Sentenza n. 57 del 1983

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SENTENZA N. 57

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALUGINI

Prof. Livio PALADIN

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 290 cod. pen. (Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate) promosso con ordinanza emessa il 18 marzo 1976 dal giudice istruttore del Tribunale di Torino, nel procedimento penale a carico di Mola di Nomaglio Gustavo ed altri, iscritta al n. 386 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 164 del 23 giugno 1976.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 25 gennaio 1983 il Giudice relatore Livio Paladin;

udito l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel procedimento penale a carico di Gustavo Mola di Nomaglio ed altri, imputati per aver distribuito un volantino vilipendioso nei confronti del Parlamento riunito in seduta comune per l'elezione del Capo dello Stato, il giudice istruttore del Tribunale di Torino - con ordinanza del 18 marzo 1976 - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 290 cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost..

Secondo il giudice a quo, la norma impugnata, nel sanzionare il vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate, pur menzionando "le Assemblee legislative" non includerebbe fra gli organi costituzionali meritevoli di tutela il Parlamento in seduta comune, nella composizione prevista dall'art. 83 cpv. Cost. per eleggere il Presidente della Repubblica: "la tutela penale" - osserva infatti l'ordinanza di rimessione - "esige l'esistenza di una norma e non interpretazioni analogiche o estensive senza pregiudizio per la posizione dell'imputato, incompatibile con il principio posto dall'art 25, 2 comma, della Costituzione". Con ciò, tuttavia, verrebbe messo "in discussione lo stesso fondamento dell'art. 290, quanto meno nella parte in cui, non prevedendo l'organo di cui all'art. 83 della Costituzione, crea una disparità di trattamento fra organi costituzionali, e soprattutto crea una disparità di trattamento fra l'autore dell'offesa ad una sola o ad entrambe le Camere e l'autore dell'offesa alle Camere riunite integrate dai delegati regionali".

L'elencazione dell'art. 290 risulterebbe, inoltre, carente per l'omessa inclusione tra i soggetti tutelati di "un organo costituzionale quale il popolo italiano, inteso come corpo elettorale, come soggetto titolare dell'iniziativa legislativa, del potere abrogativo delle leggi attraverso il referendum, come partecipe dell'attività giurisdizionale, ecc.". Il che starebbe ulteriormente a dimostrare "la fragilità e l'inconsistenza della previsione penale, insufficiente" - si afferma - "per le finalità menzionate dalla Corte nella sentenza n. 20 del 1974 e contrastante con lo spirito e la lettera dell'art. 21 della Costituzione".

In punto di rilevanza - di fronte alla richiesta d'improcedibilità dal P.M., per mancanza dell'autorizzazione a procedere prevista dall'art. 313 cod. pen. (autorizzazione concessa nella specie dal solo Senato e negata dalla Camera dei deputati) - il giudice a quo precisa che l'impugnativa risponderebbe all'esigenza di stabilire preliminarmente se l'improcedibilità sia dovuta "al dato della mancanza di autorizzazione o non invece dalla insussistenza della fattispecie criminosa": "insussistenza che potrebbe realizzarsi attraverso la dichiarazione di illegittimità della norma impugnata".

2. - É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, eccependo preliminarmente l'inammissibilità della questione per difetto di rilevanza. Per prima cosa, infatti, "la declaratoria d'illegittimità costituzionale dell'impugnato articolo 290 non potrebbe avere... alcuna incidenza sulla decisione riservata al giudice a quo", non essendo comunque esercitabile l'azione penale di fronte al diniego di autorizzazione a procedere da parte della Camera (né avendo il giudice stesso ritenuto sufficiente, nella specie, l'autorizzazione data dal solo Senato). Secondariamente, un'eventuale sentenza di accoglimento non influirebbe mai sulla definizione del procedimento penale pendente, per l'ulteriore ragione che "essa eliminerebbe fatti diversi da quelli addebitati agli imputati"; e non potrebbe d'altronde, neanche se estendesse l'ambito attuale dell'incriminazione, trovare applicazione nel processo a quo, poiché osterebbe il disposto dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione.

Nel merito, però, l'Avvocatura dello Stato afferma che la norma denunziata si riferirebbe allo stesso Parlamento in seduta comune: il che verrebbe ad escludere la pretesa violazione del principio d'eguaglianza. Ed anche per ciò che riguarda il vilipendio del popolo italiano, l'art. 3 Cost. non sarebbe contraddetto, nemmeno a voler ritenere che un'offesa del genere non si risolva - secondo l'interpretazione preferibile - nel già previsto vilipendio della Repubblica

Quanto infine alla questione sollevata in riferimento all'art. 21 Cost., il precedente rappresentato dalla sentenza di rigetto n. 20 del 1974 imporrebbe di considerarla manifestamente infondata.

Considerato in diritto

In base alla premessa interpretativa che l'art. 290 cod. pen. non preveda e non sanzioni il vilipendio del Parlamento in seduta comune, nella particolare composizione prescritta dall'art. 83 cpv. Cost., il giudice istruttore del Tribunale di Torino ha impugnato la norma stessa, per preteso contrasto con gli artt. 3 e 21 della Costituzione. Ma la questione va dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, in accoglimento dell'eccezione proposta dall'Avvocatura dello Stato.

Effettivamente, il giudice a quo non ha contestato in nessun modo la legittimità costituzionale dell'art. 313, terzo comma, cod. pen., in forza del quale, "per il delitto preveduto dall'art. 290, quando é commesso... contro le Assemblee legislative o una di queste, non si può procedere senza l'autorizzazione dell'Assemblea contro la quale il vilipendio é diretto". Nella specie, su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, l'autorizzazione é stata per altro concessa dal solo Senato della Repubblica, nella seduta del 14 dicembre 1972; mentre la Camera dei deputati l'ha invece negata, mediante una deliberazione assembleare del 26 novembre 1974. Ed in presenza d'una ipotesi di vilipendio riguardante il Parlamento in seduta comune deve comunque ritenersi che l'autorizzazione del solo Senato non basti allo scopo: come, del resto, hanno implicitamente reputato le assemblee parlamentari e come, a sua volta, il giudice a quo, non ha affatto messo in dubbio nella sua ordinanza.

In tali circostanze, la presente decisione della Corte non può non ricalcare le conclusioni già raggiunte dalla sentenza n. 20 del 1974. Anche in quell'occasione, il giudice a quo sosteneva - al pari del giudice istruttore del Tribunale di Torino - che la mancanza dell'autorizzazione non escludesse la rilevanza della questione di legittimità della norma penale sostanziale denunziata, in quanto, in caso di dichiarata incostituzionalità di essa, avrebbe dovuto adottarsi "una diversa e più liberatoria formula di proscioglimento". Ma la Corte replicò che la questione stessa appariva "manifestamente irrilevante nel giudizio di merito in corso". E, nel medesimo senso, va ora riaffermato che l'autorizzazione di cui al terzo comma dell'art. 313 cod. pen. rappresenta una condizione indispensabile, in difetto della quale l'azione penale non può essere proseguita: con la conseguenza che al giudice a quo resta preclusa (come la Corte ha affermato già nella sentenza n. 17 del 1973) "qualsiasi indagine e pronuncia di merito".

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 290 cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 21 Cost., sollevata dal giudice istruttore del Tribunale di Torino con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 1983.

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO -  Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALUGINI - Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO.

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 16 marzo 1983.