Sentenza n.26 del 1984

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SENTENZA N. 26

ANNO 1984

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 12 agosto 1962 n. 1338 (disposizioni per il miglioramento dei trattamenti di pensione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti) promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 31 gennaio 1978 dal Pretore di Arezzo nel procedimento civile vertente tra Narizzano Umberto e l'INPS, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 154 dell'anno 1978;

2) ordinanza emessa il 18 ottobre 1979 dal Pretore di Padova nel procedimento civile vertente tra Vettore Iolanda e l'INPS, iscritta al n. 989 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 64 dell'anno 1980;

3) ordinanza emessa il 22 ottobre 1980 dal Tribunale di Torino nel procedimento civile vertente tra INPS e Baudo Maddalena Giuseppina, iscritta al n. 827 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 56 dell'anno 1981;

4) ordinanza emessa il 27 maggio 1981 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Lamarca Salvatore e clinica Pinna Pintor ed altro, iscritta al n. 599 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12 dell'anno 1982.

Visti gli atti di costituzione dell'INPS e di Narizzano Umberto nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 26 aprile 1983 il Giudice relatore Prof. Giuseppe Ferrari;

uditi l'avv. Gerardo Piciché per l'INPS e l'Avvocato generale dello Stato Vito Cavalli, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. - In un giudizio promosso da taleNarizzanoUmberto, che aveva convenuto in giudizio l'INPS per sentir affermare il suo diritto alla costituzione della rendita di cui all'art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, per il periodo dall'1 settembre 1945 al 31 maggio 1948, con la conseguente condanna dell'Istituto all'accreditamento della relativa riserva matematica, il Pretore di Arezzo, rilevato che il ricorrente non aveva prodotto alcun documento di data certa circa la durata del rapporto di lavoro e l'ammontare della retribuzione, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, quinto comma, della legge n. 1338 del 1962, nella parte in cui non prevede che il lavoratore possa dimostrare in giudizio con qualsiasi mezzo di prova la durata del rapporto di lavoro di cui sia certa l'esistenza, nonché l'ammontare della retribuzione.

L'equiparazione, in ordine alla prova da fornire ai fini della costituzione della rendita vitalizia, del datore di lavoro e del lavoratore violerebbe il principio di cui all'art. 3 Cost. poiché non terrebbe conto della diversità della situazione di fatto nella quale versa il lavoratore, che non dispone - in quanto per legge tenuti dal solo datore di lavoro - del libro paga e del libro matricola debitamente vidimati, unici documenti di data certa utili a provare l'esistenza e la durata del rapporto, nonché l'ammontare delle retribuzioni. Il lavoratore, invece, se con il libretto di lavoro o con attestato dell'ufficio di collocamento (comunque per epoche successive all'entrata in vigore della norma sul collocamento dei lavoratori) potrebbe dimostrare l'effettiva sussistenza e la durata del rapporto, non sarebbe tuttavia mai in grado di provare con documento di data cena la misura della retribuzione.

La maggiore gravosità dell'onere probatorio di fatto addossato al lavoratore si risolverebbe altresì nella violazione dell'art. 24 Cost., frapponendo ostacoli pressoché insormontabili all'esercizio da parte di quest'ultimo del diritto alla costituzione della rendita vitalizia.

  1. - Analoga questione di legittimità costituzionale é stata sollevata con ordinanza del 18 ottobre 1979 dal Pretore di Padova che, nel procedimento vertente tra Vettore Jolanda e l'INPS, ha denunciato il quarto e il quinto comma dell'art. 13, legge n. 1338 del1962,in riferimento agli artt. 24 e 38 Cost., laddove escludono il diritto del lavoratore o del datore di lavoro di provare con mezzi diversi da prove documentali di data certa il rapporto di lavoro e la retribuzione.

Premesso che, secondo il costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. lav., 17 ottobre 1978, n. 4658; Cass., 27 giugno 1973, n. 1858) e di merito, né il datore di lavoro né il lavoratore possono esercitare la facoltà di cui all'art. 13 legge cit. se non adducendo prove documentali di data certa, il giudice a quo prospetta anzitutto il contrasto di siffatta limitazione probatoria con l'art. 38 (secondo comma) Cost., giacché essa potrebbe comportare l'esclusione del riconoscimento del diritto alla pensione di vecchiaia - migliorativa di quella sociale - benché in realtà obiettivamente sussistano le condizioni sostanziali per la prosecuzione volontaria dell'assicurazione obbligatoria. Né, continua l'ordinanza, la limitazione probatoria posta dalla norma può ritenersi giustificata dall'esigenza di evitare facili collusioni tra datore di lavoro e lavoratore, che ben potrebbero precostituire fraudolentemente anche dichiarazioni documentali di data certa, come per esempio la busta paga (ma si v. l'art. 2704 c.c.). Neppure potrebbe la limitazione in esame giustificarsi in considerazione del fatto che l'art. 13 cit. estende i limiti della tutela previdenziale al caso di "contributi prescritti", giacché all'impossibilità per l'INPS di procedere al recupero viene posto rimedio proprio col versamento della c.d. riserva matematica.

L'esclusione di mezzi di prova diversi da quelli previsti porrebbe poi un ingiustificato limite alla possibilità di ottenere l'accertamento giudiziale del pregresso rapporto di lavoro, così ponendosi in contrasto con l'art. 24 Cost.

  1. - La disposizione di cui al quinto comma dell'art.13in relazione al quarto comma dello stesso articolo, viene anche denunziata - con particolare dovizia di argomentazioni - dal Tribunale di Torino in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, primo e secondo comma, 38, secondo e quarto comma, e 3, primo comma, Cost. "nella parte in cui stabilisce che, ai fini della costituzione della rendita vitalizia reversibile, é necessario che l'effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro e la misura della retribuzione corrisposta siano provate mediante documenti di data certa anche quando la costituzione di tale rendita é chiesta dal lavoratore in sede giudiziaria e in contraddittorio, oltre che col datore di lavoro, con l'INPS, anziché consentire che, in tale caso l'accertamento dei suddetti fatti possa essere effettuato dal giudice mediante l'utilizzazione di ogni mezzo di prova ammissibile per diritto comune e specie ai sensi dell'art. 421, secondo comma, c.p.c.".

Decidendo sull'appello proposto dall'INPS avverso la sentenza pretorile che aveva dichiarato l'obbligo dell'Istituto di costituire la rendita vitalizia ex art. 13 legge n. 1338 del 1962 a favore dell'appellata Baudo, il giudice a quo, dopo aver rilevato che il pretore aveva fondato l'accertamento dell'esistenza e della durata del rapporto su prove testimoniali e che la misura della retribuzione era stata calcolata dallo stesso Istituto - su ordine del pretore - alla stregua delle previsioni dei contratti collettivi dell'epoca, preliminarmente evidenzia come costituisca costante e consolidato orientamento giurisprudenziale che la prova di cui all'art. 13 cit. possa essere data esclusivamente mediante documentazione di data certa anche quando la costituzione della rendita sia chiesta dal lavoratore in sede giudiziaria con avvenuta integrazione del contraddittorio nei confronti dell'INPS. Rileva quindi che se la controversia dovesse decidersi alla stregua della norma così come costantemente interpretata, l'appello andrebbe senz'altro accolto.

Quanto all'addotta violazione dell'art. 3 Cost., osserva dunque il Tribunale di Torino che, oltre all'irragionevole equiparazione delle posizioni del datore di lavoro e del lavoratore, la norma disciplina anche ingiustificatamente in modo uguale situazioni profondamente diverse, quali, da un lato, l'accertamento dell'esistenza e delle caratteristiche del rapporto di lavoro in sede amministrativa da parte dello stesso INPS (che non dispone di particolari strumenti tecnici e giuridici d'accertamento, talché può non apparire irragionevole che in tale sede la prova possa essere solo quella documentale con data certa) e, dall'altro, quello effettuato in sede giudiziale dal giudice che, a parte la adeguata competenza ed esperienza professionale, può avvalersi di tutti i necessari mezzi di prova ammessi dalla legge; segnatamente dall'art. 421, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo novellato.

In ordine al prospettato contrasto con l'art. 24, primo e secondo comma, Cost., premesso che il fatto sostanziale da cui deriva il diritto del lavoratore alla costituzione della rendita vitalizia é evidentemente l'intervenuta prestazione di opera di lavoro subordinato senza che il datore di lavoro versasse i prescritti contributi, costituendo i richiesti documenti di data certa meri mezzi di prova, il giudice a quo pone in rilievo come il lavoratore si trovi in grandissima difficoltà nell'offrire tali mezzi di prova considerato: a) che la legge civile non richiede la forma scritta per il contratto di lavoro subordinato neppure ad probationem; b) che la legge non prescrive (cfr. all. A, parte II, n. 10 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634) e non ha mai prescritto (cfr. all. D, n. 47 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269 e success. modificaz.) la registrazione a termine fisso del contratto di lavoro redatto in forma scritta (tranne che nel caso "di uso " dello stesso) o la denuncia di quello verbale, onde difetta l'obbligo di quell'adempimento fiscale da cui origina il primo, il più importante e il più diffuso modo per conferire data certa ad un documento; c) che gli altri eventi previsti dall'art. 2704 cod. civ. come idonei a conferire data certa ad un documento (morte e impossibilità fisica di sottoscrivere il documento attestante l'esistenza, la durata, etc. di un rapporto di lavoro) non possono certo venire presi in considerazione se riferiti al lavoratore, posto che dopo il loro accadimento il rapporto di lavoro sarebbe naturaliter interrotto, mentre se riferiti al datore di lavoro, varrebbero solo a rendere possibile la prova del lavoro prestato in epoca successiva; d) che di quelli contemplati dall'ultima parte del primo comma dello stesso articolo gli unici che si attaglierebbero ad una fattispecie di rapporto di lavoro subordinato sono "l'avvenuta registrazione del lavoratore sui libri del datore di lavoro che siano obbligatori e debbano essere e siano stati effettivamente sottoposti a vidimazione annuale", ovvero "l'avvenuta denuncia del lavoratore agli enti previdenziali, in quanto dagli stessi registrata o vidimata". Ma é evidente - continua l'ordinanza - quanto sia puramente scolastica l'ipotesi che, in tali casi, il datore di lavoro non abbia effettuato i versamenti previdenziali e che gli Istituti interessati siano rimasti inattivi per oltre dieci anni (che é il termine di prescrizione) di fronte ad omissioni di versamenti ad essi in re ipsa noti. Né può omettersi di considerare che il lavoratore non é mai stato titolare del diritto di controllare i libri e i registri aziendali al fine di accertare se il datore di lavoro abbia provveduto a registrarlo ed a regolarizzare la sua posizione previdenziale; che il libretto di lavoro - peraltro non obbligatorio ai fini della valida costituzione del rapporto, né idoneo a conferire data certa alle annotazioni appostevi dal datore di lavoro - rimane depositato per legge presso il datore di lavoro nel corso del rapporto (art. 6, legge 10 gennaio 1935, n. 112); che, infine, solo con legge 30 aprile 1969, n. 153 (art. 38) é stato previsto che il datore di lavoro consegni ai dipendenti, una volta all'anno, un estratto conto con l'indicazione della retribuzione corrisposta nel corso dell'anno precedente e dei versamenti contributivi effettuati; che, comunque, tale estratto non solo é privo dell'efficacia probatoria di cui all'art. 2704 cod. civ., ma neppure di per sé consente al lavoratore di verificare se i contributi annotati come versati lo siano stati effettivamente.

Alla luce delle osservazioni che precedono non par dubbio al Tribunale di Torino che il richiedere che il lavoratore offra la prova scritta con data certa del rapporto di lavoro, della sua durata e della relativa retribuzione per poter far valere con successo in sede giudiziaria il proprio diritto alla costituzione della rendita vitalizia al fine di rimediare ad omissioni contributive del datore di lavoro di oltre dieci anni antecedenti (ché proprio questa é la funzione della norma) costituisca un onere probatorio in pratica insoddisfabile. Da qui la violazione dell'art. 24, primo e secondo comma, Cost. e, di riflesso, anche dell'art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo della irragionevole diversità di trattamento in ordine alle modalità stabilite dalla norma in esame e quelle normalmente prescritte perché il lavoratore possa far valere i propri diritti anche nei confronti degli istituti previdenziali.

Non solo: la pratica impossibilità di far valere il diritto di cui all'art. 13 legge cit. nei confronti dell'unico istituto previdenziale (l'INPS) veramente in grado di rimediare in toto alle omissioni contributive del datore di lavoro comporta - continua l'ordinanza - specifica violazione dell'art. 38, secondo e quarto comma, Cost., che specificamente dispone che alle esigenze del lavoratore per la sua vecchiaia, invalidità, etc., si provveda mediante organi ed istituti "predisposti o integrati dallo Stato ". E ciò, evidentemente, in danno proprio dei lavoratori più deboli che, o per aver lavorato presso imprese di piccole dimensioni o di scarsa consistenza economica ovvero per essere stati indotti dal proprio stato di bisogno ad accettare il lavoro "nero", si trovano sovente addirittura nella assoluta impossibilità di offrire una prova del tipo di quella richiesta dalla norma impugnata - con ulteriore violazione dell'art. 3, primo e secondo comma, Cost. - e vengono quindi esclusi dalla tutela garantita dall'art. 38 Cost.

Infine sembra al giudice a quo che la norma di cui all'art. 13 cit. contrasti anche con l'art. 36, primo comma, Cost. (in forza del quale le retribuzioni minime previste dai contratti collettivi sono applicabili ai rapporti di lavoro le cui parti non aderiscono ai sindacati stipulanti) laddove la documentazione di data certa é richiesta in ordine alla prova della retribuzione percepita anche se il lavoratore non assunta che essa sia stata superiore al minimo previsto dalla contrattazione collettiva, o adduca di non averne percepita alcuna: in tali ipotesi, in conformità alle previsioni della legislazione previdenziale in materia di base retributiva imponibile per i contributi assicurativi, occorrerebbe fare riferimento, anche ai fini di cui alla norma impugnata, non già alla misura della retribuzione effettivamente corrisposta bensì a quella minima che il lavoratore avrebbe avuto diritto di percepire.

  1. - L'art. 13cit.,con motivazione analoga - sia pur più sintetica - a quella del Tribunale di Torino, viene denunciato anche dal Pretore di Torino, con ordinanza in data 27 maggio 1981, in riferimento agli art. 3, 24 e 38 Cost., "in quanto limita gli ordinari mezzi probatori o per lo meno in quanto esclude l'ammissione d'ufficio di prove ai sensi dell'art. 421" c.p.c. Il pretore, premesso che la domanda del ricorrente Lamarca Salvatore andrebbe respinta anche se, in base alle norme ordinarie, i documenti prodotti si sarebbero quanto meno idonei ad integrare la presunzione di cui all'art. 2729 cod. civ. e per altro verso più che sufficienti ai fini dell'ammissione di prove (che parte attrice ha dedotto) per testi ai sensi dell'art. 2724, n. 1, cod. civ.", rileva in particolare che la limitazione dei mezzi di prova disposta dalla norma in esame sia del tutto eccezionale rispetto alle norme che regolano il giudizio civile ordinario e soprattutto a quiete applicabili al giudizio previdenziale "retto, per il rinvio operato dall'art. 442 c.p.c., dagli artt. 409 e ss. (nel testo novellato) ivi compreso quindi l'art. 421, secondo comma, c.p.c." che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, non ha prodotto l'abrogazione tacita delle limitazioni poste alla prova dall'art. 13 cit. Afferma poi che lo scopo, perseguito dalla norma, di evitare collusioni tra ex datore di lavoro ed ex dipendente, ha prodotto l'ultroneo risultato di privare di "effettività" il diritto pur in astratto riconosciuto al lavoratore. Il Pretore di Torino afferma inoltre di non ignorare la giurisprudenza costituzionale secondo la quale l'esclusione di un mezzo probatorio non é illegittima quando sia giustificata dall'esigenza di salvaguardia di altri diritti o interessi giudicati dal legislatore degni di protezione sulla base di criteri di reciproco coordinamento; ma - aggiunge - "nel caso di specie lo stesso legislatore, in un momento storico successivo, ha modificato i principi che reggono il giudizio previdenziale, dando il massimo risalto all'attività di ricerca ufficiosa delle prove fatta dal giudice, come emerge dal nuovo testo dell'art. 421 c.p.c.", mentre con la norma in esame "si nega o si limita alla parte il potere processuale di rappresentare al giudice la realtà dei fatti ad essa favorevoli se le si nega o le si restringe il diritto di esibire i mezzi rappresentativi di quella realtà" (cfr. sent. nn. 53 del 1966, 188 del 1970 e 248 del 1974).
  2. - In tutti i giudizi si é costituito l'INPS ed é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato.

Nel giudizio promosso con ordinanza del Pretore di Arezzo s'é anche costituito Narizzano Umberto che ha in particolare rilevato che l'art. 13 della legge n. 1338 del 1962 rappresenti, in attuazione dei principi costituzionali, la via attraverso la quale lo Stato ha inteso garantire che i diritti pensionistici dei lavoratori subordinati non subiscano in alcun caso lesioni per fatti illeciti posti in essere dai datori di lavoro. Ora - continua la difesa del Narizzano - se l'uguale gravosità dell'onere probatorio posto a carico del lavoratore e del datore di lavoro "poteva considerarsi accettabile in una logica assicurativa in cui i principi costituzionali non avevano ancora trovato giusta attuazione e che basava la tutela pensionistica su di una solidarietà ristretta ai datori e ai prestatori, manteneva fermo un certo rapporto sinallagmatico tra contributi versati e misura della pensione e sanciva la prescrizione dei contributi dovuti col decorso di cinque anni dal giorno in cui quest'ultimi si sarebbero dovuti versare", così non é più nell'attuale contesto normativo che é sintomatico del riconoscimento della tutela pensionistica come di una esigenza politica fondamentale che lo Stato ha l'obbligo di realizzare nel superiore e generale interesse della collettività organizzata in Repubblica fondata sul lavoro. Costituiscono inequivoci sintomi di tale nuovo assetto l'istituzione del fondo sociale a completo carico dello Stato, l'introduzione del principio di automaticità delle prestazioni nel limite del termine di prescrizione dei contributi, il nuovo sistema di calcolo delle pensioni, "non più fondato sull'entità dei contributi versati, bensì sulla retribuzione pensionabile" ex art. 5, commi primo e sesto, D.P.R. 24 aprile 1968, n. 488, d.m. 5 febbraio 1969 e artt. 26 e 27, comma terzo, legge 3 giugno 1975, n. 160, onde "la certezza che il lavoratore abbia ricevuto a titolo di retribuzione una data smonta di danaro giuoca solo ai fini del calcolo dei periodi contributivi da riscattare, per cui a questi scopi può anche essere sufficiente far ricorso, in assenza di una precisa determinazione della retribuzione percepita, ai trattamenti medi corrisposti, all'epoca dell'omissione contributiva, ai lavoratori della stessa categoria e qualifica del prestatore interessato al riscatto dei periodi non coperti dalla contribuzione previdenziale ".

Viene infine prospettata anche la violazione dell'art. 38, secondo comma, Cost., impedendo la norma denunziata la realizzazione di un'"adeguata" tutela pensionistica.

  1. - Nei vari atti di costituzione l'INPS, sulla scorta della premessa che "il legislatore, quando emana una qualche disposizione, si pone in una posizione teorica che presuppone una posizione giuridica pregressa di normalità", nega che sussista alcuna violazione dell'art. 3Cost.,sostenendo che datore di lavoro e lavoratore versano in situazioni di perfetta parità. Se, invero, il primo dovrebbe disporre dei libri paga e matricola regolarmente vidimati, il secondo dovrebbe aver conservato le corrispondenti buste o fogli - paga, o ricevute del datore di lavoro, o note di rimborso, o altri validi equipollenti; talché, se il lavoratore, per sua negligenza, non abbia mai preteso siffatta documentazione, ovvero l'abbia smarrita o distrutta, la disparità di trattamento dipenderebbe da circostanze contingenti di carattere soggettivo e non già da una previsione normativa.

In ordine all'addotta violazione dell'art. 24 Cost., in alcune memorie si assume che le limitazioni probatorie poste dalla norma denunciata concernono solo il procedimento in sede amministrativa, non applicandosi la disposizione - che fa parte di una legislazione speciale - oltre i casi e i tempi da essa considerati (art. 14 disp. sulla legge in generale); talché in sede giudiziaria - come riconosciuto, si afferma, anche da talune, sporadiche decisioni di merito (fra le quali Trib. Trieste, 22 gennaio 1977, Cossutta c. INPS) - non vi sarebbe alcuna eccezione al normale sistema di assunzione delle prove che il nuovo rito del lavoro (cfr. art. 421 c.p.c.) contempla. In altre memorie, invece, si sostiene che se la facoltà di superare una preclusione derivante dalla maturazione di un termine di decadenza non fosse vincolata ad un dato probatorio documentale e inconfutabile, sarebbe possibile costituire fraudolentemente posizioni assicurative indebite connesse a rapporti risalenti a decenni addietro; e ciò "sarebbe in contrasto col vigente sistema di sicurezza sociale, nel quale l'art. 13 in questione trova razionale giustificazione, ed il quale si fonda sulla prevedibilità e la raccolta preventiva dei mezzi finanziari necessari, giusta disposizione dell'art. 38 Cost., per assicurare risorse adeguate alle future esigenze di vita dei lavoratori".

Tali considerazioni verrebbero anche, a parere dell'INPS, ad escludere il contrasto della norma denunciata con l'art. 38 Cost. che attiene " all'adeguamento dei mezzi di carattere previdenziale alle esigenze di vita del lavoratore, piuttosto che alle modalità necessarie a conseguirli; sicché la Corte costituzionale in numerose decisioni ha ritenuto legittime le regole con cui, nel rispetto di altri precetti costituzionali, viene condizionata l'insorgenza di dati diritti oppure di questi viene disciplinato l'esercizio (sent. nn. 10 del 1970, 80 del 1971, 33 del 1974)".

Quanto all'addotta violazione dell'art. 36 Cost., sotto il profilo prospettato dal Tribunale di Torino, si afferma che mentre ben può farsi ricorso al contratto collettivo ai fini della determinazione del parametro retributivo sul quale calcolare l'ammontare della riserva matematica, quando invece il rapporto di lavoro non sia riferibile ad alcun contratto collettivo di categoria, appare inevitabile e, quindi, costituzionalmente legittimo, l'onere della richiesta prova documentale.

  1. - L'Avvocatura generale dello Stato ha svolto in altidiintervento, argomentazioni analoghe a quelle addotte dall'INPS, ribadendo in particolare, quanto all'addotta violazione dell'art. 3, che "dati analoghi a quelli contenuti nelle buste e nei prospetti paga, sia pure più sintetici, almeno per quanto concerne la retribuzione, devono essere iscritti nel libretto di lavoro, la cui istituzione risale alla legge 10 gennaio 1935, n. 112 e la cui funzione é appunto quella di costituire un documento probante del curriculum lavorativo di ciascun prestatore di lavoro"; sicché imputet sibi chi non é stato tanto diligente da chiedere e conservare la documentazione del caso; quanto al prospettato contrasto della norma impugnata con l'art. 24 Cost. che la disposizione di cui all'art. 131. cit., lungi dal frapporre ostacoli all'esercizio del diritto riconosciuto al lavoratore, prevede solo un modesto onere probatorio che si giustifica in funzione della esigenza di evitare la creazione di situazioni fittizie a tutela degli oneri rilevantissimi assunti dallo Stato in materia di previdenza; quanto all'asserita violazione dell'art. 38 Cost. che proprio per la più efficiente tutela del diritto garantito dalla norma costituzionale "il legislatore si é preoccupato di ricorrere ad alcune cautele usando della sua discrezionalità in una maniera che appare del tutto razionale e perciò non tale da meritare censure"; quanto all'addotto contrasto con l'art. 36 Cost., che il richiamo non é pertinente, giacché la norma concerne la retribuzione in costanza di rapporto di lavoro e non determina alcun riflesso circa i criteri stabiliti dal legislatore per provare un rapporto di lavoro pregresso.
  2. -NarizzanoUmberto ha infine ulteriormente illustrato, con memoria, le argomentazioni già svolte in atto di intervento, contestando in particolare le deduzioni dell'Avvocatura dello Stato e dell'INPS.

Considerato in diritto

1) La questione sottoposta al giudizio di questa Corte é se sia conforme a Costituzione l'art. 13, quinto comma, della legge 12 agosto 1962, n. 1338, nella parte in cui preclude al lavoratore, secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale, di provare con mezzi diversi da documenti di data certa il pregresso rapporto di lavoro, la sua durata e retribuzione, al fine di ottenere la costituzione di una rendita vitalizia.

I dubbi sulla legittimità costituzionale dell'indicata norma, già espressi in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. dal Pretore di Arezzo (r.o. n. 149/1978), che per primo ha sollevato la questione, e fatti propri, sia dal Pretore di Padova (r.o. 989/1979), che per suo conto invoca gli artt. 38 e 24 Cost., sia dal Pretore di Torino (r.o. 599/1981), il quale si richiama anche all'art. 38 Cost., sono con particolare ampiezza argomentati dal Tribunale di Torino in grado d'appello (r.o. 827/1980), che agli indicati parametri aggiunge anche l'art. 36, primo comma, specificando che l'art. 3 Cost. sarebbe violato, non solo nella prima parte, ma anche nel capoverso, l'art. 24, sia nel primo, che nel secondo comma, e l'art. 38, tanto nel secondo, quanto nel quarto comma. Risultando però sostanzialmente identiche, e la questione sollevata, e la disciplina denunciata, i giudizi di cui alle ordinanze in epigrafe vanno riuniti e decisi congiuntamente.

2) La legge in cui é contenuta la norma impugnala ha per oggetto, come testualmente risulta dal suo titolo, "disposizioni per il miglioramento dei trattamenti di pensione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti". Essa concorre, quindi, a comporre il vigente sistema previdenziale, di cui giova delineare, sia pur sinteticamente, oltre che i tratti essenziali, quegli aspetti e relativi svolgimenti, che appaiono utili ai fini dell'inquadramento della questione nella sua propria cornice normativa e, quindi, ai fini del decidere.

Nel nostro ordinamento, la tutela previdenziale del prestatore d'opera si realizza mediante il versamento, a cura del datore di lavoro, ad apposito ente - Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS) - di contributi di assicurazione obbligatoria, da cui nasce l'obbligazione, a carico dell'INPS, di erogare al lavoratore una pensione. Per quanto concerne i contributi, l'art. 55 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (convertito nella legge 6 aprile 1936, n. 1155), come modificato con l'art. 41, primo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153, stabilisce che essi "si prescrivono col decorso di dieci anni" e che, ove tale prescrizione si sia verificata, "non é ammessa la possibilità di effettuare versamenti a regolarizzazione di contributi arretrati". Consapevole, tuttavia, delle conseguenze che deriverebbero al lavoratore nell'ipotesi del "datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l'assicurazione obbligaloria invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione" (art. 13, primo comma, l. n. 1338 del 1962), il legislatore ha determinato di porvi rimedio, disponendo che il datore di lavoro può chiedere all'INPS di costituire a favore del lavoratore una rendita vitalizia riversibile pari alla pensione o quota di pensione spettante (art. 13 cit., quarto comma), e che il "lavoratore, quando non possa ottenere dal datore di lavoro" la costituzione della suddetta rendita, "può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro, salvo il diritto al risarcimento del danno" (art. 13 cit., quinto comma). Senonché, le due summenzionate norme prescrivono, rispettivamente, che al suddetto scopo il datore di lavoro é tenuto ad esibire all'INPS "documenti di data certa", ed il lavoratore é tenuto a fornire "le prove" del rapporto di lavoro, della sua durata e della corrispondente retribuzione (oltre che a versare la riserva matematica). E poiché il quinto comma fa rinvio al quarto, ritengono anche i giudici a quibus che "le prove" richieste al lavoratore non possono non consistere nei "documenti di data certa" richiesti al datore di lavoro.

3) Nasce così il problema della documentazione, in ordine al quale occorre distinguere - servendo tale distinzione a circoscrivere il thema decidendum - quattro stagioni normative:

  1. a) la prima équellaanteriore al 1935: il regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3184 ed il relativo regolamento (regio decreto 28 agosto 1924, n. 1422) avevano istituito per il lavoratore una "tessera" personale su cui si apponevano le prescritte marche, ma era pur sempre operante l'art. 129 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 1931, n. 773), che prevedeva il rilascio, agli operai ed ai domestici, di un libretto da parte dell'autorità locale di pubblica sicurezza;
  2. b) la seconda, instaurata con la legge 10 gennaio 1935, n. 112, disponeva: che ogni lavoratore doveva essere fornito di un "libretto di lavoro" (art. 1, primo comma), conforme al modello approvato dal Ministero "delle corporazioni" (art. 2, primo comma), su cui andavano indicati, oltre che i datirelativi alladitta ed al lavoratore, anche la qualifica professionale di questo, i suoi passaggi di categoria, l'ammontare della retribuzione, il numero della tessera d'assicurazione contro l'invalidità e la vecchiaia, etc. (art. 3); che tale libretto, del quale il lavoratore aveva "diritto di prendere visione in qualunque momento" (art. 7, primo comma), e sul quale l'ufficio di collocamento era tenuto ad apporre il suo timbro al - l'atto dell'iscrizione nei relativi elenchi (art. 8, cpv.), rimaneva, sì, depositato presso il datore di lavoro, ma doveva essere consegnato al lavoratore alla cessazione del rapporto (art. 6, primo e ultimo comma); che, nel caso in cui il libretto si fosse smarrito, deteriorato o esaurito, veniva rilasciato un duplicato o nuovo libretto, contenente le "notizie fornite dagli uffici di collocamento, in base agli elementi esistenti in atti o comunicati dall'ispettorato corporativo, in relazione agli accertamenti da questo eseguiti" (art. 9);
  3. c) alla sopra descritta disciplina ha fatto seguitoquellaintrodotta con la legge 30 aprile 1969, n. 153 ("revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale"). A norma dell'art. 38 di tale legge - e precisamente, dei commi secondo e terzo, poi espressamente abrogati dall'art. 4, ultimo comma, del decreto legge 6 luglio 1978, n. 352, convertito nella legge 4 agosto 1978, n. 467 - il datore di lavoro era "obbligato, entro il 31 marzo di ogni anno" e, "comunque..." alla fine del rapporto di lavoro", "a consegnare al lavoratore un estratto - conto contenente l'indicazione della retribuzione corrisposta e dei relativi importi versati nell'anno precedente all'INPS", ed a norma dell'art. 42, primo comma, aveva "l'obbligo di conservare i libri di paga ed i libri di matricola per la durata di dieci anni...";
  4. d) infine, col già menzionato decreto legge n. 352 del 1978 é stato introdotto il regime normativoattualmentein vigore: a sensi dell'art. 4, primo, secondo e quarto comma, il datore di lavoro "é obbligato a presentare, entro il 31 marzo di ciascun anno, all'INPS la denuncia nominativa dei lavoratori occupati nell'anno precedente" ed "a consegnare al lavoratore, entro il 31 marzo di ciascun anno, copia delle denunce", mentre a sua volta l'INPS é tenuto " ad inviare a ciascun lavoratore" un estratto - conto contenente l'indicazione della retribuzione denuciata dal datore di lavoro".

4) La Corte di Cassazione pronunciandosi sull'istituto della costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 legge n. 1338 del 1962, ha ripetutamente statuito che, ove venga richiesta l'applicazione di tale norma - non importa se dal datore di lavoro o dal lavoratore -, non é ammissibile in giudizio prova diversa da quella documentale di data certa, giacché solo questa garantisce l'effettiva esistenza e durata del rapporto di lavoro, per cui non é surrogabile con altre fonti probatorie. Ha ulteriormente affermato che, conseguentemente, é precluso al giudice di ammettere prove generiche, chiarendo che l'art. 421, secondo comma, c.p.c. - secondo cui il giudice "può altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova" -, in quanto vale esclusivamente a superare i limiti stabiliti dal codice civile in via generale, non é applicabile a casi determinati e specifici, qual é appunto quello di cui al denunciato art. 13. Nello stesso senso risultano prevalentemente orientati i giudici di merito. E per quanto riguarda la ragione giustificativa dell'inammissibilità della prova testimoniale, del giuramento suppletorio, di altri mezzi equipollenti in luogo della documentazione di data certa, essa viene individuata nella preoccupazione e nell'intendimento del legislatore di impedire eventuali manovre fraudolente anche da parte del datore di lavoro e collusioni fra questo ed il lavoratore.

Nonostante la netta prevalenza del rigoroso indirizzo interpretativo sopra ricordato, non si può tuttavia parlare di diritto vivente, benché proprio di "norma vivente" parli il Tribunale di Torino. A parte, infatti, una, peraltro esigua, giurisprudenza pretorile che ha ammesso la prova testimoniale - tra cui la pronuncia sub judice dinanzi al Tribunale di Torino e di cui all'ordinanza in epigrafe (r.o. 827/1980) -, vi osta una recente sentenza della stessa Corte di Cassazione (sez. lavoro, 7 marzo 1980, n. 1537), la quale, reputando che l'onere della prova con documento di data certa debba intendersi riferito al procedimento amministrativo, ritiene che, viceversa, in sede giudiziale non "si ravvisa la ragione che abbia potuto determinare il legislatore a porre dei limiti alla formazione del convincimento del giudice". Trattasi senza dubbio di una pronuncia isolata - e contraddetta dalle altre successive -, che tuttavia ha interrotto il corso della giurisprudenza della Cassazione, mostrando come in definitiva la denunciata norma non sia assolutamente insuscettibile di una interpretazione più duttile. E non si può ignorare che, anteriormente a tale sentenza della Corte di Cassazione, in una decisione del Consiglio di Stato (IV, 19 novembre 1974, n. 858), si affermava, sia pure nei confronti di una pubblica amministrazione, essere "naturale", in caso di mancato versamento di contributi, "che l'accertamento di questo fatto - ove colui che assume di voler esercitare il diritto previsto dall'art. 13 della legge del 1962 non riesca ad ottenere altrimenti quella prova - possa scaturire da una pronuncia giudiziale".

5) Ciò premesso, la questione sollevata dal Pretore di Padova con l'ordinanza emessa il 18 ottobre 1979 (r.o. 989/1979), dev'essere dichiarata inammissibile per assoluto difetto di rilevanza.

Si apprende dalla stessa ordinanza che la ricorrente, Vettore Jolanda, aveva "presentato domanda volta a ottenere la pensione di vecchiaia" e che, al fine dell'accoglimento della suddetta domanda, chiedeva, ai sensi dell'art. 13, l'autorizzazione al versamento dei contributi obbligatori, che asseriva essere stato omesso dal datore di lavoro, presso il quale essa aveva prestato la sua opera di sarta nel periodo 3 maggio 1929 - 31 ottobre 1931. Si apprende altresì che il giudice a quo, dopo avere dato atto che "la Vettore non può essere, allo stato, ritenuta titolare della pensione di vecchiaia neppure se viene computato il periodo" di omissione contributiva denunciato, afferma tuttavia che il versamento " potrebbe conferire il diritto - se il rapporto di lavoro fosse risultato accertato - alla prosecuzione dell'assicurazione obbligatoria, ai sensi dell'art. 2 D.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1432". Di conseguenza, la limitazione dei mezzi di prova del pregresso rapporto di lavoro, introdotta dal menzionato art. 13, "finisce col ledere ingiustificatamente" il diritto alla prosecuzione volontaria e, quindi, al conseguimento della pensione di vecchiaia - cioé, ancora, ad "una delle prestazioni migliorativa della pensione sociale" -, nonostante che, in base all'art. 38 Cost., tale diritto spetti anche ad un cittadino che abbia già quello di ottenere la pensione sociale.

Ora - a parte la non pertinenza alla suddescritta fattispecie dell'ipotesi di cui al quarto comma dell'art. 13, che riguarda il datore di lavoro e che viene egualmente denunciato nel solo dispositivo, senza trovare alcun riscontro nella motivazione - si deve constatare l'inapplicabilità alla prosecuzione volontaria dell'art. 13 legge n. 1338 del 1962, il quale prevede esclusivamente la costituzione di una rendita vitalizia mediante versamento della riserva matematica. La questione risulta pertanto priva di rilevanza.

6) In conseguenza della testé dichiarata inammissibilità della questione sollevata dal Pretore di Padova, la questione sulla quale questa Corte deve pronunciarsi risulta interessata esclusivamente ai regimi nominativi di cui alle lettere b) e c) del precedente paragrafo 3). Le lamentate omissioni contributive che hanno occasionato la questione in esame si sarebbero, infatti, verificate in periodi corrispondenti ai due suddetti regimi normativi: dal 1 settembre 1945 al 31 maggio 1948 (ordinanza del Pretore di Arezzo), dal 6 settembre 1949 al 16 settembre 1974 (ordinanza del Tribunale di Torino), dal 1 gennaio 1961 al 30 giugno 1970 (ordinanza del Pretore di Torino). I sistemi previdenziali da tener presenti sono, quindi, quelli governati dalla legge n. 112 del 1935 e dalla legge n. 153 del 1969 durati sino all'entrata in vigore del decreto legge n. 352 del 1978, i quali prescrivevano, rispettivamente. il libretto di lavoro e l'estratto - conto.

7) In tutte le ordinanze in epigrafe, che pure si richiamano ad una varietà di parametri costituzionali, é l'art. 24 che viene unanimemente invocato. Non senza ragione il riferimento al relativo principio risulta concorde ed univoco. Sarebbe la violazione del diritto di difesa, infatti, a comportare di riflesso le altre illegittimità. Ciò emerge dalla prospettazione dei motivi a sostegno delle censure, che per lo più s'intrecciano tutte attorno all'art. 24 Cost. - sovente in stretta combinazione con l'art. 3 Cost. - tra loro in un continuo ritorno tematico, e viene espressamente affermato dal Tribunale di Torino, quando dall'asserita violazione del suddetto principio costituzionale fa discendere "una ulteriore violazione dell'art. 3, primo comma, Cost. ". Ne consegue che, in ordine logico, l'esame della questione in riferimento all'art. 24 Cost. é preliminare rispetto a quello delle censure formulate in riferimento ad altri principi.

8) L'art. 13, quinto comma, legge n. 1338 del 1962 contrasterebbe, nella parte impugnata, con l'art. 24, primo e secondo comma, Cost., perché la gravosità dell'onere probatorio che accolla al lavoratore renderebbe impossibile l'esercizio in giudizio del diritto alla costituzione della rendita vitalizia e, quindi, vanificherebbe il diritto del lavoratore. E questa l'affermazione di carattere generale, in cui concordano tutti i giudici a quibus: secondo il Pretore di Arezzo, infatti, la norma "frappone ostacoli pressoché insormontabili all'esercizio del diritto"; il Tribunale di Torino parla di " grandissime difficoltà"; per il Pretore di Torino, infine, il risultato della limitazione dei mezzi di prova é stato quello di aver "privato nella pratica di effettività il diritto". Ma é un'affermazione, che richiede più di una precisazione chiarificatrice.

Nell'ordinanza del Tribunale di Torino é ripetutamente evidenziata "la pratica impossibilità per il lavoratore di far valere in sede giudiziaria" il diritto in parola, soggiungendosi che le "condizioni probatorie (sono) talmente onerose da rendere l'applicazione stessa praticamente impossibile se non addirittura giuridicamente impossibile", giacché " la norma in questione richiede che in precedenza (10 anni prima e oltre) lo stesso lavoratore abbia assolto ad oneri di diligenza che appaiono eccessivamente gravosi sì da risultare praticamente irrealizzabili".

La prospettazione é piuttosto ambigua sul punto, sembrando voler dare autonomo rilievo all'impossibilità "pratica". Ma allora non può non osservarsi al riguardo che, poiché i regimi normativi cui corrispondono le assente omissioni contributive conoscevano, come si é più sopra visto, il rilascio, quanto meno, del libretto di lavoro e dell'estratto - conto, l'insistito richiamo alla impossibilità "pratica" - riecheggiato dal Pretore di Torino - ed all'ostacolo insormontabile per il lavoratore di sostenere in giudizio le sue ragioni si risolve in una doglianza, che, a ben guardare, appare rivolta, non tanto contro la norma impugnata, quanto, e prima ancora, contro l'ordinamento che non soccorre chi non sia stato vigilante nell'assicurare la tutela dei propri diritti. É così che si offre alle difese dell'INPS e dello Stato l'opportunità di obiettare che chi abbia omesso di chiedere, o abbia smarrito, la documentazione del caso deve addebitare l'impossibilità "pratica" successivamente verificatasi alla propria negligenza, cioè a circostanze di carattere personale, non già ad una previsione normativa, la quale soltanto può essere presa in considerazione da questa Corte.

9) Senonché, a sostegno del loro assunto, sia il Pretore di Arezzo, sia il Tribunale di Torino, si riportano ai sistemi previdenziali all'epoca vigenti - rispetto a cui, quindi, la dedotta impossibilità "pratica" sarebbe conseguenziale -, ponendo in risalto gli inconvenienti che essi presentavano. Asseriscono entrambi che in materia documenti di data certa sarebbero solo i libri - paga ed i libri - matricola, purché obbligatori e vidimati annualmente, i quali, però, sono tenuti dal datore di lavoro, presso il quale - aggiunge il Tribunale di Torino - va depositato, in costanza di rapporto, lo stesso libretto di lavoro. Ma non può non rilevarsi che appaiono, contraddittoria l'asserzione dell'uno, dubitativa quella dell'altro. Il Pretore di Arezzo, infatti, subito dopo afferma, invece, che il libretto di lavoro (al pari dell'attestato dell'ufficio di collocamento) é idoneo a dimostrare l'esistenza e la durata del rapporto, ma non anche la misura della retribuzione; per il Tribunale di Torino, trattandosi pur sempre di datori di lavoro privati, neppure i suddetti libri sarebbero documenti di data certa. E quest'ultimo giudice lamenta ancora: che il lavoratore non ha mai avuto il diritto di controllare nei suddetti libri l'effettivo versamento dei contributi e la loro esattezza; che tale verifica non gli é consentita neppure sulla base degli estratti - conto; che il libretto di lavoro non sarebbe obbligatorio.

A parte le considerazioni di carattere generale che appresso si faranno sull'asserita impossibilità, é intanto agevole avvedersi che non tutte le affermazioni sopra riassunte trovano convalida nei dati normativi disciplinanti la materia e che alcune appaiono addirittura ininfluenti. A tacer d'altro, l'obbligatorietà del libretto di lavoro e dell'estratto - conto, dell'indicazione, in questo, della retribuzione, nonché dei relativi importi versati all'INPS e, in quello, della qualifica professionale, dell'ammontare della retribuzione, delle date di assunzione e cessazione dal lavoro, etc., come il diritto del lavoratore di prendere visione del libretto in ogni momento, risultano, contrariamente a quanto sostenuto nell'ordinanza de qua, lestualmente disposti nei regimi normativi, di cui al precedente paragrafo 3, lettere b) e c). E, una volta negato - ma dal solo Tribunale di Torino, giacché il Pretore di Arezzo, pur contraddicendosi, come si é già rilevato, riconosce, invece, che il lavoratore "con il libretto di lavoro o attestato dell'ufficio di collocamento può dimostrare l'esistenza e la durata del rapporto" - qualsiasi valore probatorio a qualsiasi documento previsto in quei sistemi previdenziali, é ininfluente che il libretto di lavoro dovesse rimanere depositato presso il datore di lavoro o che il lavoratore potesse, o meno, controllare libri - paga, libri - matricola ed estratto - conto. Il vero é che il ragionamento é costruito tutto sulla rilevata impossibilità ed a questa costantemente ricondotto, tenendo presente l'art. 2704 c.c. ed il modello di scrittura privata che collimi con qualcuna delle ipotesi descritte nel primo comma del citato articolo. A ben guardare, le varie censure ed i vari profili sono finalizzati alla dimostrazione dell'impossibilità, per il lavoratore, di fornire un documento che corrisponda a quel modello e, quindi, della non ragionevolezza che all'istituto deriverebbe dalla limitazione del diritto di difesa, conseguente al divieto di dare ingresso a prove generiche.

10) Nel giudizio previdenziale ordinario il giudice può, d'ufficio, ammettere qualsiasi mezzo di prova, " anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio". Così dispone l'art. 421, secondo comma, c.p.c. nel testo novellato con la legge 11 agosto 1973, n. 533, che perciò é lex posterior rispetto all'opposta statuizione contenuta nell'impugnata norma del 1962.

La Corte di Cassazione, ravvisando nella disciplina del codice di rito la regola generale, ed in quella dell'istituto della costituzione di una rendita vitalizia un'eccezione, ha affermato che questa é fondata su una precisa ratio - l'intervento di impedire manovre fraudolente - e che perciò, benché anteriore, non é stata travolta dalla regola generale, benché successiva. Ma - osserva in contrario il Pretore di Torino - tale deroga ai principi generali vigenti per il processo previdenziale risulta non ragionevole, quando si consideri che, in conseguenza della " volontà di evitare collusioni Ira ex datore ed ex dipendente", "il diritto che pure in astratto la legge riconosce al lavoratore" rimane praticamente privo di "effettività". E nel caso di specie - soggiunge lo stesso giudice, appellandosi alla giurisprudenza di questa Corte - se si preclude alla parte di esibire mezzi di prova, le si nega o limita il potere processuale di rappresentare al giudice la realtà dei fatti ad essa favorevoli. Tanto vero che lo stesso legislatore "in un momento storico successivo ha modificato i principi che reggono il giudizio previdenziale", facoltizzando il giudice, col menzionato art. 421 c.p.c., ad ammettere d'ufficio qualsiasi mezzo di prova.

Al fondo del problema sollevato dall'ordinanza de qua - se possa ritenersi ragionevole il divieto per il giudice di ammettere, in un giudizio avente per oggetto omissioni contributive prescritte, qualsiasi mezzo di prova - é pur sempre ravvisabile l'impossibilità già riscontrata nelle altre ordinanze, non altro significando l'affermazione che, conseguentemente, la norma risulta priva di " effettività". E dalla soluzione in senso positivo o negativo del quesito dipende la esattezza, o meno, della giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha negato l'efficacia abrogativa dell'art. 421, secondo comma, c.p.c., come novellato nel 1973, nei confronti dell'art. 13, quinto comma, legge n. 1338 del 1962.

11) Al principio di ragionevolezza, chiamato in causa dal Pretore di Torino a riguardo dell'asserita violazione dell'art. 24 Cost., fanno riferimento anche gli altri due giudici a quibus, i quali denunciano la congiunta violazione degli artt. 24 e 3 Cost., al quale ultimo, del resto, si richiama pure il Pretore di Torino, con implicito rinvio agli argomenti svolti in ordine all'art. 24 Cost.

"L'equiparazione del datore di lavoro e del dipendente" - si legge nell'ordinanza del Pretore di Arezzo - "non é ragionevole, in quanto obbliga il secondo ad un onere probatorio di intensità ben maggiore rispetto al primo". A sua volta, il Tribunale di Torino denunzia l'irrazionalità dell'impugnata norma, non solo perché "equipara irrazionalmente e disciplina in modo eguale situazioni radicalmente diverse", quali sarebbero l'accertamento in sede amministrativa e quello in sede giudiziaria, ma anche perché stabilisce una "irrazionale diversità di trattamento tra i modi in cui i lavoratori possono in genere far valere i loro diritti... ed il modo in cui... "possono far valere..." il diritto alla rendita vitalizia sancito dall'art. 13 legge cit.". E la conseguenza che ne trae il suddetto giudice é ancora e sempre la stessa: l'impossibilità che la norma impugnata possa " trovare applicazione a cura del lavoratore ed in sede giudiziaria", in quanto richiede ai lavoratori "una prova documentale di data certa" che essi, a causa di condizioni soggettive ed oggettive non certo loro imputabili, non sono assolutamente (e, si potrebbe dire, per definizione) in grado di fornire".

12) Ora, rinviando al seguito ogni considerazione in tema di documenti di data certa, non sembra a questa Corte che l'istituto della costituzione di rendita vitalizia, quale disciplinato dall'art. 13, quinto comma, legge n. 1338 del 1962, possa dirsi privo di ragionevolezza, se esaminato alla stregua del sistema nella sua complessa realtà, e non solo in riferimento alle richiamate norme costituzionali, sia pure valutandole, come auspica l'ordinanza del Tribunale di Torino, nella loro "reciproca integrazione" e " coordinamento".

La norma impugnata rappresenta il superamento della prescrizione dei contributi assicurativi, stabilita in cinque anni dall'art. 55 della legge n. 112 del 1935 ed elevata a dieci anni dall'art. 41 della legge n. 153 del 1969. Trattasi, dunque, di una norma di favore, equipollente in sostanza ad una rimessione in termini - e non rileva il quesito se per caso non si configuri più propriamente una decadenza -, che pertanto costituisce un istituto a sé, il quale perderebbe la sua specificità e verrebbe ricondotto nel sistema generale, ove l'interprete facesse applicazione a suo riguardo delle regole comuni di questo, anziché delle regole eccezionali proprie di quello. Il legislatore ha inteso favorire i lavoratori aventi diritto di accensione della rendita, presumendone piuttosto limitato il numero, ed impedire, nello stesso tempo, che del beneficio potesse avvalersi anche la ben più ampia categoria dei non aventi diritto. In vista di questo scopo, che é quello di evitare che germoglino posizioni assicurative fittizie, non potrebbe seriamente dirsi che sia priva di fondamento e, quindi, arbitraria la diffidenza del legislatore nei confronti delle prove testimoniali, degli atti di notorietà, etc., cui, né infondatamente, né arbitrariamente, stante la natura eccezionale dell'istituto, dispone non doversi riconoscere efficacia probatoria autonoma dell'effettiva esistenza del rapporto di lavoro. La considerazione é ancor più valida nei casi in cui le omissioni contributive vengono fatte risalire a periodi assai lontani nel tempo, che, secondo la comune esperienza giudiziaria, possono attingere, ed anche oltrepassare, mezzo secolo, e vengono denunciate a distanza di molti anni nei confronti di datori di lavoro deceduti o di ditte scomparse. E non occorre dire che la limitazione in materia di disponibilità dei mezzi di prova, la quale deriva dalla non ingiustificata diffidenza di cui sopra, contenendo l'onere a carico dell'ente previdenziale, in definitiva tutela un patrimonio pubblico. Da ultimo, ancor meno potrebbe la norma impugnata essere ritenuta priva di ragionevolezza nel sistema attuale, nel quale, a sensi dell'art. 1 della legge n. 153 del 1969, lo Stato ha assunto "a suo completo carico l'onere della pensione sociale".

13) L'impossibilità di applicazione dell'art. 13, quinto comma, della legge n. 1338 del 1962 - indipendentemente da quanto si é detto sul denunciato vizio di non ragionevolezza che inficierebbe il sistema - risulta, in fondo, il motivo conduttore di tutto il ragionamento, che sorregge e lega tra loro le varie censure. É, infatti, ancora e sempre la "pratica impossibilità per il lavoratore di far valere in giudizio" l'istituto della rendita vitalizia" - afferma il Tribunale di Torino - che " comporta inoltre specifica violazione dell'art. 38, secondo e quarto comma, Cost.", e perciò non solo degli artt. 24 e 3 Cost.

Una norma assolutamente inapplicabile é, tuttavia, congettura implausibile, giacché una proposizione vuota di contenuto normativo sarà, semmai, una norma apparente, se fosse immaginabile che per disavvertenza del legislatore sia stata approvata e per negligenza degli interessati, diretti ed indiretti, riesca a durare incontestata da oltre un ventennio. Senonché, il giudizio di ragionevolezza presuppone l'applicabilità delle norme, e conseguentemente, non essendo pensabile nella specie che il legislatore abbia riconosciuto al lavoratore in astratto il diritto di accensione della rendita vitalizia e - addirittura contestualmente - glielo abbia disconosciuto in concreto, non può chiedersi al giudice delle leggi una pronuncia caducatoria per l'asserita non operatività della relativa norma. Il giudice del merito non può sottrarsi al compito, ineludibile nel nostro ordinamento, di applicare la norma secondo quell'interpretazione che le consenta di concretamente e meglio realizzare lo scopo perseguito dal legislatore.

14) Il problema, dunque, va risolto in via ermeneutica, e pertanto, non già eliminando dal mondo dei valori giuridici la norma che non irragionevolmente ha disposto, per un istituto speciale, speciali limiti probatori, bensì interpretandola. Se così é, non può dirsi che giovi alla soluzione limitarsi ad addurre gli inconvenienti che la disciplina delle prove rivela, quando il lavoratore abbia interesse, come nei casi sub judice, all'accertamento delle date relative al suo rapporto di lavoro. E proprio inconvenienti si limita ad addurre il Tribunale di Torino, quando, non solo afferma esattamente che l'avvenuta prestazione del lavoro é un fatto non negoziale, che la legge civile non richiede per il contratto di lavoro la forma scritta neppure ad probationem, e che la legge fiscale non prescrive la registrazione a termine fisso del contratto di lavoro scritto, né la denuncia del contratto di lavoro verbale, ma aggiunge altresì che non si addicono alla fattispecie non negoziale in parola quelle previsioni (morte sopravvenuta, impossibilità di sottoscrivere un eventuale documento che rechi i dati richiesti, etc.), alle quali soltanto l'art. 2704 c.c. riconosce idoneità a conferire data certa ad una scrittura privata non autenticata.

Si deve tuttavia osservare al riguardo che il richiamo al predetto art. 2704 c.c., in sé corretto, appare tuttavia circoscritto esclusivamente al primo comma. L'art. 2704 c.c., invece, si ripartisce in tre distinti commi, riguardanti tre distinte ipotesi: che si tratti di scrittura privata consistente nelle dichiarazioni delle parti (primo comma); che si tratti di scrittura privata consistente in una dichiarazione unilaterale non destinata a persona determinata (secondo comma); che si tratti di una scrittura privata consistente in una "quietanza" (terzo comma). Prescindendo dal secondo comma, il quale attiene alle dichiarazioni rivolte alla generalità, appare evidente la netta contrapposizione, meglio che distinzione, fra il primo ed il terzo comma, di cui quello disciplina l'ipotesi di dichiarazioni di volontà delle parti, mentre questo disciplina l'ipotesi di dichiarazioni di scienza, alla cui categoria appartengono appunto le "quietanze". Dalla precisazione di cui sopra si deduce anzitutto - in coerenza del resto col riconoscimento, da parte dello stesso giudice a quo, della natura di fatto non negoziale dell'avvenuta prestazione del lavoro - che, per dare operatività alla norma impugnata, non può chiedersi sussidio al primo comma dell'art. 2704 c.c. Ma é possibile dedurne altresì, in relazione all'esigenza di logicità dell'ordinamento giuridico, che nei giudizi ex art. 13, quinto comma, della legge n. 1338 del 1962, purché sia incontestata l'autenticità del documento e si tratti solo di accertare la sua data, "il giudice, tenuto conto delle circostanze, può ammettere qualsiasi mezzo di prova", come previsto dal terzo comma del menzionato art. 2704 c.c. E, stante l'imprescindibilità del documento e della sua incontestata genuinità, non può non ritenersi escluso, contrariamente a quanto opina il Pretore di Torino, il ricorso, sia all'art. 2729 c.c., e perciò alla presunzione, sia all'art. 2724, n. 1, che riguarda l'ipotesi di "un principio di prova per iscritto", il quale "faccia apparire verosimile il fatto allegato". L'esistenza del rapporto di lavoro, insomma, non deve solo apparire verosimile, ma risultare documentalmente certa.

Un'attenta lettura delle "istruzioni di servizio n. 11 ", impartite in materia dallo stesso istituto previdenziale nel 1968 - e tuttora applicate -, mostra che la conclusione di cui sopra non trova smentita, bensì implicita conferma, nelle dette istruzioni. Frammiste, infatti, ivi alle ineccepibili affermazioni che non deve darsi ingresso a documenti "costituiti allo specifico fine di usufruire della facoltà concessa dall'art. 13" e che "in nessun caso può considerarsi documentazione idonea degli elementi del rapporto di lavoro la prova testimoniale (atti di notorietà ed altre dichiarazioni equipollenti)", si rinvengono le affermazioni che sono ammissibili non solo "dichiarazioni, attestazioni, ecc. redatte" anche in epoca successiva" e "le lettere di assunzione e di licenziamento, i benserviti", bensì pure "le buste paga, i libretti di lavoro, gli estratti dei libri paga e matricola" e persino "tutti i documenti che, comunque, abbiano attinenza con il rapporto di lavoro dichiarato".

15) L'onere probatorio, che il lavoratore, a sensi del quinto comma dell'art. 13 legge n. 1338 del 1962, - ma anche il datore di lavoro, a sensi del quarto comma - é tenuto ad assolvere per ottenere la costituzione della rendita vitalizia, può riguardare: a) la effettiva esistenza del rapporto di lavoro; b) la durata dello stesso; c) l'ammontare della retribuzione percepita. Trattasi di "fatti" tra loro intimamente legati, eppure giuridicamente distinguibili, anche se la norma di cui al comma quarto sembri prescrivere i "documenti di data certa" per tutti i "fatti" in parola, mentre il comma quinto non accenna alla durata. Il "fatto" sub a) attiene fuor di ogni dubbio all'an - e perciò é il presupposto legittimante l'esercizio del diritto di accensione della rendita - mentre il "fatto" sub c), a sua volta, attiene fuor di ogni dubbio al quantum, ed é rapportato al "fatto" sub b). La rilevanza di tale distinzione appare innegabile, potendosi sulla sua base affermare che, se i "fatti" di cui sopra sono giuridicamente distinguibili e distinti, non v'è motivo di applicare ad essi la medesima disciplina probatoria. In altre parole, una volta provata documentatamente l'effettiva esistenza del rapporto di lavoro, ben può il giudice ammettere mezzi diversi dai documenti di data certa per raggiungere la prova della durata di esso e dell'ammontare della retribuzione.

In questo senso - almeno limitatamente al "fatto" sub c) - si rivela orientato anche l'INPS. Nelle già menzionate "istruzioni di servizio", infatti, é dato leggere che, ove "sia stata dimostrata l'esistenza e la durata del rapporto di lavoro dichiarato, nonché la qualifica rivestita", ma manchi la "prova documentale dell'ammontare della retribuzione, le domande ex art. 13 possono essere accolte sulla base di altri elementi, ugualmente idonei a dimostrare l'importo, come, ad esempio, le risultanze degli appositi contratti collettivi all'epoca vigenti, le tabelle degli stipendi fissate nell'ambito aziendale, il taglio delle marche applicate per periodi immediatamente precedenti o successivi a quelli oggetto della costituzione di rendita, il taglio delle marche applicate a favore di lavoratori che, all'epoca prestavano servizio nella stessa azienda e con la qualifica rivestita da colui che ha subito l'omissione contributiva e, in ultimo, le dichiarazioni di responsabilità rese dagli interessati ai sensi dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 5".

Alla luce delle suesposte considerazioni deve dirsi priva di fondamento la specifica censura, che il Pretore di Arezzo ed il Tribunale di Torino formulano anche in ordine alla prova dell'ammontare della retribuzione, lamentando l'uno che il lavoratore "non può mai provare documentatamente la misura della retribuzione", e sostenendo più diffusamente l'altro: che "il lavoratore si trova in grandissima difficoltà di provare con documenti scritti di data certa, sia il fatto non negoziale dell'avvenuta prestazione del lavoro, della sua durata e tanto più della misura della retribuzione"; che "la prova (anche) della misura della retribuzione può essere data esclusivamente mediante documenti di data certa"; che é "praticamente impossibile, se non addirittura impossibile" offrire la prova della retribuzione; che "la prova scritta con data certa é richiesta per la misura della retribuzione".

16) Come si é anteriormente rilevato, le censure di cui alle ordinanze in oggetto sono un intreccio, nel quale gli argomenti dedotti in riferimento ad un parametro non si lasciano agevolmente sceverare da quelli dedotti in riferimento ad altri parametri, costituendo gli uni il reciproco supporto degli altri. Ciò vale soprattutto per quanto riguarda l'asserita violazione dell'art. 3 Cost., che risulta denunciata prevalentemente in connessione con l'art. 24 Cost., e di cui perciò i principali profili sono stati già oggetto di esame. Né occorre indugiare su quelli residui, che rivelano una ben fragile consistenza. Quando si lamenta, infatti, - come fanno, tanto il Pretore di Arezzo, quanto il Tribunale di Torino - che datore di lavoro e lavoratore debbano fornire le stesse prove (onde la "irrazionalità dell'eguaglianza di trattamento per le due posizioni diverse"), sembra sfuggire ai due giudici a quibus che nella specie non é configurabile disparità di trattamento dal punto di vista sostanziale, nel senso che, provengano le prove dal datore di lavoro o dal lavoratore, beneficiario é pur sempre e soltanto quest'ultimo. Ed in quanto alla pretesa disparità tra dipendenti di piccole imprese, da un lato, e quelli pubblici o di grosse imprese, dall'altro, - cui conseguirebbe la violazione anche del capoverso dell'art. 3 Cost., in quanto non verrebbero rimosse le condizioni oggettive, che indurrebbero i "lavoratori più deboli" ad accettare il lavoro "nero" -, non può dirsi corretta la comparazione tra termini non omogenei. Né ha maggior pregio, da ultimo, l'ulteriore denuncia di violazione dell'art. 3 Cost., cioé di irrazionalità dell'equiparazione tra accertamento in sede amministrativa ed accertamento in sede giudiziaria, risultando pienamente giustificata anche in sede giudiziaria la preoccupazione del legislatore di non far dipendere dalle prove generiche l'accertamento dell'effettiva esistenza di rapporti di lavoro che possono anche risalire a periodi piuttosto remoti.

17) L'art. 38 Cost. é invocato dal Pretore di Torino senza alcuna motivazione, e dal Tribunale della stessa città con motivazione assolutamente identica a quella offerta a sostegno dell'asserita violazione del diritto di difesa. In sostanza, dopo avere ricordato quanto dispone l'art. 38, secondo e quarto comma, Cost., - cioè, che i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati i mezzi adeguati alle loro esigenze per vecchiaia, invalidità, superstiti, e che a tali compiti si deve provvedere con organi ed istituti predisposti o "integrati" dallo Stato - si afferma che l'impugnato art. 13 della legge n. 1338 del 1962, pur mirando ad attuare il menzionato precetto costituzionale, in realtà pone condizioni tanto onerose, da rendere impossibile l'applicazione dell'istituto. Valgono pertanto, nei confronti di questo motivo, gli stessi argomenti in precedenza esposti a riguardo della censura formulata in riferimento all'art. 24 Cost.

18) La norma impugnata contrasterebbe altresì, secondo il Tribunale di Torino, con l'art. 36, primo comma, Cost., "nella parte in cui la prova scritta con data certa é richiesta per la misura della retribuzione percepita anche quando il lavoratore non assuma di avere percepito una retribuzione superiore al minimo previsto dalla contrattazione collettiva" o assuma addirittura di averne percepito una "inferiore o nessuna retribuzione". La censura, così com'è formulata, non é di facile intelligenza. Si afferma anzitutto che "in forza dell'art. 36, primo comma, Cost., le retribuzioni minime previste dai contratti collettivi sono applicabili anche ai rapporti di lavoro le cui parti non aderiscano ai sindacati stipulanti" e si conclude nel senso che, comunque, "occorre fare riferimento, anche ai fini dell'istituto di cui all'art. 131. cit., non già alla misura della retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore ma a quella minima di contrattazione collettiva che egli avrebbe avuto diritto a percepire". Ora, venendo in questione l'ammontare della retribuzione, valgono anche qui le considerazioni già fatte in proposito al paragrafo 15.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi di cui alle ordinanze in epigrafe:

  1. a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, quarto e quinto comma, della legge 12 agosto 1962, n. 1338, sollevata dal Pretore di Padovainriferimento agli artt. 24 e 38 della Costituzione con ordinanza emessa il 18 settembre 1979 (o. n. 989/1979);
  2. b) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, quinto comma, legge 12 agosto 1962, n. 1338, sollevata dal PretorediArezzo in riferimento agli artt. 3 e 24 Costituzione, dal Tribunale di Torino in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, primo e secondo comma, 38, secondo e quarto comma, e 36, primo comma, Cost. e dal Pretore di Torino in riferimento agli artt. 3, 24 e 38 Cost., con le ordinanze emesse, rispettivamente, il 31 gennaio 1978 (o. 149/1978), il 22 ottobre 1980 (ro. 827/1980) ed il 27 maggio 1981 (r.o. 599/1981).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 febbraio 1984.

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE  -Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  -Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

Depositata in cancelleria il 15 febbraio 1984.