Sentenza n.141 del 1984

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 141

ANNO 1984

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 4, primo comma, lett. b, e 6, comma terzo, del d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413 (Concessione di amnistia e indulto), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 19 dicembre 1978 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Sciurba Pasquale, iscritta al n. 79 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 87 dell'anno 1979;

2) ordinanza emessa il 6 dicembre 1978 dal Tribunale di Biella nel procedimento penale a carico di Lo Verde Gaetano, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 95 dell'anno 1979;

3) ordinanza emessa il 27 aprile 1979 dal Tribunale di Livorno nel procedimento penale a carico di Tessaur Nello, iscritta al n. 1002 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 64 dell'anno 1980;

4) ordinanza emessa il 27 giugno 1979 dal Pretore di Livorno nel procedimento penale a carico di Carraturo Nunzio, iscritta al n. 303 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 166 dell'anno 1980;

5) ordinanza emessa il 19 giugno 1979 dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Zitoli Pignataro Leonardo, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 71 dell'anno 1980;

6) ordinanza emessa il 29 giugno 1981 dal Tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di Botta Salvatore, iscritta al n. 706 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26 dell'anno 1982;

7) ordinanza emessa il 28 ottobre 1980 del Pretore di Latisana nel procedimento penale a carico di Talami Enzo, iscritta al n. 5 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 77 dell'anno 1981;

8) ordinanza emessa il 19 marzo 1982 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Fortunati Orlando, iscritta al n. 356 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 303 dell'anno 1982.

Visto l'atto di costituzione di Fortunati Orlando nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 26 aprile 1983 il Giudice relatore Ettore Gallo;

uditi l'avv. Angelo Miele per Fortunati Orlando e l'Avvocato dello Stato Franco Chiarotti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

Il Tribunale di Torino, con ord. 19 dicembre 1978 (n. 79/79) nel processo penale contro Sciurba Pasquale, il Tribunale di Livorno, con ord. 27 aprile 1979 (n. 1002/79) nel processo penale contro Tessaur Nello, il Tribunale di Milano, con ord. 19 giugno 1979 (n. 3/80) nel processo penale contro Zitoli Pignataro Leonardo, il Vice pretore di Livorno, con ord. 27 giugno 1979 (n. 303/80) nel processo penale contro Carraturo Nunzio, e in fine il Pretore di Latisana, con ord. 28 ottobre 1980

(n. 5/81) nel processo penale contro Talami Enzo, sollevavano identica questione di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 4, primo comma, lett. b) del d.P.R. 4 agosto 1978 n. 413 con riferimento all'art. 3 Cost.. Il Tribunale di Torino, tuttavia, faceva altresì riferimento agli artt. 24 comma secondo e 111 comma secondo Cost..

Analoga questione veniva pure sollevata dal Tribunale di Biella con ord. 6 dicembre 1978 (n. 86/79) nel procedimento di esecuzione relativa a Lo Verde Gaetano, dal Tribunale di Napoli con ord. 29 giugno 1981 (n. 706/81) nell'incidente di esecuzione promosso da Botta Salvatore, e dal Tribunale di Roma con ord. 19 marzo 1982 (n. 356/82) nel procedimento incidentale di esecuzione promosso da Fortunati Orlando: queste ultime ordinanze, infatti, pur investendo direttamente l'art. 6 comma terzo del citato Decreto, in realtà poi ne richiamavano sempre l'art. 4, primo comma, lett. b), e sempre con riferimento all'art. 3 Cost..

La differenza fra i due gruppi di ordinanze consiste, in realtà, soltanto nella circostanza secondo cui, mentre nel primo gruppo di cinque la questione sorge in tema di applicazione di amnistia, nel secondo gruppo si tratta di applicazione di condono.

Poiché, però, anche per quest'ultima ipotesi, il momento ostativo pur sempre rappresentato dalla lett. b) del primo comma dell'art. 4 del decreto (che il terzo comma dell'art. 6 espressamente richiama), la sostanza della questione di fondo é identica per tutte le ordinanze.

Osservano, in proposito, i giudici a quibus che il citato art. 4 fa dipendere, alla lett. b) del comma primo, la non applicabilità dell'amnistia (e, per il cennato richiamo di cui al terzo comma dell'art. 6, la misura massima del condono) da una singolare condizione soggettiva: dall'avere, cioé, l'aspirante al beneficio riportato una o più condanne, sia pure colla medesima sentenza, a pena detentiva complessiva superiore a due anni per delitti non colposi, nei cinque anni precedenti la data di entrata in vigore del decreto. Senonché, si rileva che il passaggio in giudicato di una sentenza penale di condanna può dipendere da un complesso di fattori, molti dei quali indipendenti dalla volontà del richiedente; e quel tanto che inerisce alla sua volontà é per gran parte dovuto all'esercizio di un diritto costituzionalmente rilevante qual é quello di difesa. Una siffatta situazione determinerebbe, pertanto, grave ed irrazionale disparità di trattamento, in quanto taluno potrebbe restare privato del beneficio per il concorrere di circostanze varie (specie del processo, qualità del rito, rilevanti pendenze dell'ufficio, ritardi dovuti a situazioni concernenti i coimputati etc....) a lui non imputabili o, se a lui riferibili, espressione dell'esercizio di un diritto tutelato dalla Costituzione; mentre altri, pur avendo commesso negli stessi tempi reati di pari gravità, potrebbe beneficiarne per il solo fatto casuale che il giudicato si verifica prima dei cinque anni precedenti la data del decreto.

La disparità appare poi più evidente quando si consideri che la ratio di questa conclusione (dovrebbe discendere dalla maggiore pericolosità del reo: di cui dovrebbe essere indice la commissione di gravi reati o comunque la reiterazione di condotte delittuose in epoca ravvicinata alla data del provvedimento di clemenza. In realtà, le presunzioni legali del sistema

(art. 204 cpv. n. 2 cod. pen.) calcolano quest'epoca nell'ambito di un quinquennio, ma fanno appunto esclusivo riferimento alla data del commesso reato e non del giudicato.

Il Tribunale di Torino soggiungeva altresì - come s'è accennato - che, nell'ipotesi in cui il maggior tempo trascorso per la formazione del giudicato fosse da attribuirsi, in tutto o in parte, allo svolgimento di azioni difensive (esami di testi, perizie, impugnazioni etc....), la preclusione che ne deriverebbe in ordine all'applicazione del beneficio, a causa del ritardo del giudicato, offenderebbe anche il principio di cui all'art. 24 comma secondo Cost.. Vero é che lo stesso giudice faceva riferimento anche al parametro di cui all'art. 111 secondo comma Cost., ma senza alcuna motivazione.

Spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, limitatamente alle questioni, sollevate dai Tribunali di Torino (n. 79/79 ord.), di Milano (n. 3/80 ord.) e di Biella (n. 86/79 ord.).

Quanto alle prime due questioni, negava nella sostanza il Presidente, tramite l'Avvocatura Generale dello Stato, che sussista lesione del principio di cui all'art. 3 Cost. in quanto le eventuali differenze in concreto apprezzabili non sarebbero attribuibili né alla norma né alla fisiologia del sistema processuale, ma semmai alla sua patologia. D'altra parte, ad avviso dell'Avvocatura, quand'anche il legislatore avesse fatto riferimento alla data del commesso reato, l'inconveniente denunziato non sarebbe stato eliminato, giacché in definitiva poi si sarebbe pur sempre dovuto risalire al giudicato per tenere conto dell'esistenza di un reato commesso.

Nemmeno il diritto di difesa, d'altra parte, secondo l'Avvocatura, verrebbe offeso, in quanto il cittadino resta pur sempre libero di esercitarlo a seconda del giudizio di convenienza che, volta per volta, egli stesso esprime.

Chiedeva, invece, che fossero dichiarati inammissibili per irrilevanza sia l'immotivato riferimento all'art. 111 Cost. espresso dal Tribunale di Torino, sia l'intera questione sollevata dal Tribunale di Biella in tema di applicazione del condono. Rilevava, infatti, per quest'ultima l'Avvocatura che il Tribunale non avrebbe tenuto conto dell'art. 174 comma secondo cod. pen. per il quale, secondo il diritto vivente, l'applicazione plurima dello stesso indulto non può mai superare la misura massima prevista nel Decreto: che nella specie é di due anni. Pertanto, quand'anche fosse accoglibile la tesi di fondo (che é poi quella medesima di cui finora s'è parlato), al condannato non potrebbe spettare condono superiore ai due anni: la stessa misura, cioè, che - a giudizio dell'Avvocatura - gli é comunque applicabile in base all'attuale testo dell'art. 6 del Decreto, in relazione all'art. 4 lett. b).

Delle parti private si costituiva soltanto Fortunati Orlando, in quel già menzionato giudizio di legittimità costituzionale che il Tribunale di Roma (n. 356/82 ord.) aveva sollevato nel corso del procedimento incidentale esecutivo che lo riguarda.

Il difensore, avv. Angelo Miele, sviluppava ampiamente, sia nella comparsa di costituzione 30 luglio 1982 sia nella memoria illustrativa del 12 aprile 1983 il fondamento scientifico della sollevata questione, chiedendone l'accoglimento, e la conseguente declaratoria d'illegittimità costituzionale in parte qua del più volte richiamato art. 4 lett. b) del Decreto in esame.

All'udienza, Avvocatura dello Stato e parte privata insistevano nelle rispettive conclusioni.

Considerato in diritto

  1. - Attesa la rilevata sostanziale identità delle sollevate questioni, esse possono essere decise con unico provvedimento: deve procedersi, pertanto, alla riunione dei giudizi.
  2. - Va poi esaminata preliminarmente l'ammissibilità delle questioni in punto di rilevanza.

In proposito, deve osservarsi quanto segue: 1) L'ordinanza 19 giugno 1979 del Tribunale di Milano non indica né il titolo del reato né la pena inflitta per esso allo Zitoli colla sent. 30 aprile 1973 dello stesso Tribunale. Non é, quindi, dato di conoscere né se si tratti di reato non colposo né se la pena superi gli anni due di reclusione, rendendosi conseguentemente impossibile qualunque valutazione sul giudizio di rilevanza che peraltro l'ordinanza nemmeno esprime. 2) Analoga carenza va osservata nell'ord. 27 giugno 1979 del V. Pretore di Livorno che dichiara apoditticamente rilevante la proposta eccezione "esaminati i precedenti penali quali risultano dal certificato del casellario del Carraturo in atti con riferimento alla data di pronunzia delle singole sentenze di condanna". Ma gli elementi del ragionamento debbono risultare dal testo dell'ordinanza. Né peraltro il Pretore rende nota la motivazione sulla base della quale precedenti penali e date delle sentenze indurrebbero la rilevanza della questione in ordine al caso di specie. 3) Altrettanto dicasi per l'ord. 28 ottobre 1980 del Pretore di Latisana, il quale afferma di non poter definire il giudizio indipendentemente dalla risoluzione della sollevata questione dato che l'imputato ha riportato l'ultima condanna, antecedente alla data di entrata in vigore del decreto di amnistia, il 17 novembre 1973. Ma, per consentire di poter valutare il giudizio di rilevanza così espresso, il Pretore avrebbe dovuto indicare la data del commesso reato, il suo titolo, e la pena riportata. 4) Da analoghe censure non va esente nemmeno l'ordinanza 19 marzo 1982 del Tribunale di Roma, la quale afferma la rilevanza per relationem alla documentazione allegata e al provvedimento di cumulo dello stesso Tribunale datato 22 settembre 1979, nel quale si farebbe riferimento a numerose sentenze di condanna divenute irrevocabili nel quinquennio precedente all'entrata in vigore del Decreto di clemenza, comportanti nel loro cumulo una riduzione del condono. Ma nulla di tutto ciò risulta dal testo dell'ordinanza, sì che alla Corte non é dato di valutare in alcun modo le affermazioni del Tribunale.

E poiché questa Corte ha ripetutamente avvertito che il precetto di cui all'art. 23 della l. 11 marzo 1953 n. 87 non può essere adempiuto per relationem, facendo riferimento, cioè, ad atti e ad elementi, o a motivazioni, contenuti in altri fascicoli o in altri provvedimenti, esigendosi invece che tanto la motivazione quanto gli elementi su cui si fondano le sequenze del ragionamento abbiano a risultare chiaramente da testo stesso dell'ordinanza di rimessione, le quattro richiamate ordinanze risultano inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza (cfr. sul punto, fra le altre, le sentenze 108, 109, 158/82, 7/83).

  1. - Passando al merito, va subito chiarito che se é vero - come sopra s'è detto - che comune é la questione sollevata dalle restanti quattro ordinanze, non identiche sono le pronunce che esse propongono a questa Corte. Infatti, il Tribunale di Torino, in via principale, e quello di Biella chiedono che la Corte pronunci sentenza ablativa, dichiarando semplicemente l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, 1 co., lett. b), del decreto, nella parte in cui prevede situazione soggettiva ostativa nei confronti di chi abbia riportato condanna a pena detentiva superiore a due anni, per delitto non colposo, nei cinque anni precedenti l'entrata in vigore del Decreto stesso. Mentre i Tribunali di Livorno e di Napoli (ma anche, in subordine, quello di Torino auspicano una sentenza additiva, mediante cui la Corte inserisca nella norma la precisazione che deve trattarsi di reati "commessi" nei cinque anni che precedono la data di entrata in vigore del decreto, o in aggiunta

(Livorno) al passaggio in giudicato della condanna entro lo stesso termine, oppure (Napoli) in sostituzione di quest'ultima condizione. Infine, il Tribunale di Torino chiede che, se la Corte non ritiene di procedere sic età simpliciter all'ablazione della norma in parte qua, abbia almeno a precisare che la condanna ostativa possa essere quella di qualunque grado.

Cade qui opportuno avvertire che non può essere accolta l'eccezione avanzata dall'Avvocatura dello Stato, secondo cui la questione sollevata dal Tribunale di Biella sarebbe irrilevante: e ciò in quanto, in forza del combinato disposto degli artt. 174 cod. pen. e 582 cod. proc. pen., e sulla base anche del diritto vivente, il cumulo delle pene che il ricorrente dovrebbe espiare non gli consentirebbe comunque di godere di un condono superiore alla misura massima di anni due. Mentre ad avviso dell'Avvocatura, se la questione di legittimità fosse accolta, secondo il computo del Tribunale gli si dovrebbero concedere addirittura tre anni di condono, violandosi il limite di legge.

Ma non é esatto che l'ordinanza del Tribunale di Biella richieda quanto ritiene l'Avvocatura.

In realtà il Tribunale pone in luce come, a causa della condanna per rapina commessa nel 1971, ma passata in giudicato nel 1976, anziché il condono di due anni, che potrebbe essere applicato alla condanna per furto del 1973, dovrebbe limitarsi ad applicare il condono ridotto di un solo anno di reclusione. Se, però, fosse accolta la questione sollevata, il condono potrebbe essere applicato nella misura massima. L'equivoco dell'Avvocatura consiste nell'aver creduto che il Tribunale intendesse sommare i due anni dell'ipotesi di accoglimento all'anno che al ricorrente spetta nello stato attuale.

  1. - La Corte non ha difficoltà a riconoscere che oggettivamente la ratio che é alla base della ostativa disposizione impugnata debba essere ravvisata nella più recente dimostrazione di pericolosità offerta da chi ha riportato condanna non lieve per delitto doloso in prossimità della data di entrata in vigore del decreto. É anche vero, inoltre, che il criterio adottato, e cioè il riferimento alla data della sentenza definitiva di condanna, sposta la considerazione del sintomo di pericolosità dal dato obbiettivo sostanziale della commissione del reato a quello puramente formale del passaggio in giudicato del suo accertamento giudiziale. Ma evidentemente il legislatore ha ritenuto che, nel corso di un quinquennio, almeno i giudizi relativi a reati di non rilevante gravità, che tuttavia comportassero pene superiori a due anni di reclusione, avessero grande probabilità di pervenire al giudicato. Ciò non toglie che, attesa anche la situazione di difficoltà in cui versa attualmente l'Amministrazione della Giustizia, possano darsi casi di reati, commessi nel detto quinquennio, il cui definitivo accertamento, specie se molto gravi, va a cadere oltre la data di entrata in vigore del Decreto; e, per converso, ipotesi in cui reati commessi prima dell'inizio del quinquennio ricevono sanzione definitiva nel corso di esso.

Ogni qualvolta il legislatore deve ricorrere necessariamente a tipizzazione (nella specie quella di pericolosità) non può che attenersi a criteri generali ed astratti, con ovvi caratteri di presuntività, che ben possono dar luogo, nella concreta applicazione, a situazioni di discriminazione che rappresentano il costo dell'istituto. Il problema, per quanto concerne il controllo di legittimità esercitabile da questa Corte, é quello di valutare se il sacrificio imposto a taluni casi particolari rientri nella regola discendente dalla imprenscindibile astrattezza della norma, oppure se, eccedendo tali limiti, la norma determini situazioni di irragionevole disparità. Ma, nel procedere a siffatta delicata valutazione, la Corte non può non tener conto anche delle possibilità tecniche, a disposizione del legislatore, di ricorrere a criteri diversi che, ferma restando l'esigenza di porre la norma così come l'avvertiva necessaria nella sua discrezionalità, limitassero al minimo le situazioni di disparità.

Orbene, se il legislatore avesse prescelto - come si suggerisce nelle ordinanze di rimessione - il criterio della data di commissione del reato, altre disparità non meno inique si sarebbero verificate. Così - ad esempio - coloro che avessero commesso il reato nei giorni vicini all'inizio del quinquennio sarebbero stati privilegiati o non a seconda che la commissione fosse caduta per tutti i giorni immediatamente precedenti fino alla vigilia. oppure nel giorno stesso dell'inizio del termine e per tutti i giorni immediatamente successivi.

Altrettanto dicasi per la fine del termine. Eppure la pericolosità di chi abbia commesso il reato il giorno prima dell'inizio del quinquennio o della sua fine, non é diversa da quella di colui che l'abbia commessa il giorno dopo: il che vale anche per il raffronto fra tutta una ragionevole serie di giorni che precedono o seguono l'inizio e la fine del termine.

Ma ancor più gravi si sarebbero rivelate le difficoltà tecniche per rendere operativa una siffatta disposizione, almeno nei confronti dell'applicazione dell'amnistia propria.

Quid iuris, infatti, nei riguardi di chi, accusato di aver commesso, nel quinquennio predetto, reato doloso per il quale fosse prevedibile inflizione di pena superiore a due anni, negasse la commissione, o invocasse scriminanti o anche attenuanti che porterebbero a contenere la pena al di sotto dei due anni? Evidentemente, per conoscere se quell'imputato versasse o meno nella situazione soggettiva ostativa indicata dalla norma, non ci sarebbe stata altra soluzione che attendere il giudicato. Frattanto, però, le cause di estinzione del reato e della pena essendo immediatamente operative nel momento in cui intervengono, si sarebbe dovuto dichiarare estinto il reato rispetto a cui quello commesso nel quinquennio rappresentava causa ostativa; ma quid iuris poi allorquando, magari dopo anni, si fosse verificata la situazione preclusiva a seguito del giudicato?

Certo, l'ordinamento processuale conosce anche l'istituto dell'amnistia condizionata che ha per effetto di sospendere i procedimenti in corso o l'esecuzione della sentenza di condanna fino alla scadenza del termine stabilito dal Decreto o, se non fu stabilito termine, fino alla scadenza del sesto mese dal giorno della pubblicazione del decreto (art. 596 cod. proc. pen.).

Ma - come si vede, e come meglio s'intende dalla lettura dei successivi cinque commi del citato articolo - si tratta di una sospensione a termine fisso perché la previsione concerne condizioni il cui adempimento dipende esclusivamente dalla volontà dell'imputato. Quale termine potrebbe apporre il Decreto nell'ipotesi che si va esaminando, una volta che - come pur si sostiene dai primi giudici - il passaggio in giudicato della sentenza é evento dipendente da molteplici fattori, nessuno dei quali é temporalmente valutabile nella sua verificazione.

Oppure si dovrebbe disporre semplicemente la sospensione a tempo indeterminato: il che, però, comporterebbe il rischio di lasciare pendente per molti anni un procedimento, con effetti comprensibilmente negativi, anche prescindendo da quelli concernenti la prescrizione che sarebbe fatta salva dalla disposizione di cui all'art. 159 cod. pen. .

Solo nei confronti dell'indulto, il legislatore avrebbe potuto, senza gravi difficoltà tecniche, prendere in considerazione la data del commesso reato, subordinando l'indulto a revoca qualora fosse seguita condanna passata in giudicato per reato commesso nel quinquennio precedente all'entrata in vigore del decreto: così come, del resto, analogamente già dispone l'art 9 del decreto per i reati commessi nei cinque anni successivi.

Ma se così il legislatore avesse disposto, avrebbe determinato una situazione interna di disuguaglianza fra le condizioni stabilite per l'applicazione dell'amnistia e quelle fissate per l'applicazione dell'indulto.

In ogni caso, poi, la disciplina sarebbe risultata così complessa e articolata - come meglio si dirà più innanzi - da doversi escludere che la sua adozione possa rientrare nei poteri della Corte.

Da tutto quanto fin qui premesso é ora possibile trarre alcune prime considerazioni conclusive.

  1. - Una volta che il legislatore abbia deciso, nel suo discrezionale potere, di escludere dall'amnistia coloro che abbiano mostrato persistenza di una certa maggiore pericolosità in un dato lasso di tempo vicino all'entrata in vigore del provvedimento di clemenza, l'ablazione pura e semplice della norma da parte della Corte costituzionale postula - come si é rilevato - o l'assoluta intrinseca irrazionalità della stessa scelta operata dalla legge, o la grave discriminazione indotta dai suoi effetti a causa dei criteri adottati per la sua concreta applicazione.

Ma la scelta di per se stessa - come viene ammesso anche dai primi giudici - trova la sua razionale giustificazione in principi incontestabili di politica criminale che l'ordinamento recepisce e che la recente legislazione penitenziaria ha esaltati attraverso gl'istituti dell'osservazione e del trattamento; mentre poi l'ambito temporale di operatività degli effetti preclusivi é proprio quello cui il sistema fa riferimento per la caducazione della presunzione di pericolosità (cfr. art. 204, secondo comma, cod. pen.).

Si é visto, d'altra parte, che il criterio adottato dal legislatore per la concreta applicazione della scelta discriminatoria non é immune da qualche inconveniente, ma si é dovuto riconoscere che questi rientrano nei limiti di quelli dipendenti dalla imprescindibile astrattezza della norma e che il criterio stesso non induce effetti più gravi di quanto determinerebbe quello diverso che i primi giudici ritengono preferibili.

In tali condizioni, la richiesta di una pronunzia puramente ablativa deve ritenersi non fondata in quanto il sindacato della Corte finirebbe per risolversi in una valutazione sull'opportunità e sull'ampiezza delle scelte operate dal legislatore in materia di amnistia: valutazione che la giurisprudenza di questa Corte ha sempre escluso (cfr. sent. n. 175/1971; n. 59/1980). L'esposta motivazione giustifica anche l'infondatezza del riferimento che il Tribunale di Torino effettua anche al parametro di cui all'art. 24 Cost.; rispetto al quale si può altresì soggiungere che l'esercizio del diritto di difesa se, da una parte, può occasionalmente comportare effetti pregiudizievoli quando venga espletato alla soglia dell'inizio del termine (ma tutto dipende dai gradi di giudizio ancora a disposizione), dall'altra può, invece, non meno occasionalmente, mostrarsi oggettivamente utile proprio in vista del superamento del termine finale. Dal che é dato desumere che si tratta, in definitiva, di mere disparità di fatto, irrilevanti in questa sede (v. - per esempio - sent. Corte cost. 69/75).

Infine, deve solo rilevarsi che l'ulteriore riferimento della stessa ordinanza torinese al parametro di cui all'art. 111 Cost. é privo in assoluto di qualsiasi motivazione.

  1. - Né sembra che migliore sorte possa toccare alle richieste che postulano sentenze variamente additive

Ciò vale sicuramente, innanzitutto, per quella che postula la sostituzione del criterio della data del commesso reato a quello indicato dal legislatore nella data della definitiva condanna (Trib. di Napoli).

Abbiamo visto, infatti, più sopra che una siffatta sostituzione richiederebbe, quanto all'amnistia propria, l'articolazione di più disposizioni di non facile tecnica normativa, mediante le quali, oltre alla detta sostituzione, dovrebbe essere decisa la sorte processuale del procedimento in corso per il reato su cui l'amnistia verrebbe a cadere: il quale procedimento, perciò, resterebbe aperto e pendente per tutti gli anni necessari a formare il giudicato nel processo per il reato commesso nel detto quinquennio.

Tale operazione evidentemente, per la sua complessità e per le ulteriori scelte discrezionali che postula, non può competere alla Corte ma al legislatore: e ciò prescindendo dai rilievi più sopra espressi circa i non meno gravi inconvenienti discriminatori che un siffatto criterio non potrebbe evitare. Ragion per cui sul punto la Corte di Cassazione si é sempre pronunziata per la manifesta infondatezza della questione.

D'altra parte, se é vero che, invece, non vi sarebbero insormontabili difficoltà tecniche per disciplinare nei sensi desiderati l'applicazione del condono, dato che questo potrebbe essere revocato qualora l'interessato riportasse in seguito condanna superiore a due anni per reato doloso commesso nel quinquennio precedente all'entrata in vigore del Decreto di clemenza, é pur vero, però, che in proposito s'impongono altre considerazioni. Intanto, apparirebbe subito evidente - come s'é detto - l'interna disuguaglianza che verrebbe per tal modo a determinarsi fra coloro che, avendo ancora un processo in corso per un reato amnistiabile, non potrebbero beneficiarne per le ragioni poc'anzi indicate, e quelli che, invece, essendo ormai pervenuti alla condanna definitiva, potrebbero subito godere di amnistia impropria o almeno del condono. Ma comunque, poi, per quanto tecnicamente possibile, anche una siffatta disciplina implicherebbe una complessa articolazione. Occorrerebbe, infatti, sopprimere innanzitutto dal terzo comma dell'art. 6 - dichiarandone l'illegittimità in parte qua - il riferimento alle "condizioni previste dall'art. 4", e poscia operare in profondità sull'ultimo inciso dello stesso comma dato che, venendo meno una delle due cause che congiunte riducevano l'indulto a un quarto, si dovrebbe decidere sulla sorte dell'inciso. Decisione quest'ultima pregnante di discrezionalità e perciò sicuramente riservata ai poteri del legislatore.

Infine, occorrerebbe manipolare anche il successivo art. 9 (revoca dell'indulto), aggiungendovi una causa di revoca che, contrariamente alla prassi, dovrebbe contemplare reati commessi nei cinque anni precedenti l'entrata in vigore del decreto ma per i quali la condanna viene riportata in epoca successiva.

É impensabile che una siffatta complessa operazione possa rientrare nel concetto di "giudizio di legittimità".

Ché se poi si dovesse accedere alla richiesta di aggiungere il criterio della data del commesso reato a quello della condanna definitiva nel quinquennio

(Tribunale di Livorno), si determinerebbe una gravissima riduzione all'ambito della scelta operata dal legislatore e persino all'operatività del criterio preferito dai primi giudici. Da una parte, infatti, il legislatore vedrebbe beneficiare dell'amnistia tutti coloro che, pur avendo riportato condanne definitive nel quinquennio, risultano aver commesso il reato nei giorni immediatamente precedenti, ma, per converso, anche i sostenitori del criterio della data di commissione del reato vedrebbero esteso il beneficio a quanti altri, pur avendo commesso l'illecito nel quinquennio, riportano condanna definitiva dopo l'entrata in vigore del decreto: contraddicendo così alla ratio stessa del principio di pericolosità che si vorrebbe affermare coll'aggiunta del nuovo criterio. In altri termini, le disuguaglianze si accrescerebbero scontentando i fautori di ambo le tesi.

Quanto, infine, all'alternativa subordinatamente prospettata dall'ordinanza del Tribunale di Torino, benché non si presenti, in prima lettura, di facile interpretazione, essa sembra richiedere un'additiva che faccia salva l'applicazione dell'amnistia nei confronti di coloro che abbiano riportato condanna non definitiva in periodo antecedente al quinquennio. Il che, peraltro, equivale a dire che, prima dell'inizio del quinquennio, abbiano riportato almeno la condanna di primo grado nel corso di quel giudizio poscia divenuto definitivo ed ostativo nell'ambito del quinquennio. Ma la proposta rappresenta soltanto una variante del criterio del commesso reato, in quanto limita gli effetti favorevoli soltanto ai reati commessi in epoca di antecedenza tale da avere consentito la pronunzia almeno di una sentenza di primo grado ancor prima dell'inizio del quinquennio.

Un criterio non meno occasionale e aleatorio, é non meno discriminatorio.

Ben si può verificare, infatti, che chi ha commesso il reato in data più vicina all'inizio del quinquennio riesca ad ottenere una condanna di primo grado prima che questo inizi a decorrere, e chi, invece, lo ha commesso in epoca molto più remota, per cause varie indipendenti dalla sua volontà, ottenga il giudizio di primo grado dopo il termine iniziale.

Tutto ciò dimostra ancora una volta che, in definitiva, il legislatore si é affidato ad un criterio che, compatibilmente con un dato di assoluta certezza, presenta un rischio di disuguaglianza più tollerabile in termini di razionalità, perché dipendente dagli effetti della ineliminabile genericità ed astrattezza della norma. Mentre poi - come pure si é rilevato - ogni possibile miglioramento del sistema presenta nuovi inconvenienti che soltanto il legislatore potrebbe eliminare od attenuare mediante accorgimenti tecnici rimessi al suo discrezionale potere.

Le richieste, pertanto, di pronunzie additive avanzate dalle ordinanze sopra richiamate sono inammissibili perché eccedono i limiti dei poteri di controllo spettanti alla Corte.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi

  1. A) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, lett. b) del d.P.R. 4 agosto 1978 n. 413 sollevata colle ord. 19 giugno 1979 del Tribunale di Milano, 27 giugno 1979 del V. Pretore di Livorno e 28 ottobre 1980 del Pretore di Latisana, in riferimento all'art. 3 Cost., nonché la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, terzo comma, in relaz. all'art. 4, primo comma, lett. b) citato Decreto, sollevata dal Tribunale di Roma con ord. 19 marzo 1982 sempre in riferimento allo stesso parametro;
  2. B) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 comma terzo, in relaz. all'art. 4, primo comma, dello stesso Decreto sollevata dal Tribunale di Napoli con ord. 29 giugno 1981, in riferimento all'art. 3 Cost. e dell'art. 4, primo comma, lett. b) sollevata con ord. 27 aprile 1979 dal Tribunale di Livorno e dal Tribunale di Torino colla stessa ordinanza sopra richiamata, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost.;
  3. C) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma terzo, in relaz. all'art. 4, primo comma, lett. b) del Decreto stesso sollevata con ord. 6 dicembre 1978 del Tribunale di Biella, in riferimento all'art. 3 Cost. e dell' art. 4, primo comma, lett. b) citato Decreto, sollevata dal Tribunale di Torino con ord. 19 dicembre 1978, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost..

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° maggio 1984.

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE  -Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  -Giovanni CONSO - Ettore GALLO

Depositata in cancelleria il 16 maggio 1984.