Sentenza n. 85 del 1983

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SENTENZA N. 85

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Prof. Livio PALADIN

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 246 cod. proc. civ. (incapacità a testimoniare) in relazione all'art. 384, comma secondo, cod. pen. (casi di non punibilità) promosso con ordinanza, emessa il 5 novembre 1976 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Clemente Dario, iscritta al n. 725 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 31 del 2 febbraio 1977.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 marzo 1983 il Giudice relatore Virgilio Andrioli;

udito l'avvocato dello Stato Ignazio Francesco Caramazza, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Serantoni Paolo, ispettore commerciale della Lancia S.p.a., dolendosi che Clemente Dario, commissionario della ditta per la zona di Casale Monferrato, lo avesse diffamato accusandolo alla presenza del dirigente del servizio del personale dell'addetto all'ufficio legale e di altro funzionario della società di essersi fatto corrispondere la somma di lire 2.000.000 quale compenso della nomina a commissionario, sporse querela contro il Clemente per diffamazione aggravata sotto la data 26 luglio 1967.

Essendo, a seguito di tale accusa, ritenuta veritiera dalla datrice di lavoro, stato licenziato in tronco dalla Lancia, il Serantoni, con atto notificato il 20 febbraio 1968, convenne avanti il Tribunale civile di Torino la Lancia per conseguire il pagamento della indennità ed accessori dovuti in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro; il Clemente, indotto quale teste dalla convenuta, espose-sotto vincolo di giuramento- circostanze diverse atte a scagionare il Serantoni dall'accusa di corruzione e, pertanto, la Lancia, sotto la data del 30 luglio 1973, lo denunciò per il delitto di falsa testimonianza, dopoché il processo per diffamazione a carico dello stesso Clemente era stato, in data 21 novembre 1970, archiviato per intervenuta amnistia.

2. - Nel giudizio di appello avverso la sentenza, con la quale il Pretore di Torino ebbe a giudicare il Clemente responsabile per falsa testimonianza condannandolo alla pena di mesi quattro di reclusione, il difensore dell'imputato sollevò in via preliminare incidente d'incostituzionalità dell'art. 246 c.p.c. in riferimento all'art. 384 c.p. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui la disposizione del codice di procedura civile non vieta la testimonianza di un soggetto imputato dello stesso fatto o di un fatto connesso a lui attribuito quale reato.

Con ordinanza emessa il 5 novembre 1976, comunicata il 10 e notificata il 15 dello stesso mese, pubblicata nella G.U. n. 31 del 2 febbraio 1977 e iscritta al n. 725 R.O. 1976, il Tribunale di Torino giudicò la questione di legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c. in relazione all'art. 384 comma secondo c.p., I) rilevante perché attinente all'applicabilità dell'art. 372 c.p. nei confronti dell'appellante Clemente, che verrebbe escluso dall'esimente dell'art. 384 c.p. e in applicazione del principio statuito dall'art. 2, comma terzo c.p., e II) in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. non manifestamente infondata perché a) l'art. 246 c.p.c., secondo il quale "non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio", s'ispira all'incompatibilità tra le posizioni di parte e di teste e mira ad evitare che il giudicato civile si formi con l'apporto diretto o indiretto dei soggetti che potrebbero invocarne a proprio favore gli effetti, b) siffatta incompatibilità appare di maggior rilievo nel caso sottoposto all'esame dei giudici penali di Torino in quanto "la (sua) posizione di soggetto informato dei fatti non é al di fuori della controversia in atto fra le parti, ma ha dato origine, sia pure con il concorso di altre posizioni personali, alla controversia stessa" e "l'incompatibilità appare di maggior rilievo perché inerisce all'interesse del soggetto obbligato alla testimonianza a non subire condanne penali in dipendenza della sua posizione di persona informata dei fatti", III) "Appare (in questa ipotesi) giuridicamente rilevante l'interesse del soggetto che assume la duplice qualità, sia pure in sedi diverse, di testimone e di imputato, a rappresentare al giudice la realtà dei fatti, in modo da non pregiudicare la propria posizione d'imputato", c) "la delicata situazione nella quale il soggetto viene a trovarsi é altresì pregiudizievole all'accertamento della verità che é funzione essenziale della testimonianza", d) "Se il soggetto nega i fatti e la veridicità dei medesimi risulta altrimenti provata si espone alla condanna per falsa testimonianza" e "In ogni caso il suo diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost. appare violato", e) va richiamato l'art. 304 c.p.p.-nella formulazione di cui alla legge 5 dicembre 1969 n. 932 e, da ultimo, alla legge 15 dicembre 1972 n. 773-, il quale "prevede il caso che nel corso dell'interrogatorio (meglio deposizione) di persona non imputata (teste), emergono a suo carico indizi di reità, ed impone al giudice l'obbligo di avvertire l'interrogando che da quel momento ogni parola da lui detta può essere utilizzata contro di lui, con la sanzione dell'inutilizzazione delle dichiarazioni rese in assenza del difensore".

In conclusione il Tribunale ravvisò l'incostituzionalità dell'art. 246 c.p.c. in relazione all'art. 384 secondo comma c.p., nella parte in cui non prevede l'incapacità a testimoniare, non vieta cioé la testimonianza di chi é imputato di un fatto reato, da questi resa in giudizio civile, su circostanze relative al fatto medesimo o connesse con il fatto-reato stesso.

3.1. - Avanti la Corte non si é costituito il Clemente; ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato il 18 febbraio 1977 nel quale l'Avvocatura generale dello Stato ha concluso per la irrilevanza e, comunque, per la infondatezza della proposta questione sulla base delle seguenti argomentazioni. Una decisione additiva di accoglimento - come é quella che viene nella specie prospettata dal giudice a quo - presuppone che l'"esigenza costituzionale", non soddisfatta dal legislatore, rientri nell'economia della norma denunciata e trovi in questa la propria competente sede: condizione non sussistente nel caso in esame in quanto, mentre l'art. 246 c.p.c. collega il sospetto di mendacio all'interesse del testimone ad un certo contenuto della sentenza civile ed esprime un divieto inderogabile e rilevabile d'ufficio, l'ipotizzato intervento additivo della Corte riguarderebbe una situazione in cui, da un lato, l'interesse a mentire non si coordina ad un certo contenuto della sentenza civile, e, dall'altro, la soluzione non potrebbe porsi in termini di divieto della deposizione, ma soltanto configurare una facoltà del testimone di astenersi dal deporre. L'impugnativa, quindi, si sarebbe dovuta appuntare non contro l'art. 246 ma contro l'art. 249 c.p.c., né all'errore di bersaglio potrebbe rimediare la Corte.

In subordine, non sussiste violazione del principio di eguaglianza perché le due ipotesi a raffronto (l'una contemplata dall'art. 246 c.p.c., in cui é in gioco l'interesse pubblico alla genuinità di una fonte di prova, e l'altra che si vorrebbe oggetto dell'intervento additivo, nella quale viene in considerazione l'interesse privato a non compromettere la propria difesa penale) esibiscono differenze tali da giustificare il fatto che solo l'una, e non l'altra, sia oggetto della previsione normativa.

D'altra parte, non sarebbe esatto - ad avviso dell'interveniente-che il testimone nel caso in esame sarebbe costretto al dilemma di autoaccusarsi o di esporsi alla responsabilità penale per falsa testimonianza, in quanto l'art. 384, primo comma, c.p. dispone che non é punibile chi ha deposto il falso "per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore", e tale previsione (costituente espressione del principio di cui all'art. 54 c.p. ed operante, quindi, come causa di esclusione della stessa antigiuridicità) ricomprenderebbe l'ipotesi considerata dal giudice a quo. Né si potrebbe obiettare che tale causa di giustificazione offre una tutela meno intensa di quella che sarebbe ottenibile attraverso la previsione, nel caso considerato, di una incapacità a testimoniare (o di una facoltà di astensione), giacché l'apprezzamento della congruità della tutela rientra nella discrezionalità del legislatore.

Né infine si ravvisa contrasto con l'art. 24, comma secondo, Cost., in quanto il teste, sotto l'usbergo dell'art. 384, comma primo, c.p. é libero di tenere un comportamento che non pregiudichi la sua difesa in sede penale. Che se poi egli preferisce, per sue ragioni personali, deporre il vero nella causa civile e nuocere in tal guisa alla propria difesa nell'altra sede, ciò non é dovuto ad una (costituzionalmente illegittima) lacuna normativa, ma ad una libera scelta.

3.2. - Nel corso della pubblica udienza dell'8 marzo 1983, nella quale il giudice Andrioli ha svolto la relazione, l'avv. dello Stato Caramazza ha illustrato argomentazioni svolte e conclusioni formulate nell'atto d'intervento.

Considerato in diritto

4. - Fermo che il giudizio di diffamazione (lo attesta lo stesso giudice a quo) é stato definito per sopravvenuta amnistia, non sussiste violazione del principio d'eguaglianza perché non sono giuridicamente comparabili e, ancor meno equiparabili la posizione dell'imputato nel processo penale e la situazione della parte e del legittimato all'intervento nel processo civile: una cosa é: nemo testis in causa propria cui s'ispira l'art. 246 c.p.c., e altra cosa é: nemo tenetur edere contra se, che permea il novellato art. 304 c.p.p..

Né l'imputato di falsa testimonianza può dirsi offeso nel diritto di difesa per essere costretto al dilemma di autoaccusarsi o di esporsi a responsabilità penale per falsa testimonianza perché gli soccorrerebbe l'art. 384 comma primo c.p. e, più a monte, l'art. 376 c.p.p.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di costituzionalità dell'art. 246 c.p.c., in relazione all'art. 384, comma secondo c.p. e in riferimento agli artt. 3 e 24, comma secondo Cost. sollevata dal Tribunale di Torino con ordinanza 5 novembre 1976 (n. 725 R.O. 1976).

Così deciso in Roma nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 marzo 1983.

Leopoldo ELIA – Antonino DE STEFANO - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO – Ettore GALLO

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 7 aprile 1983.