Sentenza n. 133 del 1982
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SENTENZA N. 133

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2 del r.d.l. 11 febbraio 1944, n. 31 (Provvedimenti sul regime giuridico dei Territori italiani liberati) promosso con ordinanza emessa il 26 novembre 1975 dal Tribunale di Udine, nel procedimento penale a carico di Gasparutti Giusto, iscritta al n. 57 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 72 de 17 marzo 1976.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 24 marzo 1982 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari;

Udito l'avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Gasparutti Giusto, imputato di detenzione d'arma (artt. 2 L. 2 ottobre 1967, n. 895, e 14 L. 14 ottobre 1974, n. 497), il Tribunale di Udine, con ordinanza in data 26 novembre 1975, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del r.d.l. 11 febbraio 1944, n. 31, nella parte in cui stabilisce che "le sentenze pronunciate dai tribunali militari alleati sono equiparate, ad ogni effetto, alle sentenze dei giudici italiani, anche per quanto riguarda le iscrizioni nel casellario giudiziale".

Premesso che unico precedente penale dell'imputato risulta essere una condanna ad anni cinque di reclusione per detenzione abusiva di armi, inflittagli il 5 agosto 1945 dalla Corte militare alleata di Udine, e che la condanna sarebbe ostativa alla concessione del beneficio condizionale della pena di cui all'art. 163 del codice penale, il giudice a quo osserva che la sentenza, emessa in regime di occupazione militare, fu pronunziata in forza dell'ordine provinciale n. 11 del "Governo militare alleato - provincia di Udine".

É da ciò, posto che - come ritenuto anche dalla Corte di cassazione con sentenza del 28 ottobre 1950 - "l'occupazione bellica non fa cessare la sovranità dello Stato occupato", deriverebbe che la condanna fu pronunciata da un giudice diverso "dal giudice naturale precostituito per legge" (art. 25,primo comma, Cost.) e non "in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso" (art. 25, comma secondo, Cost.), tale non potendo ritenersi il menzionato proclama del Governo militare alleato. Inoltre, continua l'ordinanza, la fattispecie era già punita con pena di specie diversa dall'art. 697 del codice penale.

Il menzionato art. 2 del r.d.l. n. 31 del 1944, equiparando una siffatta condanna a quella emessa dai giudici italiani, appare dunque al Tribunale sospetto di incostituzionalità per contrasto con l'art. 25 Cost. e, di riflesso, con l'art. 3 Cost. "dato che i cittadini dello Stato vengono a trovarsi condannati da giudici diversi, in base a norme diverse e con pene di specie diversa".

2. - L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata.

3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio tramite l'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la questione venga dichiarata infondata, osservando che l'art. 2 del r.d.l. n. 31 del 1944 fa parte dei provvedimenti sul regime giuridico dei territori italiani liberati ad opera delle forze armate alleate, i quali vanno inquadrati nella Convenzione d'armistizio del 29 settembre 1943, che sarebbe entrata a far parte dell'ordinamento giuridico italiano proprio in virtù del r.d.l. n. 31 del 1944.

Inoltre - prosegue l'Avvocatura - l'efficacia riconosciuta alle sentenze pronunciate dai Tribunali militari alleati "come se pronunciate dai Tribunali italiani" non é in contrasto, come invece ritiene il giudice a quo, con il principio di diritto internazionale secondo il quale l'occupazione bellica non fa cessare la sovranità dello Stato occupato, giacché tale occupazione ha determinato, come ritenuto anche dalla Corte di cassazione (Cass., 11 agosto 1966, n. 2196), la coesistenza su un medesimo territorio di due distinti ordinamenti giuridici, caratterizzati entrambi dai requisiti fondamentali dell'autonomia e della originarietà, i cui rapporti sono stati regolati, con l'armistizio, da una disciplina convenzionale che si é aggiunta a quella propria del regime di occupazione. Ed in virtù di tale disciplina devono ritenersi legittimi sia il proclama e l'ordine provinciale n. 11 del Governo militare alleato della cui forza di legge non può dubitarsi - sia la sentenza emessa dalla Corte militare alleata quarantuno giorni dopo l'emanazione dell'ordine provinciale n. 11, talché può ragionevolmente presumersi che il fatto per il quale il Gasparutti (attuale imputato nel giudizio pendente innanzi al Tribunale di Udine) fu all'epoca condannato sia stato commesso dopo l'entrata in vigore dell'ordine e da un giudice precostituito.

Quanto infine all'addotta violazione dell'art. 3 Cost., l'Avvocatura preliminarmente rileva che dalla motivazione dell'ordinanza non é dato evincere con certezza se il Tribunale di Udine abbia inteso riferirsi a disparità di trattamento nei confronti dei cittadini dello Stato a seconda che lo stesso comportamento penalmente illecito sia stato tenuto in territori soggetti all'occupazione militare alleata o, invece, in territori già restituiti all'amministrazione italiana; ovvero a seconda che nell'ambito degli stessi territori occupati, cittadini italiani siano stati giudicati da un giudice italiano o da un giudice delle forze d'occupazione. Ritiene, quindi, più verosimile giacché nulla autorizza a ritenere che si siano verificati fatti sussumibili nell'ambito della seconda ipotesi - che il giudice a quo abbia posto mente alla prima ed osserva che ogni irragionevole disparità di trattamento va senz'altro esclusa, apparendo ictu oculi evidente la diversità delle situazioni a seconda che il reato di detenzione abusiva di armi fosse stato commesso in territorio tuttora soggetto ad occupazione militare ovvero in territorio già restituito all'amministrazione italiana, dove, date le condizioni di vita relativamente più ordinata e tranquilla, il fatto appariva meno grave.

4. - Alla pubblica udienza del 24 marzo 1982, la difesa del Governo, in persona dell'avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota, ha ribadito le ragioni già esposte, insistendo per la declaratoria di infondatezza.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Tribunale di Udine ha denunciato esclusivamente l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 del regio decreto legge 11 febbraio 1944, n. 31 - poi convertito in legge unitamente agli altri decreti indicati nella tabella annessa alla legge 5 maggio 1949, n. 178 - per asserito contrasto "con l'art. 25 e,di riflesso, con l'art. 3 della Costituzione". A sostegno della sollevata questione ha così argomentato: a carico di Gasparutti Giusto, imputato (ai sensi degli artt. 14, legge n. 497 del 1974 e 2, legge n. 895 del 1967) di detenzione abusiva di un fucile, risulta un precedente specifico, che osta alla concessione della sospensione condizionale della pena. Ma tale precedente consiste in una condanna inflitta, in periodo d'occupazione bellica, dalla Corte militare alleata di Udine, in base ad un "Proclama del governo militare alleato". E poiché - prosegue il giudice a quo - "l'occupazione bellica non fa cessare la sovranità dello Stato occupato", allora la disposizione impugnata, avendo equiparato ad ogni effetto le sentenze dei tribunali militari alleati a quelle dei giudici italiani, vulnera i principi del giudice naturale e di legalità (art. 25, primo e secondo comma, Cost.) - ma anche, sia pure di riflesso, quello di eguaglianza (art. 3 Cost.) - ; il che é accaduto appunto nella specie, in cui la condanna risulta pronunciata, non solo da un giudice diverso da quello "naturale precostituito per legge", ma anche non "in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".

2. - La questione é infondata.

Oggetto del sindacato di questa Corte é l'art. 2 del menzionato r.d.l. n. 31 del 1944 - il solo, come già detto, impugnato dal giudice a quo - e precisamente quella parte (primo comma), la cui formulazione letterale é la seguente: "Resta egualmente ferma l'efficacia delle sentenze pronunciate dai tribunali militari alleati, che ad ogni effetto avranno valore come se pronunciate da tribunali italiani...". Per chiarire il quesito e perciò per risolverlo esattamente, giova considerare che l'ordinanza: riporta la suddetta norma, non solo in una libera versione, ma anche con un inciso finale ("anche per quanto riguarda le iscrizioni al casellario giudiziale"),che il sopra trascritto testo non contiene; trascura il dato che l'identica norma, nell'identica formulazione, e persino nell'articolo recante lo stesso numero - 2 - é stata riprodotta nel successivo decreto legislativo luogotenenziale 20 luglio 1944, n. 162; non si avvede che, per quanto riguarda la menzione, nei certificati del casellario giudiziale, delle sentenze di condanna a pena detentiva, pronunciate dai tribunali militari alleati, la materia é stata disciplinata con la legge 18 dicembre 1951, n. 921, di sette anni posteriore alla norma impugnata.

Ma in definitiva i rilievi del giudice remittente poggiano sul diniego della legittimità del potere esercitato dal governo militare occupante, mediante i propri atti normativi ed i propri tribunali, in territorio italiano e su cittadini italiani. E ciò, sulla base del presupposto che l'occupazione militare non avrebbe fatto cessare la sovranità dello Stato italiano.

3. - Anche a riguardo di questo assunto si può prescindere dalla constatazione che l'assolutezza e la perentorietà dell'asserito principio trovano fedele riscontro nella massima tratta da una rivista giuridica, non già nel testo della invocata sentenza (Cass., Sez. Un., 28 ottobre 1950, Wagner ed altri),che per di più concerneva una fattispecie tutt'altro che similare. Oltre tutto, non si é tenuto conto della giurisprudenza ben più pertinente e successiva a quella cui si é fatto richiamo, la quale ha affermato (Cass. pen., Sez. Un., 14 luglio 1951, Scarpato), che "per il principio del diritto internazionale, emergente dalle convenzioni dell'Aia del 1899 e del 1907, nonché dalla legge 8 luglio 1938, n. 1415, ed accolto dall'art. 235 del nostro codice penale militare di guerra, lo Stato occupante ha il diritto di giudicare nel territorio occupato, a mezzo dei suoi tribunali militari, e secondo il proprio diritto sostanziale e procedurale, gli abitanti del detto territorio che commettano reati, comuni o militari, contro le forze armate di occupazione...". Né si tratta di una pronuncia isolata: a distanza di oltre 15 anni, infatti, é stato sentenziato (Cass. civ., 11 agosto 1966, n. 2196) che "l'occupazione militare del territorio di uno Stato da parte delle forze nemiche non esclude il permanere della sovranità dello Stato occupato, ma determina la coesistenza su un medesimo territorio, di due distinti ordinamenti giuridici", soggiungendosi che conseguentemente le norme dello Stato occupato "sono vincolanti, per le persone soggette allo Stato stesso, nei limiti in cui esse sono compatibili con l'esercizio dei poteri che spettano agli occupanti".

Vale poi ricordare che l'art. 2 dell'impugnato regio decreto legge n. 31 del 1944 - al pari del corrispondente articolo del non impugnato decreto legislativo luogotenenziale n. 162 del 1944 - attuò, come risulta testualmente dalle premesse del decreto, precisi accordi intervenuti col governo militare alleato in esecuzione dell'"armistizio lungo" del 29 settembre 1943, cui non può negarsi, quanto meno, effetto ricognitivo del principio di diritto internazionale, riscontrato nella giurisprudenza della Cassazione e prevalente in dottrina, che riconosce all'occupante l'esercizio, in territorio occupato, sia della potestà normativa, sia della potestà giurisdizionale, sui cittadini dello Stato occupato. E la posteriore Convenzione di Ginevra del 1949 sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra, ratificata dall'Italia con la legge 27 ottobre 1951, n. 1739, la quale ancor più esplicitamente facoltizza (art. 66) la giurisdizione dei tribunali militari dell'occupante, ha il valore di conferma del suddetto principio.

4. - Alla luce delle suesposte considerazioni, devono ritenersi infondate le censure di violazione dei principi del giudice naturale e di legalità, di cui, rispettivamente, al primo e secondo comma dell'art. 25 Cost. Esse, benché autonomamente formulate, sono lo sviluppo di un principio, non accolto dal diritto delle genti, secondo cui in periodo di occupatio bellica lo Stato occupato conserverebbe la pienezza della sovranità e, correlativamente, lo Stato occupante non potrebbe esercitare alcun potere. Poiché, viceversa, vige proprio il contrario principio, deve affermarsi, con riferimento alla questione sollevata con l'ordinanza de qua, che i tribunali militari alleati erano legittimati ad esercitare nel territorio occupato di Udine la giurisdizione penale, applicando le "leggi" all'uopo emanate dall'autorità occupante, e che, di conseguenza, ben poteva disporre lo Stato italiano l'equiparazione ad ogni effetto delle sentenze di quei tribunali a quelle dei giudici italiani.

Appare superfluo a questo punto ricordare, sia che la suddetta equiparazione é stata ribadita, dopo la firma del trattato di pace (con la legge 18 dicembre 1951, n. 921, e proprio con quella disposizione di cui all'art. 3, non impugnata dal Tribunale di Udine, che stabilisce la menzione delle condanne dei tribunali militari alleati nei certificati del casellario giudiziale), sia che il nostro ordinamento non ripudia in linea di principio (artt. 12 codice penale e 672 - 674 codice di procedura penale) il riconoscimento delle sentenze penali straniere.

La conclusione cui si é pervenuti coinvolge la censura di violazione dell'art. 3 Cost., la quale, a parte la sua nebulosità, era stata dal giudice a quo considerata "di riflesso".

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del r.d.l. 11 febbraio 1944, n. 31, sollevata dal Tribunale di Udine, con ordinanza in data 26 novembre 1975, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1982.

 

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto  - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 14 luglio 1982.