 863, sollevate in riferimento all'art. 24, secondo comma, Cost. dal Tribunale di Oristano e dalla Corte d'Appello di Cagliari con le ordinanze indicate in epigrafe;

- dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, quinto comma, primo periodo, della legge 8 ottobre 1976, n. 689 sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. dal Tribunale di Livorno con l'ordinanza indicata in epigrafe;

- dichiara l'inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, primo periodo e lettera d), quarto e quinto comma della legge 30 aprile 1976, n. 159, nel testo sostituito dall'art. 3 della legge 8 ottobre 1976, n. 689 e modificato con l'art. 1 del decreto legge 19 novembre 1976, n. 759, convertito con la legge 23 dicembre 1976, n. 863 sollevate in riferimento all'art. 24, secondo comma, Cost. dalla Corte d'Appello di Bologna ed in riferimento agli artt. 24, secondo comma e 3, primo comma, Cost. dal Tribunale di Salerno e dal Tribunale di Napoli con le ordinanze indicate in epigrafe;

- dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, quinto comma, seconda parte della legge 30 aprile 1976, n. 159, nel testo sostituito dall'art. 3 della legge 8 ottobre 1976, n. 689 sollevata in riferimento all'art. 24, secondo comma, Cost. dal Tribunale di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 1984.

Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LAPERGOLA  - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

Depositata in cancelleria il 30 luglio 1984.