Sentenza n.138 del 1984

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SENTENZA N. 138

ANNO 1984

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 25, 26, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34 e 37 della legge 3 maggio 1982, n. 203 (Norme sui contratti agrari) , promossi con le ordinanze emesse il 16 dicembre 1982 e 20 gennaio 1983 dal Tribunale di Ravenna, il 1 febbraio, l'11 gennaio e il 28 febbraio 1983 dal Pretore di Orvieto, il 9 aprile 1983 dal Tribunale di Ancona, il 16 febbraio 1983 dal Tribunale di Parma, il 3 maggio 1983 dal Tribunale di Siena, il 26 marzo e 6 aprile 1983 dal Tribunale di Modena, il 21 aprile e il 19 maggio 1983 dal Tribunale di Montepulciano, il 3 maggio 1983 dalla Corte d'appello di Bologna, il 2 giugno 1983 dal Tribunale di Montepulciano, il 9 giugno 1983 dal Tribunale di Macerata, il 3 maggio e 5 luglio 1983 dalla Corte d'appello di Bologna, il 30 e 9 maggio 1983 dal Pretore di Orvieto, il 5 luglio 1983 dalla Corte d'appello di Bologna, il 21 giugno 1983 dal Tribunale di Voghera, il 27 maggio 1983 dal Tribunale di Arezzo, il 5 luglio, 28 giugno e 11 giugno 1983 dal Tribunale di Ancona, il 12 luglio e 27 settembre 1983 dal Tribunale di Mantova, il 13 ottobre 1983 dal Tribunale di Macerata, l'8 ottobre 1983 dal Tribunale di Ancona, il 23 settembre 1983 dal Tribunale di Fermo, il 10 ottobre 1983 dal Tribunale di Modena, il 25 maggio 1983 dal Tribunale di Pesaro, il 1 luglio e 21 ottobre 1983 dal Tribunale di Vasto, iscritte rispettivamente ai nn. 87, 226, 227, 228, 345, 346, 347, 348, 349, 350, 351, 352, 353, 354, 355, 356, 357, 358, 359, 360, 361, 362, 363, 364, 365, 366, 466, 510, 511, 512, 513, 540, 541, 542, 543, 544, 545, 546, 547, 548, 549, 550, 572, 573, 574, 575, 576, 577, 578, 579, 604, 605, 606, 607, 608, 609, 610, 611, 661, 662, 663, 664, 665, 666, 667, 668, 669, 670, 671, 725, 726, 728, 730, 731, 732, 767, 771, 774, 831, 832, 833, 834, 835, 836, 837, 838, 839, 902, 950, 951, 954, 955, 956, 968, 969, 970, 971, 972, 973, 974, 992, 993, 994, 1013, 1014, 1015 e 1016 del 1983 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 177, 198, 205, 219, 267, 295, 301, 315, 322, 336, 342, 349 del 1983 e nn. 4, 11 e 18, 25 e 32 del 1984. Visti gli atti di costituzione di Pezzi Achille, Ghetti Pierluigi ed altra, Brusi Luigi, della Società Tenuta di Corbara, di Alessandrini Angelo ed altra, Timoncini Emilio, Cenni Domenico, Stacchiotti Giulio, Bertogalli Macedonio, Agostoni Emilio ed altri, Borsi Anna, Meoni Ada ed altra, Gaetani Bonifacio ed altra, Paccagnini Cipriano, Savio Clementina ed altri, Melli Gustavo ed altri, della s.r.l. Immobiliare Cimarosa, di Nanni Daria, Fuligni Maria ed altri, Noli Mario ed altri, Rinaldini Sandro ed altri, Mangiavacchi Ornella ed altra, Bardi Pietro, Gori Clelia, Bertoli Anna ed altri, Paolucci Aldo, della società Immobiliare Agricola, di Paolozzi Tullia, della s.n. c. Azienda Agraria Fregoli, di Rettori Giancarlo ed altra, Clò Geminiano ed altri, Mattioli Lodovico ed altra, Bugamelli Giuseppe, Torreggiani Vittorio ed altra, Notari Andrea, Mascagni Luisa, Fortunato Laura, Martini Dino ed altra, Archi Antonio, Baldassarri Apollonia, Zannetti Giammarco ed altro, Latini Macioti Paola ed altro, Giorgi Vimercati, di Vistarino Carlo, Sangiorgi Giuseppe, Dirani Alberto, Dari Marco, Moretti Paolo, Frattani Enrico, della società Sinigiola, di Gatto Cesare, Giampieri Eusebio, Bernacchia Ricciotti Antonietta, Buldrini Alessandro, dell'Istituto Muzio Gallo, Ciamartori Rolando ed altra, Bellucci Ernesto ed altra, Hercolani Fava Simonetti Filippo, Berti Sisti Orlanda, Giuliani Giuliana ed altri, Zonghi Anna Serena, Mancinelli Alvaro, Battaglia Ludovica, Pallucchini Amato ed altri, Menichini Maria Luisa, Moscatelli Gentilini Diana ed altra, Toffoli Bortolo ed altro, Suriani Alfonso, Bassi Renato ed altra, Bioli Corrado ed altro, Cecchini Egidio nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 27 marzo 1984 il Giudice relatore Francesco Saja;

uditi gli avvocati Salvatore Orlando Cascio, Michele Giorgianni e Giuseppe Guarino per i concedenti, Emilio Romagnoli, Pietro Rescigno e Francesco Galgano per i concessionari e l'avvocato dello Stato Stefano Onufrio per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. - Con ricorso del 14 settembre 1982 il concedente Pezzi Achille chiedeva che la Sezione specializzata agraria del Tribunale di Ravenna dichiarasse, per vari motivi, non poter aver luogo la conversione del contratto di mezzadria in affitto, chiesta dal mezzadro Timoncini Emilio ai sensi dell'art. 25 l. 3 maggio 1982 n. 203, contenente norme sui contratti agrari.

Nel corso del giudizio il Tribunale, con ordinanza del 16 dicembre 1982 (reg. ord. n. 87 del 1983) , sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 25, 26, 28 e 30 della legge citata, in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 44 Cost.

Nell'ordinanza di rimessione si osserva che l'istituto della conversione in affitto dei contratti agrari associativi - caratterizzato dall'attribuzione di un diritto potestativo al concessionario, che può attuare la conversione stessa senza bisogno di consenso del concedente, mentre la proposta di questo deve essere seguita dalla accettazione del primo (art. 28 l. cit.) - sembra contrastare anzitutto con la libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost., libertà suscettibile di essere limitata a fini di utilità sociale, ma non di essere soppressa. Né, aggiunge il Tribunale, può dubitarsi che il concedente sia, insieme al mezzadro, titolare dell'impresa agricola, non bastando ad annullare tale qualifica il fatto che esistono alcuni concedenti "assenteisti". L'istituto della conversione contrasta, secondo il Tribunale, anche con gli artt. 42 e 44 Cost., in quanto la compressione dell'autonomia negoziale limita il diritto di proprietà, con conseguente sostanziale espropriazione, senza che ciò giovi al razionale sfruttamento del suolo ed alla costituzione di equi rapporti sociali.

Le disposizioni impugnate sembrano al giudice rimettente contrastare, ancora, coi principi di ragionevolezza e di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., poiché, pur presupponendo una migliore corrispondenza del contratto di affitto all'utilità sociale, esse affidano la conversione alla volontà delle parti, lasciando così in vita alcuni contratti associativi, con il conseguente diverso trattamento di situazioni eguali.

Dubita infine il Tribunale che l'istituto in questione leda il diritto al lavoro di cui all'art. 4, primo comma, Cost., potendo la conversione risolversi in un obbligo del concedente di abbandonare la propria attività lavorativa per unilaterale volontà del concessionario, a cui é dato anche di accettare o meno la proposta delle forme associative di cui agli artt. 30 e 36 l. cit.

  1. - Le stesse questioni venivano sollevate dal medesimo Tribunale con le ordinanze 20 gennaio 1983, in causa Ghetti c. Drei (reg. ord. n. 226 del 1983), Ghetti c. Benedetti (reg. ord. n. 227 del 1983), Brusi c. Cenni (reg. ord. n. 228 del 1983).

In queste ordinanze il giudice rimettente aggiunge, quanto all'art. 3 Cost., che l'irragionevolezza delle norme impugnate sarebbe confermata dal fatto che esse lasciano in vita le imprese associative più deboli e sacrificano quelle dotate di maggiori capitali, in quanto l'art. 31 l. cit. esclude dalla conversione le unità produttive insufficienti

  1. - Con ricorso del 14 dicembre 1982 Martini Caterina, concedente, chiedeva che la Sezione specializzata agraria del Tribunale di Parma dichiarasse non potere aver luogo la conversione del contratto di mezzadria in affitto, chiesta dal mezzadro Visconti Renzo ai sensi della legge 3 maggio 1982 n. 203.

Nel corso del giudizio il Tribunale, con ordinanza del 16 febbraio 1983 (reg. ord. n. 510 del 1983) sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 25, 26, 28 e 30 della legge citata, con riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 41, 42, 43, 44, 46 Cost.

Le questioni venivano motivate sostanzialmente con gli stessi argomenti già svolti nelle ordinanze di rimessione del Tribunale di Ravenna. É anche ravvisabile, secondo il giudice rimettente, un'espropriazione di impresa a carico del concedente che sul fondo ha investito capitali e svolto un'attività di gestione, senza che ricorrano i presupposti (interesse generale, procedimento legale e indennizzo) di cui all'art. 43 Cost.

La trasformazione del concedente da esercente un'attività economica in mero reddituario si porrebbe in contrasto anche con l'art. 4 Cost., violando il diritto al lavoro, inteso quale possibilità di scegliere l'attività lavorativa ed i suoi modi di esercizio.

L'ingiustificato sacrificio di una delle parti del rapporto associativo lederebbe, ancora una volta, il principio di eguaglianza: né sarebbe possibile definire il mezzadro quale parte più debole, stante la legislazione speciale a lui particolarmente favorevole.

Altro motivo di incostituzionalità é dato, secondo l'ordinanza di rimessione, dal contrasto con l'art. 46 Cost, che asseconda forme di imprenditorialità associativa.

Sarebbe anche violato l'art. 44 Cost., poiché il sacrificio eccessivo dell'interesse del proprietario impedirebbe l'instaurazione di più equi rapporti sociali, nonché l'art. 42 Cost., per l'esiguità del canone d'affitto, determinato ancora secondo le rendite catastali del 1939.

Il mutamento unilaterale della causa del contratto contrasterebbe, infine, col principio di autonomia negoziale e così, indirettamente, ancora con gli artt. 41 e 42 Cost.

Ordinanze sostanzialmente identiche a quella ora illustrata venivano emesse in data 16 febbraio 1983 dallo stesso Tribunale nei processi Bertogalli contro Cerdelli, Agostoni c. Papoli e Borsi c. Guareschi (reg. ord. nn. 511, 512 e 513 del 1983).

  1. - Questioni di legittimità costituzionale analoghe venivano sollevate ancora con le seguenti ordinanze:

- Tribunale di Siena, 3 maggio 1983, in cause Meoni c. Nannetti, Gaetani c. Fracassi, Paccagnini c. Rossi, Savio c. Fontanelli, Melli c. Quercioli, Conforti c. Sani, s.r.l. Immobiliare Cimarosa c. Mangiavacchi, Meoni c. Medaglini, Gaetani c. Barbi, Nanni c. Masi, Fuligni c. Giannetti (reg. ord. da n. 540 a n. 550 del 1983).

Il Tribunale impugna gli artt. 25, 26, 28 e 30 l. n. 203 del 1982 in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 42, 44 Cost.

- Tribunale di Modena, 26 marzo 1983, in cause Torregiani c. Clò, Mascagni c. Mattioli, Notari c. Borghi, Fortunato c. Bugamelli (reg. ord. nn. da 572 a 575 del 1983).

Il Tribunale impugna gli artt. 25, 26, 28 e 30 l. cit. in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 42, 44 Cost.

- Tribunale di Montepulciano, 21 aprile 1983, in cause Noli c. Rossi, Rinaldini c. Alfatti, Mangiavacchi c. Pascucci, Bardi c. Terrosi (reg. ord. nn. da 576 a 579); 19 maggio 1983, in cause Noli c. Meloni, Noli c. Pinzi Marino, Noli c. Pinzi Tito, Gori c. Canini, Bertoli c. Pifferi, Bertoli c. Vannucci, Paolucci c. Del Ticco (reg. ord. da n. 604 a n. 610 del 1983); 2 giugno 1983, Società Immobiliare Agricola c. Fantini, Paolozzi c. Nocchi, s.n. c. Azienda agraria Fregoli c. Fabbrizzi, Rettori c. Del Ticco (reg. ord. da n. 661 a n. 664 del 1983).

Il Tribunale impugna gli artt. 25, 26, 28 e 30 l. cit. in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 42, 44, 46 Cost.

- Corte d'appello di Bologna, 3 maggio 1983, in cause Martini c. Foschini e Archi c. Sangiorgi (reg. ord. nn. 611 e 725 del 1983) nonché 5 luglio 1983, Dirani c. Baldassarri e Dari c. Zannetti (reg. ord. nn. 726 e 767 del 1983). La Corte impugna gli artt. 25, 26, 28 e 30 l. cit. in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 42, 44 Cost.

- Tribunale di Voghera, 21 giugno 1983, in causa Giorgi Vimercati di Vistarino Carlo c. Alberici (reg. ord. n. 771 del 1983), in cui - con particolare riguardo alla tutela dell'imprenditore a titolo principale, definito dalla legge n. 153 del 1975 - vengono impugnati gli artt. 25, 26, 28, 30, 32 e 33 l. cit. in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 42, 43, 44 Cost.

- Tribunale di Arezzo, 27 maggio 1983, in causa Cipriani c. soc. Sinigiola (reg. ord. n. 774 del 1983), in cui vengono impugnati gli artt. 25, 26, 28 e 30 l. cit. in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 42, 43, 44, 46 Cost.

- Tribunale di Mantova, 12 luglio 1983, in causa Lucato c. Milani (reg. ord. n. 902 del 1983) e 27 settembre 1983, in cause Dalzini c. Grazzi e Bergamin c. Toffoli (reg. ord. nn. 950 e 951 del 1983). Nella prima di queste ordinanze il Tribunale impugna gli artt. 25, 26, 34 e 37 l. cit. e nelle altre due gli artt. 25, 26 e 28. Le norme di riferimento sono sempre gli artt. 3, 41, 44 Cost.

- Tribunale di Fermo, 23 settembre 1983, in causa Renzi c. Bassi (reg. ord. n. 992 del 1983), in cui - anche con riguardo alla tutela dell'imprenditore a titolo principale, che però il Tribunale stesso ammette essere estranea alla fattispecie concreta - viene impugnato l'art. 25 l. cit. in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.

- Tribunale di Modena, 10 ottobre 1983, in causa Trenti c. Bioli (reg. ord. n. 993 del 1983), in cui - anche qui con particolare riguardo alla tutela dell'imprenditore a titolo principale - vengono impugnati gli artt. 25, 26, 28 e 30 l. cit. in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 42 e 44 Cost.

- Tribunale di Pesaro, 28 maggio 1983, in causa Scribatti c. Cecchini (reg. ord. n. 994 del 1983), in cui viene impugnato l'art. 25 l. cit. in riferimento all'art. 41 Cost.

- Tribunale di Vasto, ordinanze 1 luglio 1983, in cause Suriani c. Palazzeschi Galassi, Suriani c. Colameo e Suriani c. Di Giacomo (reg. ord. nn. 1013, 1014 e 1015 del 1983) e 21 ottobre 1983, in causa Roselli c. Di Bartolomeo (reg. ord. n. 1016 del 1983). Il Tribunale impugna gli artt. 25, 26, 28, 29, 30 e 31 l. cit. in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 42, 43, 44 Cost.

- Pretore di Orvieto, ritenutosi competente quale giudice del lavoro in forza dell'art. 47 l. 203 del 1982, con ordinanze del 1 febbraio 1983, nelle cause Bocchino c. Cipriani (reg. ord. n. 345 del 1983); Rosati c. Fattorini (reg. ord. n. 346 del 1983), s.p.a. Imprese nazionali e coloniali- Casa vinicola Conte Vaselli c. Paggio (reg. ord. n. 347 del 1983), idem c. Pettinelli (reg. ord. n. 348 del 1983), idem c. Cognigni (reg. ord. n. 349 del 1983), idem c. Paggio (reg. ord. n. 350 del 1983), idem c. Limoncini (reg. ord. n. 351 del 1983), idem c. Gentili (reg. ord. n. 352 del 1983), Belcapo c. Petrangeli (reg. ord. n. 353 del 1983), Battaglini c. Equitani (reg. ord. n. 354 del 1983), Battaglini c. Pelliccia (reg. ord.n. 355 del 1983), Brazzetti c. Costantini (reg. ord. n. 356 del 1983), Societé anonyme suisse d'exploitations agricoles" Tenuta di Corbara" c. Corradini (reg. ord. n. 357 del 1983), Olimpieri c. Baffo (reg. ord. n. 358 del 1983), Toccafondi c. Santelli (reg. ord. n. 359 del 1983), Olimpieri c. Ermini (reg. ord. n. 360 del 1983), Societé anonyme suisse d'exploitations agricoles "Tenuta di Corbara" c. Boccio (reg. ord. n. 361 del 1983), Brazzetti c. Ricci (reg. ord. n. 362 del 1983), Societé anonyme suisse d'exploitations agricoles "Tenuta di Corbara" c. Magarini (reg. ord. n. 363 del 1983), Caiello c. Corradini (reg. ord. n. 364 del 1983), Societé anonyme suisse d'exploitations agricoles "Tenuta di Corbara" c. Alcidi (reg. ord. n. 365 del 1983), idem c. Corradini (reg. ord. n. 366 del 1983); 30 maggio 1983, Ranchini c. Duranti (reg. ord. n. 728 del 1983); 9 maggio 1983, Tozzi c. Ubaldini, Muzi c. Menichetti, Alberti c. Proietti (reg. ord. da n. 730 a n. 732 del 1983).

Con tutte queste ordinanze il Pretore impugna gli artt. 25 e 26 l. cit., in riferimento agli artt. 41 e 42 Cost., osservando in particolare che la conversione della mezzadria in affitto si risolve in un atto ablativo senza indennizzo, tenuto conto specialmente dell'esiguità del canone e dell'aggravato carico tributario dovuto all'aumento delle rendite catastali per effetto del d.1. 30 dicembre 1982 n. 953 (conv. in l. 28 febbraio 1983 n. 53).

- Tribunale di Ancona, 9 aprile 1983, Alessandrini c Stacchiotti (reg. ord. n. 446 del 1983); 5 luglio 1983, Istituto Muzio Gallo c. Menghini, Ciarmatori c. Coloccini; 16 luglio 1983, Bellucci c. Pesciarelli, Hercolani Fava Simonetti c. Gatto, Berti Sisti c. Giampieri; 28 giugno 1983, Giuliani c. Bernacchia Ricciotti, Zonghi c. Buldrini; 11 giugno 1983, Mancinelli c. Pulita; 8 ottobre 1983, Istituto Muzio Gallo c. Gergho, Battaglia c. Stortoni, Pallucchini c. Borgognoni, Menichini c. Bolletta, Moscatelli Gentilini c. Romiti, Pia Società dei Missionari di San Carlo Scalabriniani c. Capogrosso (reg. ord. da n. 831 a n. 839 e da n. 968 a n. 974 del 1983).

Il Tribunale impugna gli artt. 25, 26 e 31 l. cit. in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.

- Tribunale di Macerata, ordinanze del 9 giugno 1983, in cause Ambrosini c. Moretti (reg. ord. n. 666 del 1983), Pagani e Latini- Macioti c. Bellesi (reg. ord. n. 670 del 1983), Cervigni c. Verdini, Ambrosio c. Biagiola, Ambrosio c. Compagnucci, Lattanzi c. Rossetti (reg. ord. nn. 665, 667, 668, 669 del 1983); 13 ottobre 1983, Amici Perozzi c. Scarponi, Sartori c. Moglie, Rognanti Spoletini c. Chiacchera (reg. ord. da n. 954 a n. 956 del 1983), con le quali vengono impugnati gli artt. 25, 26, 28 e 31 l. cit. in riferimento agli artt. 3, 41 e 42 Cost.

  1. - La Presidenza del Consiglio dei ministri é intervenuta nelle cause relative alle ordinanze nn. 87, 228, 360, 365, 366 del 1983 chiedendo che sia dichiarata la non fondatezza di tutte le questioni.

L'interveniente osserva che le norme impugnate apportano limiti alla libertà d'iniziativa economica ed alla proprietà privata al fine di potenziare le imprese agricole, favorendone l'assunzione da parte di chi direttamente coltiva la terra, vale a dire per finalità sociali, in conformità agli artt. 41 e 42 Cost. La legittimità dei detti limiti rende altresì legittimi quelli all'autonomia contrattuale, il cui esercizio é tutelato solo indirettamente nell'ambito dei citati artt. 41 e 42 e può essere compresso dall'intervento del legislatore ordinario, secondo il principio espresso dall'art. 1339 cod. civ. E comunque escluso qualsiasi fenomeno anche indirettamente espropriativo.

Né - prosegue l'interveniente - trattandosi di perseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire più equi rapporti sociali, può ritenersi violata la riserva di legge di cui all'art. 44 Cost., per essere la conversione del contratto rimessa all'iniziativa di soggetti privati, non escludendo la detta riserva meccanismi di incentivo affidati alla volontà privata.

E ancora da escludere, secondo la Presidenza del Consiglio, una violazione del principio di eguaglianza per irrazionale parificazione dei concedenti assenteisti e non, poiché questi ultimi possono escludere la conversione giovandosi particolarmente degli artt. 29, 30 e 36 l. n. 203 del 1982.

Quanto alla pretesa violazione dell'art. 4 Cost., l'interveniente rinvia alle sue osservazioni relative all'art. 41.

La Presidenza del Consiglio dei ministri, riportandosi alle dette argomentazioni, interviene anche nelle cause relative alle ordinanze nn. 550, 578, 663, 725, 726, 767, 771, 774, 902, 950, 951, 954, 955, 956, da 831 a 839, da 969 a 974, da 992 a 994, da 1013 a 1016.

  1. - La legittimità costituzionale delle norme impugnate é sostenuta anche da alcune parti private.

Timoncini Emilio (causa n. 87 del 1983) Cenni Domenico (n. 228 del 1983) e Stacchiotti Giulio (n. 466 del 1983) sostengono che l'art. 41, secondo comma, Cost. "vieta" le imprese private confliggenti con l'utilità sociale e che comunque l'istituto della conversione é il risultato di una scelta discrezionale del legislatore, come tale non censurabile dalla Corte.

Moretti Paolo (n. 666 del 1983) e Frattani Enrico (n. 671 del 1983), premettono alcune notizie storiche sulla mezzadria, considerata bensì come contratto associativo eppure assoggettata alla contrattazione collettiva al pari di un rapporto di lavoro subordinato e poi vietata dalla legge n. 756 del 1964 senza che il divieto abbia dato luogo a questioni di legittimità costituzionale; ciò posto, essi svolgono ampie considerazioni sulla funzione economica dell'istituto della conversione di cui alla legge in questione, la quale non lederebbe gli interessi del concedente. Questi, infatti, se realmente svolge un'attività imprenditoriale, può esercitare il diritto di ripresa come coltivatore diretto o equiparato (;artt. 7 e 42), oppure, se "imprenditore a titolo principale", può esercitare le facoltà di cui all'art. 30. Al di fuori di queste ipotesi, affermano le parti, la figura dell'imprenditore-concedente corrisponde solo a una definizione giuridico-formale, mentre l'esiguità del reddito pro-capite del concessionario giustifica, sotto il profilo dell'utilità sociale, interventi legislativi intesi al miglioramento della sua condizione, non perseguibile né con la pura e semplice estinzione dei rapporti associativi né con una diversa ripartizione in natura dei prodotti.

Le parti deducono anche che, in caso di conversione, al concedente spetta il "premio" di cui all'art. 42 lett. g l. n. 153 del 1975.

Nelle cause relative alle ordinanze nn. 572, 574 e 575 del 1983 si costituivano i coltivatori Clò ed altri, Mattioli e Bugamelli; in quelle relative alle ordinanze nn. 725, 726 e 767 del 1983, Sangiorgi, Dirani e Dari; e poi ancora Gatto, Giampieri, Bernacchia, Buldrini, Pulita (ord. da n. 834 a n. 839 del 1983) e Bioli (ord. n. 993 del 1983), sostanzialmente ripetendo gli argomenti già esposti dagli altri concessionari, ovvero riservandosi di svolgere le loro difese in successive memorie.

  1. - I concedenti Pezzi Achille, Ghetti Pier Luigi, Brusi Luigi, Societé anonyme suisse d'exploitations agricoles "Tenuta di Corbara", Alessandrini Angelo, Pagani e Latini-Macioti, Martini, Archi, Baldassarri e Suriali chiedono dichiararsi l'illegittimità costituzionale delle norme impugnate rifacendosi agli argomenti contenuti nelle ordinanze di rimessione.

In particolare il Pezzi, il Ghetti ed il Brusi osservano anzitutto che la conversione dei contratti agrari associativi in affitto integra una illegittima sottrazione del potere di iniziativa economica privata del concedente, riducendolo a semplice percettore di canoni. Essi precisano che l'iniziativa economica va intesa come attività produttiva in genere e addirittura come semplice destinazione di un capitale alla produzione e non soltanto, quindi, come attività d'impresa. Le parti aggiungono poi che una violazione del citato art. 41 é integrata già con la soppressione dell'autonomia negoziale del concedente ed é ancor più evidente quando il medesimo, una volta stipulato il contratto associativo, abbia investito capitali sul fondo ed abbia provveduto alla sua gestione.

Inoltre sarebbe ravvisabile un trasferimento coattivo di impresa al di fuori dei presupposti indicati dall'art. 43 Cost., nonché una violazione degli artt. 42 e 44, dato che l'equilibrio delle posizioni del concessionario e del concedente-proprietario dev'essere salvaguardato anche tenendo conto degli investimenti effettuati da quest'ultimo. Né, osservano ancora le parti, può parlarsi di sacrificio della proprietà e dell'iniziativa economica privata per fini di utilità generale, posto che la conversione é affidata alla sola volontà del concessionario, ossia ad una valutazione esclusivamente privatistica; la possibile sopravvivenza dei contratti associativi dimostrerebbe altresì l'insussistenza di un loro contrasto con l'utile generale e la contraddittorietà delle scelte del legislatore.

L'incoerenza del legislatore nel disciplinare discrezionalmente la materia sarebbe dimostrata, ancora, dall'esclusione della conversione per le unità produttive insufficienti (art. 31 l. cit.) e dall'averla riservata così alle unità produttive più prospere, ossia a quelle in cui il concedente ha speso più energie lavorative ed ha effettuato i maggiori investimenti.

Le norme impugnate contrasterebbero infine con gli artt. 3 e 4 Cost. per non avere il legislatore tenuto conto della posizione dei concedenti-imprenditori agricoli a titolo principale, come definiti dalla legge n. 153 del 1975, i quali, dedicando all'agricoltura la maggior parte della loro attività lavorativa e traendone la maggior parte del loro reddito, sono senza giustificazione sacrificati al pari di ogni altro concedente e sono privati forzatamente del loro lavoro.

Nelle cause relative alle ordinanze nn. 511, 512 e 513 del 1983 si costituivano i concedenti Bertogalli, Agostoni e Borsi, i quali osservano come al proprietario del fondo spetti la qualifica di imprenditore, a prescindere da una sua effettiva attività di gestione dell'impresa, dovendosi aver riguardo alla struttura non all'effettivo svolgimento del rapporto associativo. Legittimi, inoltre, sarebbero gli interventi del legislatore ordinario su singole clausole dei contratti, ma non anche una completa trasformazione del rapporto.

Si costituivano anche, riservandosi di illustrare i motivi in una successiva memoria, i concedenti Meoni, Gaetani, Paccagnini, Savio, Melli, Conforti, s.r.l. Immobiliare Cimarosa, Nanni, Fuligni, Noli, Rinaldini, Mangiavacchi, Bardi, Gori, Bertoli, Paolucci, Società Immobiliare Agricola, Paolozzi, Azienda agraria Fregoli, Rettori.

Carlo Giorgi Vimercati e la s.r.l. Sinigiola aderiscono alle argomentazioni del Tribunale di Voghera.

L'illegittimità costituzionale dell'istituto della conversione viene sostenuta ancora dai concedenti Torreggiani, Notari, Mascagni e Fortunato, Toffoli, Istituto Muzio Gallo, Ciamartori, Bellucci, Hercolani Fava Simonetti, Berti Sisti, Giuliani, Zonghi, Mancinelli, Battaglia, Pallucchini, Menichini, Moscatelli, Bassi, Cecchini

  1. - Le parti private Cenni, Moretti e Frattani hanno presentato in prossimità dell'udienza memoria illustrativa insistendo sulla non fondatezza di tutte le questioni.

Esse premettono una vasta introduzione storica che parte da considerazioni relative all'età immediatamente postfeudale e giunge, attraverso autori dell'Ottocento francese, fine alla crisi odierna della agricoltura italiana, da cui emerge come della mezzadria siano stati sempre avvertiti gli inconvenienti sociali ed economici. Ultimamente, poi, il giudizio sfavorevole verso questo istituto é stato espresso dal legislatore con la legge n. 756 del 1964

Esso deriva essenzialmente dalla natura del rapporto, solo apparentemente associativo ma in realtà caratterizzato da una contrapposizione permanente delle parti, nonché dai troppo esigui redditi della famiglia mezzadrile; redditi suscettibili di aumento attraverso la sostituzione della divisione dei prodotti con un canone in denaro, la cui equità deve comunque essere valutata non soltanto con riferimento alle variazioni del potere d'acquisto della moneta ma anche alle variazioni dei costi di produzione e dei prezzi dei prodotti agricoli.

La trasformazione é così giustificata dal fine di instaurare più equi rapporti sociali (art. 44 Cost.), intesi come rapporti tra le classi sociali, in considerazione della già rilevata sotto remunerazione dei concessionari e della endemica conflittualità dei rapporti attuali (ciò che renderebbe inconferente ogni richiamo all'art. 46 Cost.).

Quanto alla pretesa disparità di trattamento tra concedente e concessionario, essendo solo quest'ultimo titolare del diritto potestativo di conversione, le parti osservano che la conversione imposta dal concedente avrebbe comportato un'inammissibile assunzione forzata di una serie di obbligazioni di fare da parte del concessionario.

Non sarebbe poi configurabile la lamentata violazione del diritto del concedente al lavoro (art. 4 Cost.) poiché non può considerarsi costituzionalmente tutelata una posizione su cui da vent'anni il legislatore ordinario ha espresso un giudizio negativo generalmente condiviso.

Né sussiste, secondo le parti, una lesione del diritto di iniziativa economica privata, poiché al concedente non é impedito di iniziare, attraverso il diritto di ripresa, la conduzione di un'impresa agricola.

Frattani Enrico ha depositato anche una seconda memoria illustrativa, svolgendo ulteriormente gli argomenti sopra esposti.

  1. - Memorie illustrative sono state presentate altresì da alcuni concedenti.

Le parti Latini-Macioti e Pagani premettono che dalla legislazione ordinaria non emerge - come vorrebbero i concessionari - un giudizio negativo verso la mezzadria ma piuttosto tendenze contraddittorie: infatti quel tipo contrattuale, dopo avere assunto caratteri più spiccatamente associativi con la legge n. 756 del 1964, é stato conservato, sia pure per i soli rapporti "di fatto", con la legge n. 592 del 1971 nonché, paradossalmente per le aziende più povere, con la stessa legge n. 203 del 1982. Né, secondo le parti, può dirsi che la legge attui le direttive comunitarie nn. 159 e 160 del 1972, che si limitarono a consigliare miglioramenti tecnici delle imprese agricole ma non mutamenti dei tipi contrattuali (mentre la legislazione francese configura la conversione della mezzadria in affitto solo come rimedio ad alcune gravi inadempienze delle parti).

Quanto alle diverse posizioni del concedente e del concessionario, le parti sostengono che l'assenteismo del primo andrebbe quanto meno dimostrato caso per caso mentre il secondo potrebbe essere tutelato, nel momento dello scioglimento del rapporto associativo, solo con un equo indennizzo, non potendo darsi una protezione privilegiata del lavoro manuale (alla quale soltanto é ancorato il diritto di ripresa, di cui all'art. 42 della legge in questione). La tutela del lavoro dell'imprenditore viene riferita dalle parti anche all'art. 35 Cost.

La memoria illustrativa si chiude con considerazioni riferite ad indagini economico-statistiche ed intese a dimostrare che la mezzadria comporta, rispetto all'affitto, un indirizzo produttivo migliore, una maggiore meccanizzazione, una zootecnia più diffusa ed un migliore impiego della manodopera.

I Latini-Macioti e Pagani negano, ancora, che all'imprenditore "espropriato" spetti il "premio" di cui all'art. 42 l. n. 153 del 1975, previsto solo per i concedenti che volontariamente trasformino la mezzadria in affitto.

Ulteriori memorie illustrative sono state depositate in prossimità dell'udienza pubblica dalle parti Pezzi, Ghetti, Brusi, Martini, Archi, Baldassarri, Zannetti.

Il concedente Suriani riprende gli argomenti già addotti dal Pezzi.

Le memorie dei concedenti Bertogalli, Agostoni e Borsi sono fondate soprattutto sulla qualità di imprenditore sia del concedente, su cui grava il rischio d'impresa, sia del mezzadro, il quale ultimo non può essere considerato come lavoratore subordinato e perciò contraente più debole.

Meoni Elena ammette che l'istituto della conversione é in linea con alcuni orientamenti espressi dalla Comunità Economica Europea, ma rileva la non economicità del contratto di affitto, che dal 1971 sarebbe stato progressivamente abbandonato in Italia, mentre le condizioni di vita e lo stato giuridico dei mezzadri sarebbero progressivamente migliorati. La memoria si chiude con richiami comparatistici, intesi a dimostrare l'intensa tutela della proprietà privata nei rapporti agrari in tutta l'Europa occidentale.

Anche il Giorgi Vimercati di Vistarino pone in rilievo la propria qualità di titolare di un'impresa agraria formata di molti poderi condotti a mezzadria, mentre solo alcuni mezzadri hanno richiesto la conversione. Egli si qualifica, anzi, imprenditore a titolo principale.

Considerato in diritto

  1. - Tutte le ordinanze in epigrafe, sottopongono alla Corte questioni di legittimità costituzionale analoghe o strettamente connesse: pertanto i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
  2. - La prima questione concerne la disposizione, di portata generale, dell'art. 25 l. 3 maggio 1982 n. 203, contenente norme sui contratti agrari, nella parte in cui essa prevede la c.d. conversione automatica in affitto, ossia senza il consenso del concedente, dei contratti di mezzadria e colonia parziaria se la conversione stessa é chiesta dal mezzadro o colono (in prosieguo, per brevità, si farà esplicito riferimento soltanto al primo, con formula comprensiva anche del secondo); mentre, se la richiesta proviene dal concedente, la trasformazione del contratto non ha luogo senza il consenso del mezzadro (art. 26 l. cit.).

Alcune ordinanze si riferiscono poi alla disposizione dell'art. 30 l. cit., relativa alla conversione nel caso in cui il concedente sia imprenditore a titolo principale ai sensi dell'art. 12 l. 9 maggio 1975 n. 153: disposizione che contiene una disciplina speciale, ma che comunque, in definitiva, privilegia pur sempre la volontà unilaterale del mezzadro. Naturalmente il riferimento, contenuto nelle dette ordinanze - precisamente dei Tribunali di Voghera (ord. n. 771/83), Modena (ord. nn. 572-575 e 993/83) e Parma (ord. nn. 511 e 513/83) -, formerebbe oggetto di distinta considerazione esclusivamente nell'ipotesi di non fondatezza della questione generale, mentre in caso contrario, per evidenti esigenze di carattere logico, esso rimarrebbe necessariamente coinvolto nella decisione dell'impugnativa principale.

L'ambito dell'esame che la Corte deve condurre concerne soltanto le due norme sopra indicate, sebbene i giudici a quibus abbiano genericamente e confusamente indicato anche gli artt. 26, 28, 29, 31, 32, 33, 34 e 37 l. cit.; per vero, alcune di tali norme sono richiamate senza una specifica ragione, mentre altre vengono utilizzate da qualche ordinanza di rimessione per corroborare quanto dedotto a sostegno della proposta questione di legittimità costituzionale della conversione automatica.

Ai fini della delimitazione del detto ambito, giova altresì aggiungere che tutti i giudizi principali hanno per oggetto contratti di mezzadria o colonia parziaria, previsti nel primo comma del citato art. 25, sicché non vengono in discussione gli altri contratti indicati nel comma successivo.

  1. - Prima di affrontare il problema fondamentale di cui la Corte si deve occupare, é opportuno ricordare sinteticamente i precedenti immediati della legge in oggetto.

Mentre nel codice civile del 1865 la mezzadria (così come la colonia parziaria) era considerata un contratto di scambio ed era inquadrata nell'istituto della locazione, nel codice del 1942 essa venne qualificata come contratto associativo, dando luogo al sorgere dell'impresa agricola la cui direzione fu attribuita al concedente (artt. 2145 secondo comma e 2169).

A seguito di un ampio movimento di natura economico-sociale e politica, che aveva radici lontane ma trovò nel dopoguerra motivi di notevole accelerazione, venne ad affermarsi e prevalere un orientamento di disfavore verso l'istituto, che non fu ritenuto più idoneo ad assicurare, da un lato, il migliore sviluppo dell'agricoltura e, dall'altro, il superamento degli inevitabili conflitti sociali tra concedenti e coltivatori.

Fra le ragioni dell'insorto disfavore qui particolarmente rileva l'inerzia (spesso riscontrabile) del concedente, il quale, trascurando i propri doveri di direzione, comprometteva il buon andamento dell'impresa, con grave danno dell'agricoltura in genere e con specifico pregiudizio del mezzadro, ridotto a trarre modesti utili dalla sua attività lavorativa. Da ciò l'acuirsi della tensione nei rapporti tra le parti e il correlativo disinteresse del coltivatore, non più disposto a sopportare gli oneri per la cura del fondo, previsti a suo carico, ma incline a procurarsi la somma di denaro necessaria per l'acquisto di un proprio fondo al fine di sottrarsi alla soggezione al concedente e, in tal modo, diventando proprietario, di poter provvedere autonomamente alla conduzione dell'azienda.

Una tappa di grande rilievo é rappresentata dalla legge 15 settembre 1964 n. 756, della quale, per quanto qui interessa, é sufficiente ricordare il divieto di stipulare nuovi contratti di mezzadria (art. 3) nonché l'attribuzione al mezzadro della con titolarità della direzione dell'impresa (art. 6).

Il suddetto divieto venne ribadito dalla l. 4 agosto 1971 n. 592, la quale tuttavia considerò efficaci quei contratti mezzadrili instaurati di fatto dopo la legge del 1964.

La suindicata normativa nazionale trovò motivi di conforto in alcuni atti della Comunità Economica Europea (come il secondo piano Mansholt e le due direttive nn. 159 e 160 del 1972) in cui tendenzialmente si mostrava preferenza per il contratto d'affitto (la mezzadria, peraltro, era praticata in maniera molto limitata nell'ambito comunitario e prevalentemente in alcune zone dell'Italia e della Francia).

La legge n. 203 del 1982, oggetto di questo giudizio, viene ad innestarsi in tale complesso normativo e, nel solco delle precedenti scelte, ribadisce il divieto di instaurare nuovi rapporti di mezzadria, imperativamente statuendo che l'unico schema utilizzabile per il contratto agrario (salvo le modeste eccezioni degli artt. 30 e 36, e probabilmente dell'art. 45, il cui contenuto é variamente inteso in dottrina) é quello dell'affitto. Tale scelta legislativa non viene limitata ai contratti futuri, ma é estesa anche a quelli in corso, ed appunto a tale estensione si collega la conversione, prevista dagli artt. 25 e segg. l. cit., del rapporto di mezzadria in quello di affitto. Naturalmente, sarebbe del tutto fuori luogo soffermarsi sulle discussioni dottrinali circa la correttezza dell'espressione usata ("conversione"), in quanto viene qui in considerazione il contenuto dell'istituto e risulta invece priva di rilievo la terminologia alla quale il legislatore ha fatto ricorso.

  1. - Ciò posto, osserva la Corte come non sia in discussione la scelta operata con la cit. l. 15 settembre 1964 n. 756e successivamente ribadita anche con la legge in esame, scelta di netto disfavore verso la mezzadria, non più ritenuta idonea, come si é già accennato, né all'incremento della produttività agricola, né al mantenimento dei buoni rapporti sociali tra le categorie interessate.

Il punto in questione consiste invece nella conversione in affitto di contratti associativi agrari in corso, collegata dal cit. art. 25 ad un mero atto unilaterale del mezzadro: conversione della cui legittimità costituzionale le ordinanze di rimessione dubitano prospettando il contrasto con gli artt. 3, 4, 41, 42, 43, 44 e 46 della Costituzione.

  1. - Si assume anzitutto che il principio di eguaglianza sancito con l'art. 3 della Costituzione é leso per il fatto che, mentre la richiesta del mezzadro trasforma senz'altro la mezzadria in affitto, l'analoga richiesta del concedente é operativa soltanto se vi é l'adesione dell'altra parte.

La questione non é fondata, non ricorrendo il presupposto fondamentale del principio di eguaglianza, che esige la stessa disciplina per situazioni identiche o sostanzialmente analoghe (mentre richiede un regolamento differenziato per quelle che siano caratterizzate da intrinseca eterogeneità).

É vero che in base al cit. art. 6 l. n. 756 del 1964 il mezzadro, avendo ottenuto la contitolarità (insieme al concedente) del potere di direzione dell'impresa, ha assunto la posizione di imprenditore, posizione che gli é stata riconosciuta dalla consolidata giurisprudenza ordinaria. Ma ciò non impedisce che il legislatore possa tenere conto degli effettivi contenuti dei rapporti sociali, i quali, se pure in precedenza unificati e confluenti in un'analoga qualifica giuridico-formale, pur tuttavia nella realtà fenomenica metagiuridica conservano una loro intrinseca diversità, alla quale la legge successiva, in base a mutati orientamenti, intende dare rilievo: ed é evidente come alla comune con direzione (nel cui ambito non é peraltro pacifico che i poteri delle due parti siano identici) il mezzadro aggiunge il lavoro manuale e con esso un vincolo più intenso e diretto con il fondo, elementi questi che non irrazionalmente possono determinare nei suoi confronti una maggiore attenzione e una più spiccata considerazione da parte del legislatore.

E di ciò può trarsi conferma dalla stessa legge n. 756 del 1964, la quale, pur disponendo la coimprenditorialità, ha infranto, definitivamente il criterio della ripartizione al 50 per cento degli utili e dei prodotti (che pur dovrebbe conseguire, secondo un criterio logico-formale, all'analoga posizione conferita ai due soggetti), privilegiando il mezzadro (art. 4) al quale ha attribuito il 58 per cento (come ha anche privilegiato il colono: artt. 9 e 10 l. cit.). E tale trattamento di maggior favore risulta ribadito nella legge impugnata (artt. 30 e 37), la quale ha aumentato in misura ancora maggiore la quota del mezzadro per i contratti non convertiti, confermando così ulteriormente una tendenziale preferenza per il coltivatore.

Conseguentemente il migliore trattamento riservato al mezzadro in tema di conversione non può ritenersi, sotto il profilo qui considerato, ingiustificato ed arbitrario, ma trova fondamento in una scelta economico-sociale e politica che, come tale, é riservata al legislatore.

  1. - Neppure regge l'altra denunzia, con cui si lamenta la violazione dello stesso art. 3 Cost. per intrinseca irragionevolezza delle norme: irragionevolezza dedotta anzitutto con un'argomentazione di carattere generale e poi suffragata con singoli, specifici motivi.
  2. A) L'argomentazione generale si fonda sul fatto che la conversione non ha carattere universale, ma é rimessa alla volontà delle parti, le quali possono non chiederla, protraendo così il rapporto di mezzadria per il tempo previsto dall'art. 38: il che, secondo le ordinanze di rimessione, priverebbe l'istituto di qualsiasi fondamento razionale, non essendo compatibile il potere dispositivo attribuito ai soggetti interessati con il carattere automatico (o coattivo) della trasformazione richiesta dal mezzadro.

Sebbene questo argomento sia ampiamente sviluppato anche negli scritti difensivi dei concedenti, non sembra alla Corte che esso sia convincente.

Indubbiamente il legislatore del 1982, come già rilevato, ha inteso perseguire l'interesse superiore della produzione e nello stesso tempo comporre i conflitti tra le categorie interessate, creando un sistema di effettivo e perdurante equilibrio; a ciò egli ha provveduto, tendenzialmente inclinando per il contratto di affitto e ulteriormente ribadendo il suo giudizio sfavorevole per la mezzadria: giudizio sfavorevole dovuto non tanto al carattere associativo di essa, perché gli artt. 30 e 36 consentono negozi associativi di altro tipo (e lo stesso art. 45 é interpretato da parte della dottrina nel senso che autorizza tali negozi, sia pure con l'assistenza delle organizzazioni sindacali), quanto per la ricordata sua intrinseca inidoneità funzionale a realizzare, di regola, il modello agrario più conveniente.

Ciò posto, sembra eccessivo accusare la legge di irrazionalità sol perché essa, sui contratti in corso, non é intervenuta autoritativamente e drasticamente, ma ha voluto utilizzare la cooperazione delle parti, lasciando al loro giudizio di stabilire se l'inidoneità funzionale della mezzadria, generalmente riscontrabile, si riveli insussistente nel singolo caso, sicché esse possano decidere di proseguire il rapporto in corso. La scelta legislativa non poteva certo non essere incondizionatamente obbligatoria per i futuri contratti; per quelli in corso, invece, non sembra irragionevole aver consentito nei singoli casi concreti, in base alle precedenti esperienze, il giudizio delle parti interessate sul funzionamento dello strumento giuridico scelto e la facoltà, loro accordata, di perdurare nel rapporto in atto.

  1. B) Per quanto concerne poi le singole norme invocate come tertium comparationis, osserva brevemente la Corte che da esse non può ricavarsi alcun elemento degno di rilievo.

Non é invero illogico che la conversione sia stata esclusa per le unità produttive insufficienti (art. 31), in quanto l'inidoneità del fondo non permetterebbe di conseguire il potenziamento e miglioramento dell'agricoltura, che é uno dei due obiettivi fondamentali a cui é preordinato l'intervento del legislatore in tema di conversione.

Fuori di proposito - e senza alcuna motivazione - vengono poi indicati gli artt. 28, 32 e 33, i quali prevedono casi particolari di conversione, rispettivamente relativa ad aziende pluripoderali o richiesta da più concessionari, mentre completamente estranea alla materia in esame é la disposizione dell'art. 37, concernente modificazioni delle quote di riparto dei prodotti e degli utili. Si deve pertanto concludere che la censura mossa in riferimento all'art. 3 Cost. si presenta, sotto tutti gli aspetti, priva di giuridico fondamento.

  1. - Brevi rilievi sono sufficienti per confutare la censura riferita all'art. 43 Cost., mossa dai giudici a quibus sul presupposto che la conversione importi, a carico del concedente, l'espropriazione dell'impresa.

Tale norma, la quale consente che la legge possa prevedere - a favore dello Stato, o di enti pubblici, o di comunità di lavoratori o di utenti - la riserva, mediante espropriazione e salvo indennizzo, di imprese di preminente interesse generale attinenti a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia e a situazioni di monopolio, sarebbe stata violata, sempre secondo i detti giudici, sotto diversi aspetti: precisamente perché la conversione sarebbe prevista senza il rispetto della riserva di legge, dato che le parti, come si é detto, possono escluderla, e sarebbe prevista altresì senza indennizzo, nonché a favore di soggetti diversi da quelli indicati nella stessa norma costituzionale citata.

In contrario é sufficiente obiettare che nell'ipotesi in esame non si configura un trasferimento della impresa agricola, ma soltanto una limitazione dell'autonomia negoziale, sostituendosi al rapporto originario di mezzadria quello di affitto: il titolare del fondo mantiene integro il diritto, generalmente reale, che aveva sui beni, e continua a goderne sia pure attraverso un tipo di contratto che, se anche diverso rispetto a quello precedentemente stipulato, é pur sempre preordinato al razionale sfruttamento del suolo e trova nella pratica degli affari larga applicazione

(quantitativamente persino maggiore, secondo le statistiche ufficiali, della mezzadria). Alla scadenza dell'affitto il concedente riprende poi la libera disponibilità dei beni aziendali e ciò conferma come nella fattispecie non sia ravvisabile alcun trasferimento.

In alcune memorie difensive e nella discussione orale si é accennato che, se pur deve escludersi un'espropriazione, vi sarebbe pur sempre una requisizione, da considerare del pari illegittima per le medesime ragioni anzidette. Ma, a parte ogni altro rilievo, risulta chiaro come all'ipotesi considerata é completamente estraneo l'istituto richiamato, non potendosi trattare di requisizione in proprietà, perché questa concerne soltanto cose mobili, e dovendosi escludere la requisizione in uso giacché di essa manca l'elemento essenziale, perdurando il pieno godimento del bene da parte del concedente, sia pure con una posizione giuridica mutata.

  1. - Una confutazione ancor più breve é sufficiente per l'impugnativa che si riferisce all'art. 46 della Costituzione, il quale dispone che "ai fini dell'elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori di collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende". Secondo alcuni giudici rimettenti l'istituto della conversione automatica contrasterebbe con il ricordato precetto costituzionale, il quale, promuovendo la collaborazione dei lavoratori, favorisce le forme di imprenditorialità associativa.

Ora, non sembra che si possa concordare sull'utilizzazione in subiecta materia della suindicata norma, la quale, invece, é diretta a consentire la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende

(cogestione) e concerne quindi l'ipotesi inversa a quella considerata. Peraltro può aggiungersi che, come la legge può autorizzare tale cogestione, così può vietare un determinato tipo associativo, quando ritenga che esso non sia utile all'interesse generale che richiede, per contro, come nella specie, una conduzione unitaria dell'impresa. Indubbiamente tale divieto non é illimitato, ma soggiace al normale controllo di costituzionalità, il quale però può essere appropriatamente effettuato non in riferimento al precetto costituzionale in oggetto, bensì al disposto dell'art. 41 Cost., relativo al potere di iniziativa economica.

  1. - Proprio su questa norma le ordinanze di rimessione fondano la principale censura, ampiamente e insistentemente sviluppata dalla difesa dei concedenti, i quali deducono che la disposizione impugnata ha soppresso l'iniziativa economica privata o, comunque, ne ha ridotto il contenuto al di là dei limiti costituzionalmente consentiti.

In proposito osserva la Corte che il cit. art. 41, dopo aver proclamato la libertà di iniziativa economica, ammette che la legge ordinaria (veramente la riserva di legge non é enunciata espressamente, ma viene comunemente ritenuta sussistente) ponga delle limitazioni per ragioni di utilità sociale: e tale finalità, trattandosi di proprietà fondiaria, risulta definita dalla stessa Costituzione nell'art. 44, il quale ha per obiettivo il conseguimento del razionale sfruttamento dei suoli e l'instaurazione di equi rapporti sociali.

Prima però di esaminare se l'istituto della conversione possa effettivamente giustificarsi secondo il disposto del cit. art. 44 (e cioè in base all'utilità sociale come definita da tale norma), deve la Corte soffermarsi su alcuni rilievi pregiudiziali formulati dalla difesa dei concedenti e ampiamente sviluppati nella discussione orale.

Si é eccepito in proposito che l'art. 41 può bensì imporre delle limitazioni al potere di iniziativa privata per utilità sociale, ma che tali limitazioni non possono spingersi sino al punto di mutare, in aperto contrasto con la libera volontà delle parti, la natura e la causa del contratto, e a conforto sono state citate le decisioni di questa Corte nn. 53 del 1974 e 181 del 1981.

Non sembra però che il richiamo alle predette decisioni sia pertinente e che l'invocato principio possa trovare qui applicazione.

Nelle fattispecie da tali decisioni considerate, invero, il legislatore era intervenuto rispetto ad un regolamento negoziale che viveva nella realtà esattamente come le parti lo avevano voluto, e aveva sostituito ad esso autoritativamente un diverso rapporto giuridico il quale, in un caso (quello della sent. n. 53 del 1974), importava addirittura la sostituzione di un diritto reale ad un diritto di obbligazione.

Nell'ipotesi qui in esame, al contrario, il legislatore si é mosso in altro senso, e precisamente per adeguare la disciplina normativa ad una situazione in cui, nella normalità dei casi, la collaborazione imprenditoriale tra concedente e mezzadro era solo apparente - per circostanze originarie ovvero sopravvenute alla costituzione del rapporto - mentre in effetti l'impresa mezzadrile era gestita solo dal secondo, essendosi il primo trasformato di fatto in un puro percettore di reddito. Il che fa perdere consistenza anche ai rilievi formulati sull'ammissibilità della conversione di un contratto associativo in contratto commutativo: senza dire che sulla natura associativa della mezzadria sono state mosse in dottrina alcune riserve, ravvisandosi in essa da qualche autore piuttosto una contrapposizione di interessi che una comunanza di scopo.

La ratio legis, così individuata, risulta inequivocabilmente dai lavori preparatori e, in particolare, dalla relazione di maggioranza al Senato della Repubblica, con cui venne giustificata la conversione forzosa sul rilievo appunto che "nella grande maggioranza dei casi nelle imprese mezzadrili di fatto l'unico imprenditore é il mezzadro" perché il concedente ha trascurato i doveri inerenti alla condirezione dell'impresa, disinteressandosi di essa e percependo quindi la sua quota alla stregua di un canone di affitto.

Né può accedersi alla tesi, svolta in alcuni scritti difensivi delle parti concedenti e condivisa da un'esigua corrente dottrinale, secondo cui la semplice destinazione di un capitale a fini produttivi é espressione di iniziativa economica e perciò deve godere della tutela di cui all'art. 41 Cost., ancorché il titolare, mantenendo una posizione passiva o un comportamento omissivo, assuma la figura comunemente definita di "assenteista". In realtà l'art. 41 cit. tutela la posizione dell'imprenditore, ossia di colui che eserciti un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi e quindi, per quanto concerne specificamente la questione in esame, di chi si adoperi efficacemente per la coltivazione del fondo; solo quest'ultimo quindi può considerarsi partecipe dell'attività imprenditoriale e, perciò, destinatario della tutela dell'art. 41 Cost.

  1. - In base a tutti i superiori rilievi deve ritenersi che la richiamata ratio, a cui si é ispirato il legislatore per introdurre l'istituto e della conversione automatica, merita, in linea di principio, di essere condivisa, non essendo certo irrazionale che egli abbia voluto impedire, non solo la nascita, ma anche la prosecuzione del rapporto in esame.

Però - e qui risiede il vizio della disciplina legislativa - non essendo il fenomeno dell'assenteismo assolutamente generalizzato (tenuto conto che il relatore al Senato lo riferì alla "grande maggioranza dei casi"), non può ritenersi rispondente all'imprescindibile requisito dell'utilità sociale, voluto dall'art. 41 ed esplicato per la proprietà fondiaria dall'art. 44, una conversione indiscriminatamente disposta anche per i casi in cui il concedente abbia adempiuto i suoi oneri, e in cui quindi, funzionando il rapporto normalmente, risulta senza dubbio ingiustificata la trasformazione forzosa disposta dal legislatore.

Al riguardo é certamente esemplare il caso dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ossia di colui che dedica alla coltivazione della terra almeno due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricava dall'attività medesima almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale (art. 12 l. 9 maggio 1975 n. 153). Tale figura, individuata dapprima in sede comunitaria (Direttive nn. 159 e 160 del 1972) e quindi accolta nella legislazione nazionale, é stata giustamente considerata pienamente rispondente ai requisiti soggettivi per la proficua gestione del fondo agricolo. Infatti sono stati previsti nei confronti dell'imprenditore predetto agevolazioni e incentivi idonei al proseguimento dell'attività di un settore generalmente depresso (vedasi l. n. 153 del 1975 cit.). Pertanto non consentito, in base ai parametri degli artt. 41 e 44 Cost., deve ritenersi il trattamento riservato al detto imprenditore dall'art. 30 della legge impugnata, il quale contiene una disciplina contorta e contraddittoria che, in definitiva, permette l'estromissione di lui dall'impresa, equiparandolo in tal modo al concedente "assenteista".

Analogamente non può ritenersi consentita la conversione forzosa nei confronti dei concedenti che osservano in maniera adeguata i doveri inerenti alla condirezione dell'impresa mezzadrile, pur non possedendo i rigorosi requisiti prescritti dal citato articolo, resi più rigidi dalla legislazione nazionale rispetto alla normativa comunitaria, che indica il 50 per cento (in luogo dei due terzi) dell'attività lavorativa e del reddito da lavoro.

La corretta osservanza dei doveri del concedente, secondo i più elementari canoni di esperienza e di logica, non può, invero, non far ritenere l'efficace funzionalità dell'impresa mezzadrile, sicché in questo caso la conversione automatica non trova razionale fondamento.

Il fine di stabilire equi rapporti sociali, prescritto dall'art. 44 della Costituzione, impone al legislatore ordinario di intervenire per un superiore fine di giustizia, ossia per stabilire un equilibrio sostanziale fra le diverse categorie interessate e rimuovere così gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione dei coltivatori all'organizzazione economica del Paese: equilibrio che chiaramente rimane escluso in presenza di una normativa che privilegia smisuratamente e senza alcun valido fondamento razionale una parte a danno dell'altra (cfr. per riferimenti sent. 5 aprile 1974 n. 107).

  1. - I rilievi sopra formulati trovano riscontro anche nei lavori preparatori della legge, essendosi le Commissioni parlamentari della Giustizia e degli Affari costituzionali, oltre ad alcuni parlamentari, espresse contro l'indiscriminata conversione automatica, la quale non poteva ritenersi costituzionalmente corretta: precisamente, venne osservato che la premessa, da cui il legislatore muoveva (e cioè l'assenteismo verificatosi nella maggioranza dei casi), non giustificava una disciplina legale assolutamente generalizzata, che si rivelava ictu oculi incoerente ed arbitraria.

Critiche sostanzialmente coincidenti sono state mosse da una vasta corrente dottrinale, comprendente i sostenitori dell'istituto della conversione in sé considerato, che hanno proposto di limitarne la previsione esclusivamente nei confronti dei concedenti "assenteisti".

Ed infine può ricordarsi come in Francia tale istituto, pur in mancanza - il che é molto significativo - di espressi vincoli di carattere costituzionale, quali invece quelli esistenti negli artt. 41 e 44 della nostra Costituzione, é stato previsto soltanto in alcuni casi, nei quali emergono il disinteresse del concedente e il conseguente pregiudizio derivante all'impresa agricola

(art. 417/11 Code rural modificato dal decreto n. 83-212 del 16 marzo 1983).

Le gravi conseguenze dell'indiscriminata conversione non sono sfuggite alla difesa dei mezzadri, la quale ha sostenuto che esse possono essere impedite con l'esercizio del diritto di ripresa previsto dall'art. 42 l. n. 203 del 1982 in esame e che comunque i concedenti hanno diritto al "premio" previsto dall'art. 42 lett. g) l. n. 153 del 1975 cit.

Tali argomenti peraltro non sembrano convincenti.

Per quanto concerne il primo di essi, é sufficiente osservare che il diritto di ripresa (mutuato dalla legislazione francese, nella quale però, come si é detto, la conversione é stata ragionevolmente limitata) é subordinato a tutte le condizioni elencate nelle lettere a), b), c) e d) del cit. art. 42, tra cui primeggiano quella di essere coltivatore diretto o equiparato e l'assunzione dell'obbligo di coltivare per nove anni il fondo direttamente o a mezzo dei propri familiari. Al riguardo va osservato che queste condizioni non sono ammissibili nei confronti del concedente che ha correttamente osservato i propri doveri e intende mantenere le propria posizione di imprenditore senza assumere l'impegno o avere la possibilità di coltivare direttamente il fondo: sono evidenti per vero le irrazionalità ed iniquità del sistema verso chi, adeguatamente cooperando al buon funzionamento dell'impresa agricola, dà il suo contributo per lo sviluppo e il potenziamento del settore e quindi non può essere allontanato per la mera scelta del mezzadro, il quale, peraltro, di tale partecipazione si é in precedenza giovato.

Relativamente al secondo argomento difensivo, é sufficiente replicare che l'art. 42 l. n. 153 del 1975 (e cioé molto anteriore all'entrata in vigore della l. n. 203 del 1982) non prevede un indennizzo finalizzato a compensare una limitazione coattiva, bensì un semplice premio diretto ad incentivare il volontario ricorso all'affitto: sicché non é possibile né sotto il profilo giuridico della qualificazione né sotto quello economico (ossia della sua entità), la pretesa equiparazione, che, peraltro, é semplicemente affermata senza che sia stata data alcuna valida dimostrazione.

  1. - Conclusivamente deve dichiararsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 25 l. 3 maggio 1982 n. 203 nella parte in cui prevede che, nel caso di concedente il quale sia imprenditore a titolo principale ai sensi dell'art. 12 l. 9 maggio 1975 n. 153, ovvero abbia comunque dato un adeguato apporto alla condirezione dell'impresa di cui ai contratti associativi previsti nel primo comma del cit. art. 25, la conversione richiesta dal mezzadro abbia luogo senza il consenso del concedente stesso. Ovviamente spetta al giudice del processo civile accertare la concreta adeguatezza nei singoli casi dell'attività svolta dal concedente nella conduzione dell'impresa.

Tale dichiarazione di illegittimità determina anche quella dell'art. 30 relativo all'imprenditore a titolo principale, la cui posizione risulti compresa nella ora indicata pronuncia.

La pronuncia stessa assorbe poi la censura relativa all'art. 4 della Costituzione - il quale tutela ogni forma di lavoro - perché il concedente, il quale ha adeguatamente contribuito alla conduzione dell'impresa agricola trova, a seguito di essa, quella piena tutela che, invece, non spetta al concedente "assenteista".

Di conseguenza va presa in considerazione la posizione del mezzadro che non ottiene la conversione per il mancato consenso del concedente, non prevista dalla normativa in esame: perciò, in applicazione dell'art. 27 l. n. 87 del 1953, va altresì dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, primo comma, lett. b della legge impugnata nella parte in cui non comprende anche il caso di non avvenuta conversione per mancata adesione del concedente che sia imprenditore a titolo principale o che comunque abbia dato un adeguato apporto alla condirezione dell'impresa mezzadrile di cui ai contratti associativi previsti nel primo comma dell'art. 25 della stessa legge: sicché anche in tali casi il contratto di mezzadria in corso avrà la durata di dieci anni ivi stabilita.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi

  1. a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 25 della l. 3 maggio 1982 n. 203 nella parte in cui prevede che, nel caso di concedente il quale sia imprenditore a titolo principale ai sensi dell'art. 12 l. 9 maggio 1975 n. 153 o comunque abbia dato un adeguato apporto alla condirezione dell'impresa di cui ai contratti associativi previsti nel primo comma dello stesso art. 25, la conversione richiesta dal mezzadro o dal colono abbia luogo senza il consenso del concedente stesso;
  2. b) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 30 della stessa legge;
  3. c) in applicazione dell'art. 27 della l. n. 87 del 1953 dichiara l'illeggitimità costituzionale dell'art. 34, primo comma, lett. b), l. n. 203 del 1982 nella parte in cui non comprende anche il caso di non avvenuta conversione per mancata adesione del concedente che sia imprenditore a titolo principale o che comunque abbia dato un adeguato apporto alla condirezione dell'impresa di cui ai contratti associativi previsti dell'art 25, primo comma della medesima legge;
  4. d) dichiara per il resto non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 25 l. cit., sollevata dalle ordinanze in epigrafe in riferimento agli art. 3, 4, 41, 42, 43, 44 e 46 della Costituzione.

Così deciso in Roma nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 maggio 1984.

 

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE  -Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  -Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

 

Depositata in cancelleria il 7 maggio 1984.