Sentenza n. 83 del 1983

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SENTENZA N. 83

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Prof. Livio PALADIN

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, della legge 11 aprile 1950, n. 130 (Miglioramenti economici ai dipendenti statali), come modificato dall'art. 8 della legge 8 aprile 1952, n. 212, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 16 dicembre 1975 dal Consiglio di Stato-Sezione IV giurisdizionale -sul ricorso proposto da Dodero Maria in Leo contro il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, iscritta al n. 560 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 260 del 29 settembre 1976;

2) ordinanza emessa l'11 febbraio 1981 dal TAR per l'Emilia Romagna - sede di Bologna - sul ricorso proposto da Negroni Gabriella contro l'Ente Ospedaliero regionale Ospedali di Bologna, iscritta al n. 674 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19 del 20 gennaio 1982;

3) ordinanza emessa il 23 giugno 1981 dal Consiglio di Stato-Sezione IV giurisdizionale - sul ricorso proposto dal Ministero del Tesoro - Ufficio liquidazione del CIVIS contro Catalani Rosina, iscritta al n. 169 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 248 dell'8 settembre 1982.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 22 febbraio 1983 il Giudice relatore Antonio La Pergola;

udito l'avvocato dello Stato Stefano Onofrio, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa il 16 dicembre 1975 la IV Sezione del Consiglio di Stato, sul ricorso di Dodero Maria in Leo contro il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, legge 11 aprile 1950, n. 130, in riferimento agli artt. 3, 36, 37 e 38 Cost.

La signora Dodero, capo ufficio presso il Ministero delle Poste, in seguito alla sospensione della corresponsione delle quote di aggiunta di famiglia a lei spettanti, durante lo stato di disoccupazione del marito, aveva proposto ricorso avanti all'anzidetto organo giudicante, sollevando fra l'altro questione di costituzionalità della normativa, in base alla quale la concessione delle quote in questione al personale femminile, in relazione ai figli minorenni, deve, dopo ogni due anni, essere sospesa per un anno.

Il quarto comma dell'art. 4 della legge n. 130 del 1950 prevede che al personale femminile coniugato spettino le quote complementari di carovita (denominate poi dall'art. 4 del d.P.R. n. 767 del 1955 quote di aggiunta di famiglia) per i figli minorenni, quando sia provato lo stato di disoccupazione del marito, nei modi previsti da apposito regolamento. I1 successivo comma prevede che il regolamento stabilisce il periodo di disoccupazione, dopo il quale sorge il diritto a percepire le suddette quote e la durata massima delle loro corresponsioni.

Il suddetto regolamento emanato con d.P.R. 3 giugno 1955, n. 592, dispone appunto che la corresponsione non può avvenire per più di due anni e non può essere ripetuta se non dopo un anno. Ritiene il Consiglio di Stato che la fonte della limitazione nel tempo della corresponsione non é il regolamento, bensì l'art. 4 della legge n. 130 che l'impone. É quindi denunciata la suddetta norma. Le norme di raffronto invocate sono gli artt. 3, 36, 37 e 38 Cost.

In particolare si deduce la violazione dell'art. 37. Questo precetto estende al campo del lavoro il principio di eguaglianza sancito nell'art. 3, del quale pure si asserisce la lesione, e così statuisce che la donna lavoratrice abbia gli stessi diritti e, a parità di lavoro, la stessa retribuzione spettante al lavoratore uomo. Si assume violato altresì l'art. 36, che garantisce senza distinzione di sesso al lavoratore una retribuzione che assicuri anche alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La rilevanza della questione risulta dal fatto che, se la norma denunciata fosse dichiarata incostituzionale, risulterebbe illegittima anche la norma regolamentare verso cui é insorta la ricorrente.

Il Presidente del Consiglio, intervenuto per tramite dell'Avvocatura dello Stato, deduce l'infondatezza della questione. Rileva anzitutto l'Avvocatura che la norma denunciata é contenuta nell'art. 8 della legge n. 130 del 1950 e non nell'art. 4; osserva poi che le quote di aggiunta di famiglia non possono rientrare nel concetto di retribuzione. Esse rappresentano un beneficio di misura uguale per tutti i dipendenti e quindi non collegato alla retribuzione e al lavoro svolto, ma solo al carico familiare. Perciò non sussisterebbe la violazione dell'art. 36 Cost.

Quanto alla lamentata lesione degli artt. 37 e 38, si deduce che il riferimento a detti parametri sarebbe inconferente, l'art. 37 attenendo ai diritti della donna solo nell'ambito del rapporto di lavoro, e l'art. 38, dal canto suo, coprendo i soli meccanismi assicurativi nei confronti della disoccupazione (involontaria) del lavoratore: per modo che la disciplina di specie é estranea all'ambito dell'una e dell'altra statuizione costituzionale. Il nocciolo della questione sta dunque, a giudizio dell'Avvocatura, nel preteso contrasto con l'art. 3 Cost.

Ciò premesso, si afferma che nei rapporti economici connessi allo status familiare la legge deve tener conto della posizione differenziata del coniuge maschio ai limitati effetti della distribuzione e del godimento di talune previdenze. A tale esigenza sarebbero appunto ispirate le norme sulle quote di aggiunta di famiglia, che prevedono come usuale il beneficio per la moglie a carico. La moglie viene cioè considerata a carico del marito, prescindendo dal suo stato di disoccupazione; la norma censurata invece esclude l'aggiunta per il marito disoccupato, prevedendola solo per i figli. Solo eccezionalmente la disoccupazione del marito assume rilevanza; il sistema prevede però che ciò possa accadere solo per un tempo limitato, sia per evitare eccessivi oneri, sia per il sospetto relativo alla volontarietà di una disoccupazione permanente.

L'Avvocatura si richiama poi ad alcune pronunce rese nel 1972 da questa Corte. Ivi si affermava che data l'organizzazione della società fosse razionale, ai fini della pensione di reversibilità, il richiedere lo stato di invalidità per il marito e non per la moglie.

2. - Con ordinanza emessa l'11 febbraio 1981 su ricorso proposto da Negroni Gabriella contro l'Ente ospedaliero regionale Ospedali di Bologna, il TAR dell'Emilia Romagna ha sollevato questione di costituzionalità della medesima norma, in riferimento al medesimo parametro costituzionale.

La suddetta Negroni richiedeva all'amministrazione ospedaliera di cui sopra la corresponsione delle quote complementari di famiglia per le due figlie minorenni.

L'amministrazione si richiamava però al dettato dell'art. 4 del d.P.R. n. 592 del 1955, in base al quale tale corresponsione deve interrompersi per un anno ogni due anni. La Negroni ricorreva allora al TAR chiedendo fra l'altro che venisse sollevata la questione di costituzionalità di tale ultima norma.

Il TAR rileva - al pari del Consiglio di Stato nell'ordinanza del 1975 - che la fonte originaria della limitazione temporale é non nella norma regolamentare, ma in quella legislativa, riguardo alla quale si prospetta la presente questione di costituzionalità.

Richiamata l'ordinanza emessa dal Consiglio di Stato nel 1975, il TAR Emilia ricorda che questa Corte con sentenza n. 105 del 1980, ha dichiarato l'incostituzionalità di altra norma per la parte in cui non disponeva che gli assegni familiari spettanti per i figli a carico competessero in alternativa alla donna lavoratrice qualora il marito presti attività lavorativa, anche se questa non dia titolo ai detti assegni. Con la stessa sentenza é stata altresì dichiarata incostituzionale la norma che prevedeva che gli assegni per il coniuge a carico spettassero alla moglie solo in caso di invalidità del marito.

La rilevanza della questione é motivata negli stessi termini della precedente ordinanza.

Non interviene in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri.

Si é invece costituita, fuori termine, la parte privata ricorrente, la quale confida che la Corte, sulla base della propria recente giurisprudenza dichiari fondata la questione.

In prossimità dell'udienza, la difesa della stessa parte privata ha prodotto una memoria aggiuntiva, ribadendo le deduzioni già svolte.

3. - Identica questione é sollevata dalla IV Sezione del Consiglio di Stato su ricorso proposto dal Ministero del Tesoro - Ufficio liquidante del CIVIS contro Catalani Rosina, con ordinanza emessa il 23 giugno 1981 e pervenuta alla Corte il 9 marzo 1982.

La Catalani, dipendente del Centro italiano viaggi istruzione studenti, soppresso con d.P.R. 4 luglio 1977 e trasferito dall'1 gennaio 1978 con il proprio personale all'opera universitaria dell'Università di Roma, impugnava davanti al TAR del Lazio i provvedimenti (adottati dall'amministrazione) di sospensione dell'erogazione in suo favore delle quote di aggiunta dal 16 settembre 1974 al 15 ottobre 1975, con conseguente trattenuta sullo stipendio per il recupero della somma già erogatale nel periodo dal settembre 74 al maggio 75.

Il TAR Lazio, ritenendo che le quote erogate alla ricorrente avessero natura diversa da quelle di aggiunta e accogliendo il ricorso, affermava che la norma, ora oggetto del sindacato di costituzionalità, non era applicabile al caso di specie e riconosceva il diritto della Catalani a percepire continuativamente le quote in contestazione.

Contro tale decisione proponeva appello il Ministero del Tesoro, rilevando che le quote in questione hanno assunto la denominazione di quote di aggiunta di famiglia, in base all'art. 4 del d.P.R. n. 767 del 1955. La Catalani, che non si é costituita davanti al Consiglio di Stato, aveva fra l'altro sollevato nel giudizio di primo grado la questione di costituzionalità della norma ora denunciata in riferimento però al solo art. 3 Cost.

Quanto alla rilevanza della questione, osserva il Consiglio di Stato che dalla caducazione dell'art. 4 legge n. 130 del 1950 deriverebbe il diritto dell'interessata a percepire la suddetta quota senza limiti temporali. Il giudice a quo rileva in proposito che il regolamento del personale del CIVIS attribuisce il diritto alle suddette quote alle stesse condizioni e allo stesso titolo del personale statale. Posto ciò, la norma denunciata contrasterebbe oltre che con l'art. 3, con gli artt. 36 e 37 Cost.

L'argomentazione é identica a quella addotta dallo stesso Consiglio di Stato nel 1975. In più si aggiunge in conclusione che la diversità di trattamento non trova più giustificazione in base agli artt. 143 e 147 del Codice Civile, come riformati dalla legge n. 151 del 1975, in forza dei quali l'obbligo di contribuire ai bisogni familiari compete ad entrambi i coniugi che col matrimonio acquistano uguali diritti ed assumono identici doveri.

In quest'ultimo giudizio non é intervenuto il Presidente del Consiglio, né si é costituita alcuna parte privata.

4. - All'udienza pubblica del 22 febbraio 1983 l'Avvocatura dello Stato ha ribadito le conclusioni già prese in ordine alla questione sollevata con ordinanza 16 dicembre 1975 della IV Sezione del Consiglio di Stato.

Considerato in diritto

 

1. - Le questioni proposte con le tre ordinanze in esame, rispettivamente emesse il 16 dicembre 1975 (560/76) ed il 23 giugno 1981 (169/82) dalla IV Sezione del Consiglio di Stato e l'11 febbraio 1981 (674/81) dal Tribunale amministrativo dell'Emilia-Romagna, hanno per oggetto l'art. 4 della legge 11 aprile 1950, n. 130, come modificato dall'art. 8 della legge 8 aprile 1952, n. 212. Tale norma é censurata nella parte in cui- dopo aver, al quarto comma, disposto che "al personale femminile coniugato spettano le quote complementari di carovita per la prole minorenne, quando sia data la prova della disoccupazione del marito nei modi stabiliti da apposito regolamento" - così, al quinto comma, statuisce "il regolamento stesso stabilirà il periodo di tempo di disoccupazione dopo il quale sorge il diritto a percepire le quote complementari e la durata massima di corresponsione delle quote medesime".

La normazione regolamentare prevista nel censurato disposto di legge é stata emanata con il d.P.R. 3 giugno 1955, n. 592; e di tale decreto qui interessa l'art. 4. Ivi é detto che le quote in parola non possono essere corrisposte per un periodo superiore ad anni due e che la corresponsione non può ripetersi se non sia trascorso almeno un anno dal periodo suddetto. Altra norma, contenuta nel d.P.R. 767 del 17 agosto 1955, ha successivamente stabilito che le quote complementari d'indennità di carovita assumono la denominazione di "quote aggiunta di famiglia", lasciando ferma la disciplina della loro attribuzione e misura.

Nelle ordinanze di rinvio si assume che la limitazione concernente il periodo in cui le quote di aggiunta sono corrisposte al personale femminile trovi la sua "fonte originaria" nel citato art. 8 della legge n. 212 del 1952: così viene all'esame della Corte detta norma, sulla quale, appunto, riposa la disposizione regolamentare, che governa il caso di specie.

La questione si prospetta per aver il legislatore consentito un'indebita restrizione dei diritti garantiti secondo Costituzione alla donna lavoratrice, com'è qui di seguito precisato:

a) In ciascuna delle ordinanze in esame é in primo luogo dedotta la violazione dell'art. 3 Cost. Il diritto alle quote per la prole a carico - si osserva al riguardo - é limitato, nei confronti del personale femminile, ad un periodo massimo, che non vien fatto coincidere con l'intera durata dello stato di disoccupazione del coniuge, mentre corrispondenti limitazioni di ordine temporale non sono previste per l'ipotesi in cui le stesse quote vengono erogate al marito (cfr. art. 2, quinto comma, del decreto legislativo luogotenenziale 21 novembre 1945, n. 722, e successive modificazioni, ("Provvedimenti economici a favore dei dipendenti statali")). La differenza di trattamento disposta per il personale femminile sarebbe priva di ragionevole giustificazione e quindi lesiva del principio di eguaglianza. Tale conclusione, si soggiunge, la Corte ha del resto già raggiunto in analoghi casi, col pronunziare l'illegittimità costituzionale di altre disposizioni di legge (artt. 3, primo comma, e 6 del d.P.R. n. 767 del 1955), le quali ammettevano la donna lavoratrice a fruire degli assegni di famiglia per i figli a carico in condizioni di non parità rispetto al marito.

b) Le considerazioni testé esposte gioverebbero anche a denunziare l'inosservanza dell'art. 37 Cost. delineata nelle ordinanze di rinvio sull'assunto che quest'ultimo precetto del testo fondamentale costituisca esplicazione del principio di eguaglianza, con specifico riferimento ai diritti e alla retribuzione della donna lavoratrice.

c) Si assume poi leso l'art. 36 Cost., in quanto - il rilievo, va precisato, é svolto nella sola ordinanza (169/82) della IV Sezione del Consiglio di Stato - "il diritto del lavoratore ad ottenere una retribuzione sufficiente ad assicurare a lui stesso ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa non consente alcuna discriminazione tra i due sessi". Una simile discriminazione opererebbe, tuttavia, proprio nel caso in esame, e del tutto ingiustificatamente, dal momento che la norma censurata non trae supporto da alcuna corrispondenza al sistema del codice civile, in cui la piena parità dei coniugi é sancita anche in ordine agli obblighi loro imposti nei riguardi della prole.

d) Nelle ordinanze (560/76 e 169/82) della IV Sezione del Consiglio di Stato e del TAR Emilia Romagna (674/81) é infine adombrata l'ipotesi che la lamentata discriminazione della donna lavoratrice rilevi anche sul terreno previdenziale, con il risultato di vulnerare la statuizione dell'art. 38 Cost.

2. - Le ordinanze in epigrafe propongono la stessa questione.

I relativi giudizi sono pertanto riuniti e congiuntamente decisi.

3. - La questione é fondata. Delle censure proposte occorre subito esaminare quella che ha riguardo alla violazione dell'art. 3 Cost., sollevata per prima, in ordine logico, in tutti i giudizi riuniti ai fini della presente decisione. La Corte non ravvisa razionali giustificazioni della disparità che la normativa censurata introduce nel trattamento del personale femminile.

Nelle ordinanze di rinvio si lamenta che la donna lavoratrice fruisca della provvidenza in questione per un periodo necessariamente inferiore alla durata dello stato di disoccupazione del coniuge, laddove analoga limitazione non é disposta per il caso in cui le quote siano percepite dal marito.

Non si contesta, dunque, che l'erogazione delle quote alla moglie possa essere ragionevolmente subordinata alla circostanza che il marito sia sprovvisto, ai sensi della legge, delle risorse derivanti dall'attività lavorativa. Né si contesta che lo stato di disoccupazione del coniuge debba essere accertato nei modi stabiliti dall'apposito regolamento, cui la legge rinvia. La lesione dell'art. 3 Cost., com'è prospettata alla Corte, consiste, allora, propriamente in ciò: che, pur essendo il beneficio in discorso concesso al personale femminile, esso é tuttavia previsto per un periodo limitato e discontinuo, che comunque non copre l'intera durata della disoccupazione del coniuge. Ora, non può negarsi che per questo verso sussiste la dedotta irrazionalità della previsione normativa. La corresponsione della quota alla moglie presuppone, certo, lo stato di disoccupazione del marito; ma se, e fino a quando questo presupposto risulta sussistere l'erogazione del beneficio deve essere continua. La norma in esame discrimina invece ai danni della donna lavoratrice, eccettuandone il trattamento dal regime dettato in via generale per i dipendenti dello Stato.

Vanno così disattese le deduzioni del Presidente del Consiglio in merito alla questione promossa in data 16 dicembre 1975 dalla IV Sezione del Consiglio di Stato. Si osservava, in quel giudizio, dall'Avvocatura che "la posizione limitatamente differenziata del coniuge maschio", quale risulta dalla normativa in esame, "risponde ad una condizione sociale diffusa e tradizionale"; la scelta del legislatore, si soggiungeva, é giustificata dalla presunzione che a carico del coniuge é normalmente la moglie, non il marito; la disoccupazione del marito, si concludeva, acquista rilevanza eccezionalmente, al solo effetto di corrispondere alla moglie le quote di aggiunta per la prole a carico. Dopo di che, i qui contestati limiti di tempo quanto al godimento di tale beneficio dovrebbero ritenersi posti razionalmente, di fronte "all'eventualità di un ininterrotto o permanente periodo di sovvertimento della condizione normale del marito, la cui disoccupazione non può essere cronica".

Così ragionando, però, si trascura che nella specie ci troviamo, dopotutto, di fronte ad una provvidenza per i figli minori. Deve dunque tenersi in conto la tutela del nucleo familiare, la quale esige che, accertato lo stato di disoccupazione del padre, le quote di aggiunta siano per tutta la sua durata percepite dalla madre lavoratrice, ed in condizioni di eguaglianza rispetto all'altro genitore. A parte ciò, la presunzione dalla quale muove l'Avvocatura riguardo alle rispettive posizioni del marito e della moglie nel mantenimento reciproco - e quel che qui importa, nei confronti della prole a carico - é contraddetta dall'evoluzione intanto intervenuta nell'assetto socio-economico del paese. Questa nuova realtà - é stato in precedenti pronunzie affermato (sentenze nn. 6 e 105 del 1980) - si rispecchia nella più recente legislazione, decisamente ispirata, in conformità ed attuazione del testo fondamentale, al criterio di eguagliare le situazioni dell'uomo e della donna. Basti ricordare l'art. 143 codice civile, come sostituito dall'art. 24 della legge sulla riforma del diritto di famiglia 19 maggio 1975, n. 151 e l'art. 9 della legge 9 dicembre 1977, n. 903. Quest'ultima disposizione statuisce, invero, che "gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia, le maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico possono essere corrisposti, in alternativa, alla donna lavoratrice o pensionata alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore o pensionato".

4. - Ingiustificatamente, dunque, la norma censurata deroga al coevo trattamento dei dipendenti statali. Essa vulnera il principio di eguaglianza, in quanto detta per la donna un regime meno favorevole di quello riservato al coniuge e ciò nella sfera, in cui la moglie assolve con il proprio lavoro - a pari titolo del marito, che non fosse disoccupato - i compiti affidati ai genitori nei confronti della prole. In definitiva, occorre poi osservare, viene in rilievo anche l'esigenza di ricondurre il caso di specie sotto i criteri stabiliti nella testé ricordata norma del 1977, la quale ha nell'ambito temporale della sua previsione ormai adeguato il vigente ordinamento all'invocato disposto costituzionale. Il che conferma la conclusione sopra raggiunta.

La Corte é così dispensata dall'occuparsi delle ulteriori censure formulate nell'ordinanza di rinvio.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, della legge 11 aprile 1950, n. 130, "Miglioramenti economici ai dipendenti statali" come modificato dall'art. 8 della legge 8 aprile 1952, n. 212, "Revisione del trattamento economico dei dipendenti statali".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 marzo 1983.

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO – Ettore GALLO

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 7 aprile 1983.