Sentenza n. 311 del 1983

 CONSULTA ONLINE 


SENTENZA N. 311

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

          Prof. Livio PALADIN      

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

          Prof. Virgilio ANDRIOLI  

          Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 43, lett. d), della legge 12 febbraio 1968, n. 132 (Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera) e 24 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130 (Stato giuridico dei dipendenti degli enti ospedalieri), promosso con ordinanza emessa il 12 gennaio 1977 dal tribunale amministrativo regionale dell'Emilia-Romagna nel procedimento sui ricorsi riuniti proposti da Suriani Ugo e Canciullo Placido contro l'Ente ospedaliero "Ospedali di Bologna", iscritta al n. 203 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 148 del 1977.

Udito, nella camera di consiglio del 23 marzo 1983, il Giudice relatore Antonino De Stefano.

Ritenuto in fatto

Con due lettere, di identico contenuto, in data 29 dicembre 1975, dirette a due sanitari ospedalieri a "tempo definito", dipendenti degli "Ospedali di Bologna", prof. Ugo Suriani (aiuto nel servizio di anestesia e rianimazione dell'Ospedale S. Orsola) e prof. Placido Canciullo (primario della divisione otorinolaringologica dell'Ospedale Maggiore), il Presidente dell'ente ospedaliero, premesso che, in virtù del combinato disposto degli artt. 43 della legge 12 febbraio 1968, n. 132 (concernente gli enti ospedalieri e l'assistenza ospedaliera) e 47 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130 (sullo stato giuridico dei dipendenti degli enti ospedalieri), dal 31 dicembre 1975, per il personale sanitario a "tempo definito", l'esercizio di attività professionale in case di cura private diveniva ope legis incompatibile con quella inerente al rapporto d'impiego in atto presso l'ente ospedaliero, invitava i predetti sanitari, "ad ogni conseguente effetto": a) a voler comunicare all'ente ospedaliero se e quale rapporto avessero con case di cura private; b) a voler contestualmente dichiarare, in ipotesi di esistenza di tale rapporto, la formale rinuncia al medesimo con effetto dal 1 gennaio 1976, nonché l'eventuale disponibilità al passaggio dal "tempo definito" al "tempo pieno".

Con ricorsi, anch'essi di identico contenuto, i due sanitari, ravvisando in questa lettera dell'amministrazione ospedaliera una diffida lesiva del loro interesse, la impugnavano innanzi al TAR per l'Emilia Romagna. In via principale essi contestavano che l'incompatibilità, ivi affermata, fra rapporto d'impiego ospedaliero e attività libero - professionale in case di cura privata (tranne i casi in cui ai sanitari a tempo definito fosse stata effettivamente assicurata, presso lo stesso ospedale, con l'apprestamento delle necessarie attrezzature, la possibilità della libera professione "intramurale") fosse in realtà prevista dalla legge. In via subordinata, tuttavia, nel caso in cui si fosse ritenuto che siffatta incompatibilità, con il conseguente asserito divieto incondizionato di esercizio professionale, per i medici ospedalieri a tempo definito, presso case di cura private, a partire dal 1 gennaio 1976, trovasse fondamento nelle norme sullo stato giuridico del personale ospedaliero (oltre all'art. 43 della legge n. 132 del 1968, richiamato nella impugnata lettera, essi facevano riferimento all'art. 133 del d.P.R. n. 130 del 1969, all'art. 7 della legge 17 agosto 1974, n. 386 - con la quale si é convertito in legge il decreto legge n. 264 del 1974, recante "norme per l'estinzione dei debiti degli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri, il finanziamento della spesa ospedaliera e l'avvio della riforma sanitaria" - e all'art. 3 della legge della Regione Emilia Romagna 14 maggio 1975, n. 30, sulla disciplina dell'assistenza ospedaliera gestita dalla stessa Regione), le norme stesse in parte qua avrebbero dovuto essere riconosciute costituzionalmente illegittime, per contrasto, per quanto riguardava la legge regionale, con i principi generali delle leggi statali in materia; per quanto riguardava la disposizione del d.P.R. n. 130 del 1969, con il principio, posto dall'art. 42 della legge di delega n. 132 del 1968, per il quale nei decreti legislativi da emanare in base ad essa dovevano "essere riconosciute le posizioni giuridiche acquisite dal personale già in servizio", e, quanto alle altre norme statali, infine, per contrasto con gli artt. 3 e 4 della Costituzione. I ricorrenti chiedevano pertanto che, se il TAR non avesse ritenuto di annullare senz'altro, in accoglimento della loro istanza principale, il provvedimento impugnato, gli atti, previa sospensione del giudizio, fossero inviati alla Corte costituzionale per la decisione delle prospettate questioni di legittimità costituzionale.

L'ente ospedaliero resisteva ai ricorsi, sostenendone l'inammissibilità e comunque l'infondatezza. Riuniti i ricorsi, il TAR, con una ordinanza emessa il 12 gennaio 1977, dopo ampia disamina, respingeva l'eccezione di inammissibilità opposta dall'ente e, al tempo stesso, la domanda principale dei ricorrenti, mentre, riguardo alle questioni di legittimità costituzionale da essi prospettate, riteneva quella concernente la legge regionale, irrilevante, e tutte le altre manifestamente infondate. Con lo stesso provvedimento, tuttavia, sollevava, d'ufficio, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale - come precisato nel dispositivo dell'ordinanza - dell'art. 43, lett. d), della legge n. 132 del 1968, "nella parte in cui, dopo avere affermato che lo stato giuridico dei medici ospedalieri con funzioni di diagnosi e cura deve prevedere l'incompatibilità con l'esercizio professionale in casa di cura privata, indica nel tempo definito il rapporto normale di lavoro, disponendo che l'amministrazione, a domanda, possa consentire il tempo pieno", "con conseguente estensione della questione alle norme dei decreti delegati emanate in applicazione del predetto principio e particolarmente all'art. 24 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130".

Nel motivare il provvedimento di rimessione in ordine alla "non manifesta infondatezza", il giudice a quo, dopo aver sottolineato che con il continuo progresso delle discipline mediche sempre più evidente é l'esigenza dell'incremento, nell'ambito ospedaliero, di attività di gruppo, e che, di conseguenza, specialmente in certi settori, l'opera del singolo medico, se non si svolge in collaborazione con quella di altri medici, non può conseguire risultati utili, osserva che, quindi, non sempre, anzi quasi mai, certi tipi di attività diagnostiche o terapeutiche o certi interventi sono attuabili, nell'ambito dell'ospedale, nel quadro della libera professione "intramurale", in proporzioni tali da sostituire, per il medico ospedaliero a tempo definito - e senza che peraltro ne derivino apprezzabili vantaggi per l'ente ospedaliero, né, quindi, per la collettività - il cessato esercizio professionale presso case di cura private. Del resto - prosegue l'ordinanza di rinvio anche nel quadro del rapporto d'impiego dei medici ospedalieri la presenza nell'ospedale, secondo l'attuale sistema, di un certo numero di sanitari a rapporto pieno, accanto ad altri a rapporto definito, fa sì che in certi casi l'attività di gruppo possa svolgersi soltanto durante l'orario giornaliero del tempo definito, cosicché il rapporto a tempo pieno, nonostante i maggiori oneri che pur comporta per l'ospedale, potrebbe rivelarsi inutile, con danno - anche sotto questo aspetto - oltre che per il medico, per la collettività, privata della possibilità di avvalersi della sua opera, in un settore che pure é costituzionalmente considerato e protetto, come quello della salute pubblica.

Secondo il TAR, perciò, la disparità di trattamento tra categoria e categoria, tra medico e medico, é riconducibile alle gravi contraddizioni che emergono dalla lettera d) dell'art. 43 della legge n. 132 del 1968, e, conseguentemente, dalle norme dei decreti delegati, prima fra tutte quella dell'art. 24 del d.P.R. n. 130 del 1969. É assolutamente irragionevole - si afferma nell'ordinanza - che le predette norme, nel momento in cui privano il medico ospedaliero di una forma così rilevante, anche sotto l'aspetto economico, di attività libero - professionale come é l'attività in casa di cura privata, attività che per alcune categorie e per alcuni medici costituiva la sola forma di attività libero - professionale possibile, pongono poi il tempo definito, con la sua parziale utilizzazione del sanitario, come regola del rapporto di lavoro ospedaliero, lasciando alla discrezione dell'amministrazione, da parte sua tenuta a tutelare, naturalmente, interessi diversi da quelli del medico, la possibilità di concedere la piena utilizzazione della sua attività a favore dell'ente ospedaliero. Una esigenza di giustizia - se ne conclude - porterebbe ad affermare una preferenza per la utilizzazione completa, in seno all'ospedale, di coloro che più risultano danneggiati dalle limitazioni poste all'esercizio della loro libera attività professionale. Quanto meno, però, la logica necessità di porre tutti gli appartenenti alla categoria dei medici ospedalieri in condizioni di uguaglianza di diritti, richiederebbe "che il tempo pieno fosse la regola del rapporto di lavoro del medico ospedaliero, lasciando alla sua facoltà la scelta del tempo definito in omaggio a ciò che resta del diritto alla libera attività professionale". Nella quale - ribadisce il TAR - non si può far rientrare la professione intramurale che, vincolata com'è alla regolamentazione, da parte dell'ente, circa il luogo, i mezzi, la quantità, la compartecipazione, costituisce soltanto un'appendice anomala dell'impiego ospedaliero.

Poiché la questione "se fondata, travolgerebbe la norma dalla quale trae fondamento la legittimità del provvedimento impugnato", essa appare al TAR rilevante "per il giudizio in corso, instaurato da sanitari con rapporto a tempo definito".

Adempiute le formalità di rito per le notifiche, comunicazioni e pubblicazione dell'ordinanza, nessuna delle parti del giudizio di provenienza si é costituita innanzi alla Corte, né é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

Come esposto in narrativa, il giudizio a quo é stato instaurato con i ricorsi, di due sanitari ospedalieri "a tempo definito", intesi - come sottolineato nell'ordinanza di rimessione - "a far dichiarare illegittimo il provvedimento di applicazione del divieto di attività in casa di cura privata". Divieto sancito dall'art. 43, lett. d), della legge 12 febbraio 1968, n. 132, e dall'art. 133 del d.P.R. 27 marzo 1969, n.130 Il tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna; disattese le eccezioni di illegittimità costituzionale, sollevate dai ricorrenti, di tali norme, nonché dell'art. 7 della legge 17 agosto 1974, n. 386, e dell'art. 3 della legge della Regione Emilia Romagna 14 maggio 1975, n. 30, prospetta d'ufficio la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, del già citato art. 43, lett. d), della legge n. 132 del 1968, ma "nella parte in cui, dopo avere affermato che lo stato giuridico dei medici ospedalieri con funzioni di diagnosi e cura deve prevedere l'incompatibilità con l'esercizio professionale in casa di cura privata, indica nel tempo definito il rapporto normale di lavoro, disponendo che l'amministrazione, a domanda, possa consentire il tempo pieno". Ed estende la questione "alle norme dei decreti delegati emanate in applicazione del predetto principio, e particolarmente all'art. 24 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130", che disciplina diversamente l'orario di servizio per il personale sanitario medico, a seconda che il rapporto d'impiego sia "a tempo pieno" o "a tempo definito".

La censura investe il principio, secondo il quale il rapporto "a tempo definito" costituirebbe la regola del rapporto d'impiego del medico ospedaliero, mentre il rapporto "a tempo pieno" rappresenterebbe l'eccezione. Principio che la prevalente giurisprudenza amministrativa desume dal vigente ordinamento ospedaliero, anche se non mancano decisioni che lo considerano superato per effetto dell'art. 54 della legge 18 aprile 1975, n. 148, in virtù del quale la scelta della prestazione del "tipo" di servizio é rimessa alla valutazione dell'amministrazione, che può prescrivere la prestazione del servizio "a tempo pieno" anche in carenza di specifica richiesta dell'interessato. Una pronuncia di questa Corte, dichiarativa in parte qua della illegittimità costituzionale dell'art. 43, lett. d), capovolgerebbe perciò il principio, poiché - come puntualizza l'ordinanza di rimessione - il "tempo pieno" diverrebbe "la regola del rapporto di lavoro del medico ospedaliero, lasciando alla sua facoltà la scelta del tempo definito". Ma tale questione non appare rilevante nel giudizio a quo. I ricorrenti, invero, non si dolgono del loro rapporto "a tempo definito", né aspirano a quello "a tempo pieno", avendo respinto l'invito, rivolto con il provvedimento impugnato, a dichiarare la loro disponibilità al riguardo. Essi, nell'ambito della rivestita posizione "a tempo definito", che consente l'esercizio professionale nelle ore libere, lamentano l'impedimento opposto all'esercizio medesimo in case di cura private; e tale impedimento, appunto, intendono rimuovere con i loro ricorsi, attraverso il richiesto annullamento del provvedimento impugnato, che fa applicazione del divieto, o in via subordinata attraverso le eccepite questioni di legittimità costituzionale, dal giudice a quo disattese, della normativa che il divieto medesimo pone. Tale normativa, che il giudice adito é chiamato ad applicare per rendere la sua pronuncia, non verrebbe travolta, come si assume, ove la questione deferita alla Corte fosse dichiarata fondata. L'art. 43, lett. d), della legge n. 132 del 1968, non é stato, infatti, denunciato dal giudice a quo nella sua interezza ma solo in parte qua, e cioé, come già riferito, nella parte in cui indica nel "tempo definito" il rapporto normale di lavoro, disponendo che l'amministrazione possa, a domanda, consentire il "tempo pieno". Invertita, dunque, la regola, per effetto della eventuale pronuncia affermativa di questa Corte, rimarrebbe pur sempre in vigore per i medici ospedalieri "a tempo definito" (anche se tale posizione dovesse di conseguenza venir acquisita , non più ope legis, ma a domanda) la parte della norma stessa che pone il divieto dell'esercizio professionale in case di cura private, contro il quale si appuntano le doglianze dei ricorrenti.

Va, pertanto, dichiarata la inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione deferita a questa Corte in ordine all'art. 43, lett. d), della legge n. 132 del 1968, nella parte in cui indica nel "tempo definito" il rapporto normale di lavoro, disponendo che l'amministrazione possa, a domanda, consentire il "tempo pieno". Resta in conseguenza assorbita la dedotta estensione della questione medesima "alle norme dei decreti emanate in applicazione del predetto principio, e particolarmente all'art. 24 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130".

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 43, lett. d), della legge 12 febbraio 1968, n. 132 (Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera), nella parte in cui indica nel "tempo definito" il rapporto normale di lavoro, disponendo che l'amministrazione possa, a domanda, consentire il "tempo pieno", sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con l'ordinanza emessa il 12 gennaio 1977 (R.O. n. 203 del 1977) dal tribunale amministrativo regionale per l'Emilia Romagna.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 settembre 1983.

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 18 ottobre 1983.