Sentenza n.188 del 1982
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SENTENZA N. 188

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE         

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Prof. Giovanni CONSO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 76 del d.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162 (norme per la repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio dei mosti, vini ed aceti) promossi con le ordinanze emesse: il 16 ottobre 1979 dalla Corte d'appello di Lecce, il 18 gennaio 1980 dal Tribunale di Ravenna, il 3 aprile e il 25 marzo 1980 dalla Corte d'appello di Lecce, il 20 maggio 1980 dalla Corte d'appello di Bologna, il 7 maggio 1980 dalla Corte d'appello di Torino, il 13 e il 9 maggio 1980 dalla Corte d'appello di Lecce, il 5 giugno 1980 dal Tribunale di Bologna (due ordinanze), il 23 maggio 1980 dal Tribunale di Ravenna, il 19 giugno 1980 dalla Corte d'appello di Brescia, il 10 ottobre 1980 dal Tribunale di Ravenna, il 10 ottobre 1980 dalla Corte d'appello di Lecce, il 24 ottobre 1980 (cinque ordinanze) e il 4 novembre 1980 dal Tribunale di Ravenna, il 6 gennaio 1981 dal Tribunale di Ferrara, il 15 dicembre 1980 dal Tribunale di Ravenna, il 6 novembre 1980 e il 6 febbraio 1981 dal Tribunale di Lecce, il 13 febbraio 1981 dal Tribunale di Ravenna, il 20 marzo 1981 dal Tribunale di Lecce, l'11 dicembre 1980 dalla Corte d'appello di Bologna, il 3 marzo 1981 dal Tribunale di Brindisi, il 6 marzo 1981 dal Tribunale di Alba, il 22 maggio e il 22 giugno 1981 dal Tribunale di Lecce, il 12 giugno 1981 dalla Corte d'appello di Torino, il 9 luglio 1981 dal Tribunale di Mantova, il 7 ottobre 1981 dalla Corte d'appello di Bologna e il 12 ottobre 1981 dal Tribunale di Lecce, rispettivamente iscritte al n. 992 del registro ordinanze 1979, ai nn. 113, 362, 363, 476, 492, 564, 605, 660, 661, 701, 778, 814, 815, 818, 819, 820, 821, 822 e 867 del registro ordinanze 1980 ed ai nn. 81, 115, 181, 217, 301, 392, 441, 453, 548, 613, 614, 625, 678, 719 e 809 del registro ordinanze 1981 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 71, 118, 173, 242, 263, 284, 304, 311 e 325 del 1980, nn. 6, 41, 56, 98, 123, 165, 227, 262, 269, 290 e 325 del 1981 e nn. 12, 19, 26, 47 e 82 del 1982.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 1 giugno 1982 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari;

udito l'avvocato dello Stato Pier Giorgio Ferri, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con 35 ordinanze di rimessione si solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 76 del d.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162, recante "norme per la repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio dei mosti, vini e aceti", in riferimento all'art. 3 Cost. In tutte le ordinanze sostanzialmente si afferma che la previsione di un'identica sanzione sia per l'ipotesi di preparazione di vino (c.d. "industriale", "sintetico" o "artificiale") con soluzioni zuccherine o fecce di vino o vinaccia d'uva, sia per quella - diversa e meno grave - di aggiunta di zucchero a vino genuino al solo scopo di migliorarne le qualità organolettiche o di aumentarne la gradazione alcolica, porrebbe "sullo stesso piano categorie diverse di cittadini che commettono fatti di diversa gravità" e violerebbe "il principio razionale di proporzionalità della pena al fatto" cui il legislatore non può sottrarsi neppure nell'esercizio del suo potere discrezionale. Invero la prima ipotesi, non a caso considerata semplice contravvenzione dalla legislazione anteriore, é sicuramente diversa e molto meno allarmante della seconda.

In talune ordinanze si afferma, inoltre, che l'incostituzionalità della norma sotto il profilo illustrato sarebbe ancor più evidente, in quanto la pena pecuniaria prevista in aggiunta alla pena detentiva é stabilita in misura fissa, e perciò non sarebbe al giudice neppure consentito di adeguarla in concreto alla diversa gravità del fatto.

2. - La Corte d'appello di Lecce, con cinque identiche ordinanze, solleva l'ulteriore questione di legittimità costituzionale della stessa norma in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione. In tutte si afferma testualmente che la Corte d'appello "pur non ignorando precedenti decisioni della Corte costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione, non può fare a meno di rilevare che l'art. 76 del citato d.P.R. n. 162 del 1965, nel vietare in modo assoluto, anche per la correzione di vini naturali, l'impiego di sostanze zuccherine, travalica i limiti dell'art. 2, comma primo, della legge 9 ottobre 1964, n. 991, con la quale si imponeva al Governo delegato di tener conto dell'attuale disciplina legislativa della materia negli Stati aderenti alla Comunità Economica Europea, e ciò all'evidente scopo di non porre i produttori italiani in condizione di sfavore rispetto ai produttori di alcuni altri Stati comunitari in cui é consentito lo zuccheraggio dei vini".

3. - Con undici identiche ordinanze del Tribunale di Ravenna e con due ordinanze del Tribunale di Bologna la norma in questione viene invece denunciata in riferimento, oltre che all'art. 3, anche agli artt. 11 e 41 della Costituzione.

Premesso che in base all'art. 189, primo comma, del Trattato istitutivo della Comunità europea, reso esecutivo con la legge 14 ottobre 1957, n. 1203, é prevista l'emanazione di regolamenti e direttive, nelle ordinanze si afferma che i regolamenti - a differenza delle "direttive" - sono direttamente ed immediatamente applicabili nell'ambito degli ordinamenti giuridici interni dei singoli Stati membri senza che sia necessario alcun provvedimento interno a carattere riproduttivo o esecutivo, "sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari".

Ora, continuano le ordinanze, in materia vinicola esistono numerosi regolamenti che riconoscono agli Stati membri la possibilità di zuccherare il vino, onde lo zuccheraggio é da considerarsi operazione pienamente lecita durante la vinificazione, purché effettuato nel rispetto di quanto dai regolamenti stessi disposto.

La diversa disciplina vigente nello Stato italiano, che considera reato l'impiego dello zucchero, confliggerebbe dunque con gli artt. 11, 41 e 3 Cost. in quanto limiterebbe "indiscriminatamente l'iniziativa privata del singolo che nell'ambito del territorio nazionale non può offrire prodotto vinoso corretto con zucchero, mentre nell'ambito del mercato intercomunitario il commercio del vino zuccherato é consentito dai regolamenti comunitari". I quali pure certamente si riferiscono anche all'operatore economico italiano, che tuttavia incontra il limite della legislazione statale non aderente ed allineata a quella conunitaria. Né potrebbe obiettarsi che i regolamenti della CEE non impongono alcun limite alla potestà sovrana degli Stati membri di regolare indipendentemente il commercio interno dei propri prodotti. L'affermazione, ad avviso dei giudici a quibus, anziché eliminarli, accrescerebbe i dubbi di legittimità costituzionale, posto che a parte l'impossibilità pratica del rispetto di una duplice disciplina di commercio (interno e inter-comunitario) dovrebbe allora considerarsi "illegale all'interno dello Stato ciò che é legale per la CEE", con conseguente frustrazione del fine perseguito dall'ordinamento comunitario, volto ad assicurare un'uniforme legislazione all'interno della Comunità, e con irragionevole discriminazione dello scambio interno rispetto a quello intercomunitario. Inoltre, siffatta conclusione involgerebbe il quesito se "a fianco del regolamento comunitario, immediatamente operante nell'ordinamento positivo, possa continuare (o formarsi ex novo) una legislazione interna parallela, dal momento che il diritto comunitario ha prevalenza sulle norme interne, anche penali".

Solo il Tribunale di Bologna si sofferma sul senso del riferimento all'art. 11 Cost. che viene considerato "statuizione programmatica circa la parità degli Stati - anche con limitazione di sovranità di taluno di essi - finalizzata ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni in generale". E "i rapporti economici fra gli Stati" - si afferma in modo esclusivo e testuale - "possono essere rilevanti ai fini non solo della giustizia, ma sovente anche della pace fra le Nazioni come é dimostrato tragicamente dalle tante guerre scoppiate per cause squisitamente economiche".

Tutte le ordinanze di cui 5 e appena detto si limitano ad affermare, in ordine alla rilevanza che le questioni "sono anche rilevanti ai fini della decisione della causa".

4. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto con la rappresentanza dell'Avvocatura generale dello Stato in tutti i giudizi, ad eccezione di quelli proposti dalla Corte d'appello di Lecce con ordinanza del 16 ottobre 1979 (r.o. 992/79) e dal Tribunale di Lecce con ordinanze del 6 novembre 1980 (r.o. 181/81) e del 20 marzo 1981 (r.o. 392/81), ha chiesto che tutte le questioni vengano dichiarate "anche manifestamente non fondate".

Quanto all'addotto contrasto dell'impugnato art. 76 con l'art. 3 Cost. sotto il profilo dell'irragionevolezza dell'identità del trattamento sanzionatorio previsto per fattispecie di diversa gravità, l'Avvocatura nega che nella specie vi sia irragionevole sperequazione. Anzitutto si afferma che le sofisticazioni nel settore vinicolo danno luogo per solito a concorso formale di reati (la vinificazione mediante zuccheraggio di vinacce violerebbe, infatti, oltre l'art. 76, quantomeno anche gli artt. 90 e 102 del d.P.R. n. 162 del 1965 e lo stesso codice penale), sicché non può correttamente aversi riguardo alla sola norma impugnata. In realtà l'art. 76 avrebbe sanzionato la pratica enologica dello zuccheraggio nella sua oggettività in relazione all'impossibilità di accertare ex post, neppure attraverso l'analisi chimica, se il prodotto ottenuto con lo zuccheraggio derivi da vino genuino ovvero da vinacce o fecce, ed all'esigenza di tutelare la produzione vinicola meridionale, l'impiego dei cui "mosti da taglio" é alternativo a quello dello zucchero.

La normativa vigente, che combatte il fenomeno delle sofisticazioni assai più efficacemente di quanto non avvenisse in precedenza, avrebbe del resto sortito risultati positivi anche sulle esportazioni del vino italiano, onde un eventuale "passo indietro" sarebbe non poco dannoso.

Si osserva infine che il legislatore, fissando il minimo edittale in tre mesi ed il massimo in cinque anni di reclusione, ha lasciato al giudice penale ampia latitudine di apprezzamento per la determinazione della pena ex art. 133 c.p.; latitudine ulteriormente estesa dal disposto dell'ultimo comma dello stesso art. 76. E si pone in rilievo che il criterio di determinazione proporzionale della pena pecuniaria é senz'altro aderente a taluni dei criteri indicati dall'art. 133, primo comma, c.p. ("oggetto dell'azione" e "gravità del danno"), mentre l'entità della multa trova in pratica un limite nelle disposizioni in tema di reato continuato.

Quanto alla violazione degli artt. 76 e 77, nonché degli artt. 11, 41 e 3 Cost., l'Avvocatura pone preliminarmente in rilievo l'insufficienza del riferimento ai regolamenti CEE citati nelle ordinanze, dovendo aversi riguardo anche ai regolamenti nn. 337 e 338 del 1979, come successivamente modificati, "i quali hanno abrogato i reg. nn. 816 e 817 del 1970 procedendo insieme con altri regolamenti... ad una codificazione di tutta la materia". Osserva, quindi, che i regolamenti n. 816 del 1970 e n. 337 del 1979 contengono disposizioni che, avendo per destinatari gli Stati membri, pongono limiti al potere degli Stati stessi di autorizzare l'aumento della gradazione alcolica naturale (artt. 18 reg. n. 816 del 1970 e 32 reg. n. 337 del 1979), stabilendo in particolare che l'aumento della gradazione per i mosti e per il "vino nuovo ancora in fermentazione" può essere ottenuto mediante aggiunta di saccarosio "unicamente nelle regioni viticole in cui sia tradizionalmente o eccezionalmente praticato, conformemente alla legislazione (statale) esistente alla data dell'8 luglio 1970", e prevedendo che per il vino da tavola o atto a diventare tale l'aumento della gradazione può ottenersi solo "mediante concentrazione parziale a freddo" e non anche, quindi, mediante aggiunta di saccarosio (artt. 19, par. 1 e 3, reg. n. 816 del 1970 e 33, par. 1 e 3, reg. n. 337 del 1979).

In definitiva, la normativa comunitaria, lungi dal contenere una disciplina particolarmente tollerante, é volta invece ad impedire e a contenere la pratica enologica in questione, vietando lo zuccheraggio "del vino da tavola e del vino atto a diventare vino da tavola" senza possibilità di deroghe e quello "dei mosti e del vino nuovo in corso di fermentazione" salve le disposizioni autorizzative statali ad una certa data (ma solo per delimitate zone viticole, tra le quali, per oggettivi motivi climatici, non é compresa alcuna regione italiana, e solo per la lavorazione di taluni prodotti vinosi).

Non sussiste dunque alcuna violazione dell'art. 76 Cost. (deve infatti ritenersi improprio il riferimento all'art. 77 Cost.) posto che il dovere "di tener conto dell'attuale disciplina legislativa della materia negli Stati aderenti alla CEE e delle norme riguardanti l'attuazione della politica agricola comune" (art. 2, legge 9 ottobre 1964, n. 991) sicuramente non può interpretarsi nel senso di un'imposizione al legislatore delegato di prescegliere, tra le varie possibili, la soluzione più favorevole alla pratica dello zuccheraggio, né degli artt. 41, 11 e 3 Cost., non ponendosi neppure nella specie un problema di compatibilità fra ordinamento interno e comunitario. Ciò senza considerare che l'art. 3, che garantisce l'uguaglianza dei soli cittadini italiani, e l'art. 41, che disciplina l'iniziativa economica privata nel solo ambito nazionale, sono indubbiamente rispettati, applicandosi l'art. 76 del d.P.R. n. 162 del 1965 a tutti i produttori di vino operanti nel territorio nazionale e stabilendo l'art. 41 Cost. che l'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza e, quindi, anche alla salute (art. 32 Cost.), che non sarebbe certo adeguatamente tutelata ove si legittimasse la produzione di vini zuccherati, in quanto tali non genuini.

Tutto quanto sopra giustificherebbe, ad avviso dell'Avvocatura, una pronuncia anche di manifesta infondatezza delle sollevate questioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le questioni su cui la Corte deve pronunciarsi vengono sollevate da diversi giudici, sia di primo, sia di secondo grado, con un nutrito numero di ordinanze - 35, complessivamente -, emesse in un ristretto arco di tempo - poco più di un anno - nelle quali risulta impugnato esclusivamente l'art. 76 del d.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162. Di conseguenza, benché sia fatto riferimento a distinti parametri costituzionali, i relativi giudizi vanno riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - Il decreto presidenziale n. 162 del 1965, recante "norme per la repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio dei mosti, vini ed aceti", dispone all'art. 76, primo comma, che "chiunque, fuori dei casi consentiti nelle operazioni di vinificazione o di manipolazione dei vini, impiega in tutto o in parte alcole, zuccheri o materie zuccherine o fermentate diverse da quelle provenienti dall'uva fresca o leggermente appassita... é punito con la reclusione da 3 mesi a 5 anni e con la multa di lire 100 mila per ogni quintale o frazione di quintale di prodotto sofisticato", soggiungendo al capoverso dello stesso articolo che "salvo quanto stabilito dal precedente comma, chiunque, nelle operazioni di vinificazione e per la conservazione del vino impiega sostanze o esegue trattamenti non previsti dall'art. 5 ovvero impiega le sostanze consentite senza osservare i limiti e i modi stabiliti dallo stesso articolo, é punito con la multa da lire 500 mila a lire 2 milioni". Tutti i giudici a quibus ravvisano nel trascritto articolo due distinte fattispecie criminose, consistenti, l'una nell'aggiunta di sostanze zuccherine (cosiddetto "zuccheraggio") nella preparazione o conservazione di vini o mosti genuini, cioè derivanti dall'uva fresca o leggermente appassita, l'altra nella produzione, sempre mediante l'impiego di materie zuccherine, di vini cosiddetti "artificiali" o "industriali" o "sintetici", cioè non derivanti, neppure in parte, dall'uva, bensì da feccia di vino o vinaccia d'uva. Sulla base di tale interpretazione, della quale questa Corte deve prendere atto, tutte le ordinanze imputano al legislatore, in primo luogo, di avere stabilito per la fattispecie meno grave (zuccheraggio di vino o mosto genuino) una sanzione eguale a quella della fattispecie più grave (produzione di vino artificiale).

3. - Si deve osservare preliminarmente che un cospicuo numero di ordinanze - 19, complessivamente -, in punto di rilevanza non vanno oltre la pura e semplice affermazione dell'esistenza di questa, nel senso che, omettendo ogni cenno al fatto, si limitano a dire che "le questioni di legittimità sollevate, oltre che non manifestamente infondate, sono anche rilevanti ai fini della decisione della causa". Sono pertanto da ritenersi inammissibili per mancanza di motivazione sulla rilevanza: 11 ordinanze emesse dal Tribunale di Ravenna l'11 gennaio 1980 (r.o. 113/1980), il 23 maggio 1980 (r.o. 701/1980), il 10 ottobre 1980 (r.o. 814/1980), il 24 ottobre 1980 (r.o. 818, 819, 820, 821, 822/1980), il 4 novembre 1980 (r.o. 867/1980), il 15 dicembre 1980 (r.o. 115/1981) ed il 13 febbraio 1981 (r.o. 301/1981); 4 ordinanze emesse dal Tribunale di Lecce il 20 marzo 1981 (r.o. 392/1981), il 22 maggio 1981 (r.o. 613/1981), il 22 giugno 1981 (r.o. 614/1981) ed il 12 ottobre 1981 (r.o. 809/1981); due ordinanze emesse dal Tribunale di Bologna il 5 giugno 1980 (r.o. 660 e 661/ 1980); una ordinanza emessa dal Tribunale di Ferrara il 6 gennaio 1981 (r.o. 81/1981); un'ordinanza emessa dal Tribunale di Mantova il 9 luglio 1981 (r.o. 678/1981).

4. - La prima censura da prendersi in considerazione é quella che imputa al legislatore la violazione dell'art. 3 Cost., e più precisamente la violazione del principio razionale di proporzionalità della pena al fatto, avendo disposto una pena eguale - tra un minimo ed un massimo quella detentiva, in misura fissa quella pecuniaria - per due ipotesi completamente diverse tra loro, quali sono, nel concorde avviso dei giudici a quibus, lo zuccheraggio di vino o mosto genuino e la produzione, mediante sostanze zuccherine, di vino artificiale. All'uopo, le ordinanze più elaborate prendono le mosse dalla "legislazione anteriore", osservando che questa - a partire dal regio decreto legge 15 ottobre 1925, n. 2033, convertito nella legge 18 marzo 1926, n. 562, e relativo regolamento di esecuzione, approvato con regio decreto 1 luglio 1926, n. 1361 -configurava come delitto la produzione di vino artificiale e come reato contravvenzionale l'aggiunta di saccarosio al vino genuino. Tale distinzione, cui corrispondevano distinte sanzioni - più grave per il delitto e meno grave per la contravvenzione -, sarebbe rimasta inalterata anche dopo l'emanazione in materia delle leggi 31 luglio 1954, n. 561, e 30 aprile 1962, n. 283, le quali avrebbero modificato, aggravandola, soltanto la misura della sanzione per la produzione di vino artificiale, lasciando integra, come sarebbe stato riconosciuto da una copiosa giurisprudenza della Corte di Cassazione, la differente ipotesi dell'aggiunzione di materie zuccherine ai mosti e vini naturali. É solo con l'impugnato art. 76 del decreto presidenziale n. 162 del 1965 - osservano i giudici a quibus - che, anche secondo l'insegnamento della Corte di Cassazione, le due fattispecie concrete, benché assolutamente diverse tra loro per la diversa gravità, vengono sussunte sotto un'unica fattispecie legale, così da essere punite con eguale pena, e precisamente "con la reclusione da tre mesi a cinque anni e con la multa di lire centomila per ogni quintale o frazione di quintale di prodotto sofisticato". In seguito alla constatazione che così risulta prevista una sanzione eguale, e che, essendo la pena pecuniaria stabilita in misura fissa proporzionale alla quantità del prodotto sofisticato, risulta precluso al giudice di dosare detta pena a seconda della maggiore o minore gravità del fatto, tutte le ordinanze denunciano la violazione del principio costituzionale di parità di trattamento e ricordano, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, che il suddetto principio costituisce limite alla discrezionalità del legislatore.

5. - La questione non é fondata.

La correzione di vino genuino é fatto più lieve della produzione di mosto o vino artificiale: su questa affermazione tutte le ordinanze poggiano il discorso che sbocca nella denunziata illegittimità costituzionale, ma tutte altresì omettono di indicare su quale elemento poggi a sua volta la suddetta affermazione. Insomma, non additano argomenti che convincano della validità oggettiva dell'affermazione sul piano giuridico e, conseguentemente, dell'iniquità ed irrazionalità dell'equiparazione, operata dal legislatore, dei due fatti quoad poenam. L'affermazione appare così apodittica, non potendosi certo dire in contrario che essa perda il carattere di opinione soggettiva, solo perché ampiamente - ma, in verità, ripetitivamente - condivisa da molteplici e varie autorità giudiziarie. Né può riconoscersi valore alla rievocazione della disciplina di un passato troppo diverso, oltre che troppo lontano, dall'attuale periodo, caratterizzato da mutamenti anche in campo industriale e commerciale. Stante, dunque, la mancanza nelle ordinanze di qualsivoglia motivazione dell'assunto, dell'indicazione del metro di valutazione adottato, non può ritenersi - come implicitamente mostrano di ritenere i giudici a quibus - che il legislatore delegato, il quale dispone di organi tecnici altamente qualificati e con il compito istituzionale della raccolta ed elaborazione di tutti gli elementi utili, abbia optato per l'equivalenza sul piano penale dei due fatti, senza la previa ponderazione dei disparati profili che interessano la materia, quali quello industriale, merceologico, tecnico, sanitario, tributario, etc. Al contrario, nella relazione del Ministro per l'agricoltura, che accompagnava il disegno di legge poi approvato - legge n. 991 del 1964 - si pone in evidenza "il progresso delle scienze chimico-biologiche" ai fini dell'alterazione del vino e nella relazione Desana al Senato - terza legislatura - si afferma la esigenza "di rendere le nuove disposizioni più aderenti alle necessità della produzione e del consumo del mondo moderno", di "evitare sofisticazioni di natura economica", nonché "depressioni nel mercato del vino", constatandosi che le "disposizioni emanate da oltre un trentennio" erano "in ritardo notevole con i ritrovati della tecnica e dei progressi della chimica di cui ampiamente si avvalgono i sofisticatori". E, come nella suddetta relazione si parla di "attuazione di una decisa politica alimentare nazionale", così nella relazione Carelli allo stesso Senato - quarta legislatura - si parla di "importanza economica del settore vitivinicolo", che "nel nostro Paese" assume il risalto di "insostituibile componente di un sistema di valori che formano il complesso quadro dell'economia italiana". É tutt'altro che inverosimile, allora, l'osservazione dell'Avvocatura dello Stato, secondo cui l'impugnato art. 76 ha anche lo scopo di tutelare la produzione vinicola meridionale, i cui mosti da taglio vengono impiegati in alternativa alle sostanze zuccherine.

Stante quanto testé rilevato, non può ritenersi irragionevole l'elevazione di entrambi i fatti ad illecito penale della medesima gravità, né violatrice del principio d'eguaglianza la loro equiparazione, quoad poenam, disposta con la legge delegata de qua. Questa, infatti, ha per dichiarato oggetto "la repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio dei mosti, vini ed aceti", e poiché l'accezione "frode" é così ampia, da potervisi ricomprendere qualsiasi alterazione della genuinità di un prodotto, ben può il legislatore, che valuta la materia da un'ottica assai più complessa di quella del giudice, considerare tale la semplice aggiunta di zucchero al mosto o vino genuino, qualunque ne sia la quantità e supposto pure che tale operazione, come si sostiene apoditticamente in parecchie ordinanze, giovi addirittura a migliorare i caratteri organolettici del prodotto.

La conclusione non viene invalidata dalla censura che l'impugnato art. 76, disponendo una pena pecuniaria fissa proporzionale alla quantità del prodotto, non lascia alcun margine alla valutazione dell'organo giudicante e, quindi, al dosaggio da parte sua della sanzione secondo le circostanze del fatto. Supposto pure, infatti, che una pena stabilita in misura fissa - di talché rimane al giudice solo il compito di accertare oggettivamente il fatto - sia per ciò stesso in ogni caso costituzionalmente illegittima - e sull'eguaglianza di fronte alla pena questa Corte ha chiarito gli esatti termini della questione con la sentenza n. 50 del 1980 -, nella specie tale eventualità non si verifica, stante la graduabilità della pena detentiva che é comminata congiuntamente a quella pecuniaria. Né ha maggior pregio l'osservazione che si rinviene in un'ordinanza - in quella emessa il 3 marzo 1981 dal Tribunale di Brindisi (r.o. 453/1981) - secondo cui la produzione di vini industriali é ipotesi più grave, perché questi sono "come tali dannosi alla salute": la disciplina portata dal decreto presidenziale n. 162 del 1965 ha innegabilmente carattere di specialità rispetto al codice penale, ma ciò non impedisce il concorso formale del reato de quo con altri reati previsti dal suddetto codice o da altre leggi speciali che tutelino altri precisi interessi.

6. - Alcune ordinanze, poi, denunziano l'illegittimità costituzionale dell'art. 76 del decreto presidenziale n. 162 del 1965 in riferimento, non più solo all'art. 3 Cost., ma anche "agli artt. 76 e 77 della Carta costituzionale sotto il profilo dell'eccesso di delega", da cui deriverebbero, non solo la equiparazione di "categorie diverse di cittadini che commettono fatti di diversa gravità", ma anche uno squilibrio tra produttori italiani e produttori di quegli Stati comunitari, in cui lo zuccheraggio é consentito. Si tratta di cinque ordinanze emesse dalla Corte d'appello di Lecce il 16 ottobre 1979 (r.o. 992/1979), il 3 aprile 1980 (r.o. 362/1980), il 25 marzo 1980 (r.o. 363/1980), il 9 maggio 1980 (r.o. 605/1980) ed il 10 ottobre 1980 (r.o. 815/1980), e di un'ordinanza emessa dal Tribunale di Lecce il 6 febbraio 1981 (r.o. 217/1981).

É perfettamente uniforme l'argomentazione di tutte le su indicate ordinanze sul punto: l'art. 2, primo comma, della legge di delegazione 9 ottobre 1964, n. 991 demandava al legislatore delegato di "tener conto dell'attuale disciplina legislativa della materia negli Stati aderenti alla Comunità economica europea"; e ciò disponeva "all'evidente scopo di non porre i produttori italiani in condizione di sfavore rispetto ai produttori di alcuni altri Stati comunitari". Ora, poiché in questi é consentito, secondo i giudici a quibus, lo zuccheraggio dei vini, l'impugnato art. 76 del decreto delegato, vietando in modo assoluto ai produttori italiani l'impiego di sostanze zuccherine anche solo per la correzione dei vini naturali, avrebbe travalicato i limiti dell'art. 2 della legge di delegazione, con la rilevata conseguenza negativa per i produttori italiani, oltre che con quella, anch'essa già rilevata dell'eguale pena per fatti di diversa gravità.

7. - La questione é infondata.

Già con sentenza n. 3 del 1971, cui nello stesso anno fecero seguito le ordinanze di manifesta infondatezza nn. 45 e 183, questa Corte ebbe occasione di pronunciarsi sulla medesima questione, sentenziando che il menzionato art. 2, primo comma, della legge di delegazione n. 991 del 1964, il quale faceva carico al legislatore delegato di "tener conto" della normativa degli Stati della CEE, andava inteso nel senso che il Governo era tenuto, non già a "recepire, in tutto, o anche soltanto in parte" quella normativa, bensì ad "averla presente" allo scopo di "prendere da essa ispirazione in quelle parti che sembravano attagliarsi alle necessità di regolamentazione della produzione vinicola nazionale". E soggiungeva che nei regolamenti CEE del 1970, benché lo zuccheraggio fosse consentito, ma in casi determinati, risultava tuttavia disposto che esso poteva effettuarsi esclusivamente, ai sensi dell'art. 19, n. 3, del regolamento CEE n. 816 "nelle regioni viticole in cui sia tradizionalmente o eccezionalmente praticato conformemente alla legislazione esistente alla data di entrata in vigore" di esso regolamento. Ebbene, tutte le summenzionate ordinanze, pur dichiarando esplicitamente di non ignorare "precedenti decisioni della Corte costituzionale", hanno egualmente sollevato la stessa questione già risolta con la citata sentenza n. 3 del 1971 - e ribadita con la successiva sentenza n. 172 del 1971 -, senza offrire altro argomento, che il riferimento, peraltro improprio, all'art. 77 Cost., oltre che all'art. 76 Cost. Questa Corte non può, pertanto, non confermare la sua precedente giurisprudenza, secondo cui l'art. 76 del d.P.R. n. 162 del 1965 non é viziato di eccesso di delega. Né vi é da registrare nel frattempo alcun mutamento nella situazione normativa: l'art. 33, paragrafo 3, del regolamento CEE n. 337/1979 riproduce nel primo comma testualmente la disposizione del regolamento n. 816/1970, precisando nel capoverso che l'operazione può effettuarsi fino al 30 giugno 1979, ma solo "in talune regioni viticole della zona viticola A" - in cui l'Italia non é compresa -; a sua volta, il successivo regolamento CEE n. 459/1980 proroga la suddetta data al 15 marzo 1984.

In quanto alla violazione dell'art. 3 Cost., poiché anche in queste ordinanze la censura é identica a quella già esaminata - eguale pena per fatti di diversa gravità -, é bastevole fare rinvio agli argomenti già svolti al riguardo nel precedente n. 5). Appare utile, viceversa, dedicare qualche chiosa all'asserita condizione di sfavore in cui il divieto di zueccheraggio, essendo stabilito solo in Italia, porrebbe i produttori italiani nell'ambito comunitario. L'affermazione non si risolve già in un'autonoma censura, ma segnala la conseguenza diretta del denunziato eccesso di delega, dalla cui infondatezza viene pertanto coinvolta. Ma la prospettata condizione di svantaggio dei produttori italiani non si verifica per altri motivi ancora: essendo lo zuccheraggio consentito, come già visto, solo agli Stati compresi in una determinata zona viticola, é inesatto generalizzare al fine di dedurne la discriminazione dell'Italia nel Mercato comune; il lamentato divieto di zuccheraggio é rivolto a "chiunque" (art. 76 del d.P.R. n. 162 del 1965) e perciò si applica anche ai produttori stranieri che operino in Italia; esso si applica altresì "anche ai prodotti importati dall'estero" (art. 60, primo comma, del menzionato decreto presidenziale n. 162 del 1965). Il legislatore delegato, allora, attenendosi ai principi e criteri dettati dal legislatore delegante, ha inteso disciplinare, non certo comprimere, l'iniziativa dei produttori di vino, al fine di assicurare la genuinità della produzione nazionale e, attraverso essa, la competitività nel Mercato comune, alla quale il legislatore evidentemente ritiene che lo zuccheraggio potrebbe nuocere, anziché giovane.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 76 del d.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162, sollevata in riferimento agli artt. 3 Cost. ed 11, 41 e 3 Cost., con le ordinanze emesse dal Tribunale di Ravenna il 18 gennaio 1980 (r.o. 113/80), il 23 maggio 1980 (r.o. 701/80), il 10 ottobre 1980 (r.o. 814/80), il 24 ottobre 1980 (r.o. 818, 819, 820, 821 e 822/80), il 4 novembre 1980 (r.o. 867/80), il 15 dicembre 1980 (r.o. 115/81), il 13 febbraio 1981 (r.o. 301/81), dal Tribunale di Bologna il 5 giugno 1980 (r.o. 660 e 661/80);

b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 76 del d.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., con le ordinanze emesse dal Tribunale di Ferrara il 6 gennaio 1981 (r.o. 81/ 81), dal Tribunale di Lecce il 20 marzo 1981 (r.o. 392/81), il 22 maggio e il 22 giugno 1981 (r.o. 613, e 614/81), il 12 ottobre 1981 (nr. 809/81), dal Tribunale di Mantova il 9 luglio 1981 (r.o. 678/81);

c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 76 del d.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., con le ordinanze emesse dalla Corte d'appello di Torino il 7 maggio 1980 (r.o. 492/80), il 12 giugno 1981 (r.o. 625/81), dalla Corte d'appello di Lecce il 13 maggio 1980 (r.o. 564/80), dalla Corte d'appello di Bologna il 20 maggio 1980 (r.o. 476/80), l'11 dicembre 1980 (r.o. 441/81), il 7 ottobre 1981 (r.o. 719/ 81), dalla Corte d'appello di Brescia il 19 giugno 1980 (r.o. 778/80), dal Tribunale di Lecce il 6 novembre 1980 (r.o. 181/81), dal Tribunale di Brindisi il 3 manzo 1981 (r.o. 453/81), dal Tribunale di Alba il 6 marzo 1981 (r.o. 548/81);

d) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 76 del d.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162, sollevata, in riferimento agli artt. 76, 77 e 3 Cost., con le ordinanze emesse dalla Conte d'appello di Lecce il 16 ottobre 1979 (r.o. 992/79), il 3 aprile e il 25 marzo 1980 (r.o. 362 e 363/80), il 9 maggio 1980 (r.o. 605/80), il 10 ottobre 1980 (r.o. 815/80), dal Tribunale di Lecce il 6 febbraio 1981 (r.o. 217/81).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, l'8 novembre 1982.

 

Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Giuseppe CONSO.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 17 novembre 1982.