Sentenza n. 87 del 1982
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SENTENZA N. 87

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 23, comma 2, della legge 24 marzo 1958, n. 195, come sostituito dall'art. 3 della legge 22 dicembre 1975, n. 695 (Composizione e sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura) promossi dalla Corte di cassazione - Sezioni unite civili - con tre ordinanze emesse il 9 luglio 1981 ed una emessa il 16 luglio 1981, rispettivamente iscritte ai nn. 744, 745, 746 e 747 del registro ordinanze 1981 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19 del 20 gennaio 1982.

Visto l'atto di costituzione di Coniglio Saverio;

udito nell'udienza pubblica del 24 marzo 1982 il Giudice relatore Livio Paladin;

udito l'avv. Antonio Stoppani, per Coniglio Saverio.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con quattro ordinanze datate 9 e 16 luglio 1981, emesse nel corso di procedimenti relativi ad altrettante decisioni della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, le Sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno impugnato l'art. 3 della legge 22 dicembre 1975, n. 695 (sostitutivo dell'art. 23 della legge 24 marzo 1958, n. 195), sulla riforma della composizione e del sistema elettorale per il Consiglio medesimo: là dove si dispone che, "agli effetti della presente legge, si intendono per magistrati di cassazione e magistrati di appello i magistrati che abbiano conseguito la rispettiva nomina, ancorché non esercitino le rispettive funzioni".

Quanto alla rilevanza della questione, si osserva che alcuni magistrati di cassazione e di appello, chiamati a comporre la sezione disciplinare (nei procedimenti in cui si erano irrogate le sanzioni in esame), risultavano non investiti delle funzioni corrispondenti.

Quanto alla non manifesta infondatezza, si argomenta in primo luogo che la norma impugnata violerebbe il principio di rappresentatività enunciato dall'art. 104, quarto comma, della Costituzione, in base al quale due terzi dei componenti il Consiglio superiore "sono eletti ... da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie". Il riferimento alle categorie postulerebbe, infatti, che "queste ultime siano entità realmente esistenti nella magistratura ordinaria, che cioè vi siano gruppi i quali si differenzino l'uno dall'altro", per le "diverse esperienze di cui sono portatori": il che significherebbe, allora, che il legislatore ordinario, una volta definite le varie categorie, alla stregua dell'ordinamento processuale e giudiziario (con particolare riguardo alle fasi dell'attività giurisdizionale), dovrebbe commisurare il Consiglio "all'esigenza di rappresentatività" delle categorie medesime. Ed in questo senso orienterebbe anche l'art. 107, terzo comma, della Costituzione, poiché il divieto di distinguere i magistrati se non per diversità di funzioni non sarebbe stato dettato nel solo intento di salvaguardare l'indipendenza dell'attività giurisdizionale, insuscettibile di vincolo gerarchico, bensì dimostrerebbe "la ripugnanza dell'ordinamento per differenziazioni fra magistrati non derivanti dalla diversità dei compiti cui essi sono assegnati"; laddove nell'attuale situazione - osserva il giudice a quo - "riesce arduo comprendere di quale specifica esperienza siano portavoce nel Consiglio i membri che non svolgono le funzioni proprie della categoria che sono destinati a rappresentare", data la nuova disciplina della carriera dei magistrati, dettata dalle leggi n. 570 del 1966 e n. 831 del 1973 (che la Corte di cassazione non fa per altro oggetto d'una propria impugnativa, limitandosi a ricordare le censure già proposte - sul punto - dalla quarta sezione del Consiglio di Stato).

Le ordinanze di rimessione aggiungono che si profilerebbe un ulteriore contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza, essendosi reso possibile che "magistrati i quali versano in situazioni diverse per la diversità delle funzioni esercitate, entrino a far parte del Consiglio come appartenenti alla stessa categoria, e che, viceversa, magistrati i quali versano nella stessa situazione in quanto sono investiti di uguali funzioni siano eletti come rappresentanti di categorie diverse", con conseguenze, in quest'ultimo caso, particolarmente gravi proprio per la sezione disciplinare: la quale - si rileva - "essendo preposta al rispetto della deontologia professionale e quindi dovendo apprezzare il valore di comportamenti non tipicizzati in ipotesi normative ..., abbisogna di persone che conoscano bene i vari ambienti ... in cui i magistrati si trovano ad operare, per comprendere appieno se ed in qual misura certi comportamenti costituiscano condotta che li renda immeritevoli della fiducia e della considerazione di cui debbono godere e che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario", secondo l'art. 18 del r.d. 31 maggio 1946, n. 511.

2. - Relativamente ai giudizi in questione, non é intervenuto - nel termine prescritto dall'art. 25, terzo comma, della legge n. 87 del 1953 - il Presidente del Consiglio dei ministri. Per altro, il Presidente stesso ha successivamente spiegato intervento nell'analogo giudizio promosso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con ordinanza emessa il 6 ottobre 1981 (reg. ord. 24/1982), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 10 marzo scorso; ed ha quindi depositato in data 22 marzo - "deduzioni" relative al giudizio instaurato dalle Sezioni unite con una delle ordinanze emesse il 9 luglio 1981, sul ricorso proposto da Roberto Furlotti (reg. ord. 744/1981): per sostenere l'infondatezza della questione in esame e per chiedere, in via preliminare, che la Corte ritenga ammissibili le deduzioni medesime, "anche ove occorra in via di conversione dell'intervento spiegato nel già citato giudizio di cui all'ordinanza 24/82".

Si é invece costituito tempestivamente, nel procedimento concernente l'impugnativa della sanzione disciplinare inflittagli, il ricorrente Saverio Coniglio, che ha sollecitato la Corte, ai fini dell'accoglimento della proposta questione, a prendere in considerazione anche l'eventuale contrasto delle disposizioni denunciate con il principio costituzionale di buon andamento dell'amministrazione: nell'ambito della quale ricadrebbe la stessa sezione disciplinare del Consiglio superiore, a meno di volerla qualificare come un giudice speciale, istituito in violazione dell'art. 102, secondo comma, della Carta costituzionale.

 

Considerato in diritto

 

Vanno anzitutto dichiarate irricevibili le "deduzioni del Presidente del Consiglio dei ministri", depositate il 22 marzo 1982, quanto al giudizio promosso dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione con ordinanza del 9 luglio 1981 (reg. ord. 744/1981), emessa sul ricorso proposto da Roberto Furlotti. Come riconosce espressamente l'Avvocatura dello Stato, il termine fissato dall'art. 25, ultimo comma, della legge n. 87 del 1953 era scaduto da tempo, senza che vi fosse stata una "formale e tempestiva iniziativa di intervento". Né ha consistenza la tesi che l'intervento spiegato dal Presidente del Consiglio dei ministri in altri procedimenti successivi, aventi ad oggetto "la medesima questione di legittimità costituzionale", valga a rimettere in termini il Presidente stesso, agli effetti del giudizio interessante Roberto Furlotti. La figura della "conversione dell'intervento", ipoteticamente prospettata dall'Avvocatura dello Stato, non trova infatti nessun fondamento nella vigente disciplina processuale, ivi comprese le norme applicabili nei giudizi davanti a questa Corte.

2. - Le quattro ordinanze in esame impugnano tutte - con motivazioni quasi integralmente identiche, per ciò che riguarda la non manifesta infondatezza della questione sollevata - l'art. 23, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, come sostituito dall'art. 3 della legge 22 dicembre 1975, n. 695: in cui si considerano quali "magistrati di cassazione" e quali "magistrati di appello", agli effetti della composizione del Consiglio superiore della magistratura e quindi della sua sezione disciplinare, "i magistrati che abbiano conseguito la rispettiva nomina, ancorché non esercitino le rispettive funzioni". Le Sezioni unite della Cassazione sostengono, infatti, che nella sezione disciplinare del Consiglio dalla quale erano state emesse le deliberazioni impugnate figuravano vari magistrati di cassazione e di appello, le cui qualifiche non corrispondevano alle funzioni; ed anzi precisano che tale corrispondenza sussisteva per uno soltanto dei magistrati di cassazione componenti il collegio, laddove l'art. 1 della legge 18 dicembre 1967, n. 1198, vigente al tempo in cui la sezione aveva deliberato, prevedeva che ne facessero parte - fra l'altro - "cinque magistrati di Corte di cassazione di cui due con ufficio direttivo". Ma le Sezioni unite dubitano che la scissione resa in tal modo possibile dalla norma denunciata sia conforme al dettato degli artt. 3, primo comma, 104, quarto comma, 107, terzo comma, della Costituzione; e preliminarmente affermano che dalla soluzione del problema dipendono le sorti dei giudizi a quibus, nel senso che l'annullamento della norma stessa determinerebbe la nullità delle impugnate deliberazioni della sezione disciplinare (in applicazione dell'art. 185 n. 1 cod. proc. pen., quanto al vizio relativo alla costituzione del giudice).

La sostanziale identità della questione così sollevata consente che i quattro giudizi vengano riuniti e decisi con unica sentenza.

3. - Fra i parametri utilizzati dal giudice a quo, centrale é la disposizione contenuta nel quarto comma dell'art. 104 Cost., in base alla quale i componenti "togati" del Consiglio superiore della magistratura vanno eletti "da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie".

Effettivamente, é da tale disposto che la Cassazione desume "il principio di rappresentatività", cui dovrebbe ispirarsi la disciplina sulla composizione del Consiglio superiore: cioé l'esigenza che il Consiglio, nella sua componente "togata", costituisca l'espressione di "gruppi i quali si differenzino l'uno dall'altro per una propria specifica e sostanziale caratterizzazione", alla stregua degli attuali "ordinamenti processuali e giudiziari", non già in conseguenza di scelte arbitrarie del legislatore ordinario. Così interpretato il quarto comma dell'art. 104, l'ulteriore richiamo che le ordinanze di rimessione fanno al terzo comma dell'art. 107 Cost. ("I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni") non comporta un'autonoma censura della norma impugnata, ma giova soltanto a rafforzare la tesi che - in vista della formazione del Consiglio superiore - vadano escluse le "differenziazioni fra magistrati non derivanti dalla diversità dei compiti cui essi sono assegnati". Ed anche in relazione al principio di eguaglianza, che sarebbe leso dalle disparità fra i magistrati, dovute alla norma che consente la dissociazione tra le funzioni esercitate e le categorie rappresentate nel Consiglio, il giudice a quo non fa che ribadire il riferimento alla specifica disposizione costituzionale sulla componente "togata" del Consiglio stesso.

Ciò posto, tre sono - nell'ordine - gli interrogativi ai quali la Corte é ora chiamata a rispondere: primo, se la menzione delle "varie categorie" dei magistrati eleggibili - di cui al quarto comma dell'art. 104 Cost. - esiga o meno che, ai fini dell'elezione degli esponenti della magistratura e della conseguente composizione del Consiglio superiore, l'elettorato passivo sia categorizzato; secondo, se, nel caso di una risposta affermativa, l'intera categorizzazione rimanga affidata alle valutazioni del legislatore ordinario, o debba invece rispondere - del tutto od in parte - a determinati criteri, costituzionalmente rilevanti; terzo, se, nel caso di una risposta nuovamente affermativa, siano compatibili con tali criteri le due previsioni della norma denunciata: quella concernente i magistrati di cassazione e quella concernente i magistrati di appello che non esercitino le rispettive funzioni.

4. - É stato sostenuto in dottrina che, pur avendo messo in evidenza "gli appartenenti alle varie categorie", il quarto comma dell'art. 104 Cost. non richiederebbe nulla più che l'eleggibilità di tutti i magistrati in seno al Consiglio superiore, quali che siano le categorie di appartenenza. La disposizione costituzionale in esame dovrebbe essere letta, in altri termini, come se imponesse l'elezione "nell'ambito delle varie categorie", indipendentemente da qualunque riserva di posti; e come se, pertanto, l'accenno alle categorie non avesse un diverso e maggiore significato di quello spettante alla separata indicazione dei "professori ordinari di università in materie giuridiche" e degli "avvocati dopo quindici anni di esercizio": fra i quali il Parlamento deve scegliere il residuo terzo dei membri del Consiglio superiore, senza che per questo occorra - come si ricava dall'art. 22 della legge n. 195 del 1958 - una distinta presenza di professori ed avvocati all'interno del Consiglio. Ma nel medesimo senso varrebbero i lavori preparatori della Costituente, dai quali risulta che quell'assemblea respinse svariati emendamenti intesi a conservare il Consiglio superiore come collegio composto dai soli esponenti dei "gradi" più elevati della magistratura; la considerazione sistematica del ruolo spettante al Consiglio, quale garante dell'indipendenza dell'intero "ordine" dei magistrati, e non delle singole partizioni di esso; la stessa incompatibilità che si assume fra un sistema elettorale di liste concorrenti, come quello configurato dall'art. 25 della legge n. 195 (nel testo modificato dall'art. 5 della legge n. 695 del 1975), e l'idea che i magistrati eletti rappresentino le rispettive categorie di provenienza.

Ora, é indiscutibile che dal quarto comma dell'art. 104 discenda il divieto di escludere in partenza qualsiasi categoria di magistrati, quanto ad entrambi gli aspetti, attivo e passivo, dell'elettorato concernente il Consiglio superiore. Ma la Corte non é dell'avviso che in ciò si esaurisca il significato di quella disposizione. Al contrario, dal tenore testuale di essa, dai lavori preparatori, dalle letture che ne sono state fatte durante un trentennio, in sede giurisprudenziale e legislativa, risulta univocamente che i magistrati di cui si compone il Consiglio superiore vanno pur sempre distinti per categorie; sicché l'opposta tesi corrisponde - almeno per alcuni suoi profili - non tanto ad una diversa interpretazione dell'art. 104, quarto comma, quanto ad un modello organizzativo non coincidente con quello indicato dalla stessa Carta costituzionale.

Sul piano letterale, rappresenta una forzatura interpretativa il ritenere che "appartenenti alle varie categorie" sia l'equivalente terminologico di "tutti i magistrati ordinari", secondo l'espressione adoperata dal testo costituzionale per individuare il corpo elettorale della componente "togata" del Consiglio. Se questa fosse stata l'intenzione dei costituenti, il dettato dell'art. 104, quarto comma, avrebbe potuto e dovuto risolversi in una formula ben più semplice e adatta allo scopo: per esempio, del tipo di quelle utilizzate dal terzo comma dell'art. 56 o dal capoverso dell'art. 58, per far risaltare la tendenziale coincidenza dell'elettorato attivo e passivo, quanto all'elezione delle Camere del Parlamento. Ad ogni modo, non é in questi termini che vanno ricostruiti i dibattiti ed i voti dell'Assemblea Costituente, concernenti l'elaborazione di quel testo che poi fu tradotto nella disposizione in esame. L'irrilevanza di ogni categorizzazione e la conseguente insindacabilità delle norme di legge ordinaria attinenti alle eventuali categorie dei magistrati eleggibili (salvo soltanto il rispetto del principio generale di eguaglianza) sarebbero forse sostenibili, se fosse stata approvata la conclusiva proposta del Comitato di redazione, mirante a rinviare alle "norme dell'ordinamento giudiziario" la risoluzione dell'intero problema. Senonché la maggioranza dell'Assemblea, nella seduta pomeridiana del 25 novembre 1947, restaurò l'originario disegno della Commissione dei 75 (art. 97 cpv. del progetto di Costituzione), approvando un testo che faceva esplicita menzione, circa l'elettorato passivo, degli "appartenenti alle diverse categorie": con chiaro riguardo ad una previa necessaria distinzione degli eleggibili, del resto ipotizzata in vario senso da quasi tutte le proposte avanzate nella Commissione dei 75 e poi dinanzi al plenum (cioè considerando i componenti magistrati in una prospettiva comunque assai diversa dagli avvocati e dai professori universitari in materie giuridiche, suscettibili di essere eletti nel Consiglio superiore da parte del Parlamento in seduta comune).

Oltre che dalla prevalente dottrina costituzionalistica, é questa l'interpretazione già accolta dalla giurisprudenza della Corte. Nella sentenza n. 168 del 1963, ponendosi il problema se il corpo elettorale del Consiglio superiore potesse venire a sua volta categorizzato, la Corte ha ritenuto in ogni caso incontestabile che la Costituzione preveda "la distinzione per categorie, con riferimento soltanto all'elettorato passivo". Del pari, la sentenza n. 12 del 1971, nel considerare la composizione della sezione disciplinare del Consiglio, ha insistito nell'assunto che occorra "necessariamente tenere conto delle linee fondamentali secondo le quali, in conformità dell'art. 104 Cost., risulta strutturato il consesso"; e ciò per soddisfare l'"esigenza che all'esercizio dei delicati compiti inerenti al governo della magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono portatrici".

D'altro canto, malgrado le complesse vicende della legislazione ordinaria che ha disciplinato le elezioni del Consiglio superiore della magistratura, anche in sede legislativa la distinzione per categorie dei magistrati eleggibili ha costantemente rappresentato un punto fermo. In vista del quarto comma dell'art. 104 (congiuntamente al terzo comma dell'art. 107 Cost.), già con l'art. 1 della legge 24 maggio 1951, n. 392, si sono stabilite tre categorie, rispettivamente formate dai "magistrati di Tribunale", dai "magistrati di Corte d'appello" e dai "magistrati di Corte di cassazione". Ed effettivamente la tripartizione introdotta dalla legge n. 392 é stata ed é tuttora la premessa delle varie leggi succedutesi dal 1958 in poi, per regolare la costituzione ed il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.

L'art. 23, primo comma, della legge n. 195 del 1958 presuppone, con tutta evidenza, la tripartizione stessa, pur dando un distinto rilievo ai magistrati di cassazione "con ufficio direttivo". A sua volta, su questa linea continua a procedere la legge n. 1198 del 1967, per ciò che riguarda l'elettorato passivo. Ed anche l'impugnato art. 3 della legge n. 695 del 1975, nella parte in cui ammette - relativamente alle due categorie considerate - la presenza in seno al Consiglio dei magistrati di cassazione e d'appello che non esercitino le rispettive funzioni, non riflette l'intento di superare la categorizzazione; bensì corrisponde - stando alla più parte degli interventi che condussero all'approvazione ed alla riapprovazione di tale disposto, in seguito al rinvio presidenziale del 30 ottobre 1975 - all'affermata necessità di tener conto, nel disciplinare le elezioni consiliari, delle conseguenze prodotte dalle leggi 25 luglio 1966, n. 570, e 20 dicembre 1973, n. 831, là dove la nomina a magistrato di appello e cassazione viene dissociata dal contestuale conferimento dei relativi uffici.

Del resto, conclusioni analoghe valgono ancor oggi, in considerazione della sopravvenuta legge 3 gennaio 1981, n. 1. Il criterio del quale si tratta non é stato abbandonato, malgrado l'art. 15 di questa legge - per bilanciare le continue variazioni dell'entità numerica di ciascuna categoria - preveda che metà dei magistrati componenti il Consiglio venga eletta "indipendentemente dalla categoria di appartenenza". Quanto all'altra metà dei componenti "togati", l'indispensabile distinzione di essi viene anzi sottolineata con maggiore forza che nelle normative precedenti: come é dimostrato dalla struttura delle liste elettorali, di cui all'art. 18 della legge stessa, nonché dai testuali riferimenti ai "posti vincolati", che in base all'art. 21 vanno comunque assegnati alle categorie corrispondenti.

5. - In definitiva, il quarto comma dell'art. 104 Cost. esclude che la componente "togata" del Consiglio superiore possa essere integralmente eletta mediante un puro e semplice sistema di liste concorrenti, negando distinto rilievo ad una articolazione per categorie. La circostanza che il Consiglio sia stato concepito a garanzia dell'indipendenza di tutta la magistratura, senza che i suoi componenti magistrati possano considerarsi come veri e propri rappresentanti delle categorie di appartenenza, non toglie infatti che le deliberazioni spettanti a tale collegio riguardino - in molteplici occasioni - caratteristiche e situazioni proprie delle singole partizioni dell'"ordine" in questione: dalle assegnazioni e dalle promozioni (per non dire delle stesse sanzioni disciplinari), fino alle proposte ed ai pareri sull'ordinamento giudiziario e sulla amministrazione della giustizia, che il Consiglio ha tante volte elaborato, in virtù dell'art. 10 cpv. della legge n. 195 del 1958. Ed é appunto in tal senso che si spiega la struttura voluta dalla Carta costituzionale.

Con tutto questo, é certo che lo stabilire quali e quante siano le categorie dei magistrati, destinate a riflettersi sulla composizione del Consiglio superiore, non può non restare - in larga misura - affidato alle scelte del legislatore ordinario. Anche alla stregua del rigido collegamento che le ordinanze di rimessione, assumendo che la Costituzione imponga categorie di stampo funzionale, stabiliscono fra l'art. 104, quarto comma, e l'art. 107, terzo comma, la tipologia delle funzioni giurisdizionali é comunque così varia e così articolata, che la composizione del Consiglio non potrebbe mai rispecchiarla totalmente, tanto più che i vari generi di classificazioni astrattamente ipotizzabili possono interferire a vicenda. Basti pensare, da un lato, alla distinzione tra magistratura giudicante e magistratura requirente, sin qui trascurata in considerazione dei tradizionali sistemi di pareggiamento, già risultanti dall'art. 28 dell'ordinamento giudiziario del 1907 e quindi confermati, sia pure in vari termini, da tutta la legislazione successiva; per poi ricordare, d'altro lato, come la stessa legge n. 392 del 1951 adotti classificazioni di natura mista, in parte collegate ad un quadro essenziale delle "funzioni giudicanti", in parte prodotte da valutazioni pertinenti allo stato giuridico ed alla carriera dei magistrati, che risentono ancora delle vecchie differenziazioni basate sul grado.

Ma sarebbe arbitrario desumerne che il legislatore sia completamente libero, senza doversi attenere a criteri di sorta, costituzionalmente rilevanti allo scopo della definizione delle "varie categorie". Altro sono, in realtà, gli inconvenienti e i motivi di difficoltà, che ineriscono allo stato attuale della legislazione sull'ordinamento giudiziario e della disciplina delle stesse funzioni giurisdizionali; altro é l'esigenza di porre comunque a raffronto le opzioni legislative e le previsioni costituzionali, esplicitamente od implicitamente riferite o riferibili al problema in esame.

Sotto questo ultimo profilo, un generalissimo criterio del quale la Corte può valersi, ai fini dell'attuale giudizio, é rappresentato dal sicuro nesso esistente fra le "varie categorie", indicate nel quarto comma dell'art. 104 Cost., e le classificazioni dei magistrati configurate dalle leggi che concorrono a formare la normativa sull'ordinamento giudiziario. Un nesso del genere é infatti desumibile da tutto il complesso dei lavori preparatori svoltisi in seno alla Costituente, malgrado la molteplicità delle opinioni e delle posizioni, che emerge dalla lettura degli atti. All'ordinamento giudiziario - come già si é notato - faceva espresso richiamo, senza più contenere nessuna menzione delle categorie, il testo proposto dagli on. Ruini ed altri, a nome del Comitato di redazione; ma l'inciso "secondo le norme dell'ordinamento giudiziario" venne pur sempre votato dal plenum, subito dopo l'approvazione dell'emendamento dell'on. Perlingieri, inteso a reintrodurre il riferimento alla categorizzazione. E tutto lascia presumere - anche in mancanza di verbali del Comitato di coordinamento, da cui si possa trarne la riprova - che l'eliminazione di tale inciso, nel testo sottoposto alla finale approvazione dell'Assemblea, sia stata voluta perché il richiamo appariva superfluo; non già perché si intendesse - contraddittoriamente - costituzionalizzare il criterio della categorizzazione e insieme demandare l'intera determinazione delle categorie alle sole leggi concernenti le elezioni del Consiglio superiore.

Già in tal senso, però, s'impone l'annullamento della norma impugnata, nella parte in cui prevede che i posti riservati ai magistrati di cassazione possano essere assegnati a coloro che abbiano conseguito la rispettiva nomina, ancorché non esercitino le rispettive funzioni. Una volta dichiarata - mediante la sentenza n. 86 di quest'anno - l'illegittimità costituzionale dell'art. 7 della legge n. 831 del 1973, là dove esso ammetteva la dissociazione fra la nomina a magistrato di cassazione e la contestuale investitura del relativo ufficio, cade in effetti il solo aggancio che il citato disposto dell'art. 23, secondo comma, della legge n. 195 del 1958 (come sostituito dall'art. 3 della legge del 1975) possa ritrovare sul piano dell'ordinamento giudiziario.

S'intende, tuttavia, che la presente decisione di accoglimento non coinvolge affatto il primo comma dell'art. 23 della legge n. 195 del 1958, come sostituito dall'art. 3 della legge n. 695 del 1975, né come nuovamente modificato dall'art. 15 della legge n. 1 del 1981; tanto più che tali norme non formano oggetto dell'impugnativa promossa dalle ordinanze in esame. In altre parole, compete al legislatore stabilire quale debba essere l'entità della riserva spettante ai magistrati di cassazione: sia che si tratti degli otto posti di cui alla legge n. 695 del 1975 (che già procedeva, per altro, dalla considerazione di un gran numero di magistrati provvisti della relativa nomina, ma non ancora investiti delle rispettive funzioni); sia che si tratti dei quattro posti attualmente previsti dalla legge n. 1 del 1981. Ciò che conta, agli effetti della valida composizione del Consiglio superiore (e della sua sezione disciplinare), é che questi posti, non arbitrariamente fissati dal legislatore ordinario, risultino in concreto ricoperti da magistrati che vi abbiano diritto, sulla base di legittime disposizioni dell'ordinamento giudiziario (o delle altre leggi comunque pertinenti alle funzioni ed allo stato giuridico dei magistrati stessi).

6. - Così individuata la ragione del decidere, ne discende anche in quali limiti debba essere affermata l'illegittimità costituzionale della norma in discussione.

a) In primo luogo, cioè, la presente pronuncia di accoglimento non investe la corrispondenza tra qualifica ed ufficio, per quanto concerne le funzioni direttive superiori, delle quali dovrebbero essere effettivamente titolari - secondo le ordinanze di rimessione - due fra i magistrati di cassazione componenti il Consiglio. In verità, il problema non concerne letteralmente - il secondo comma dell'art. 23 della legge n. 195 del 1958 (nel testo sostituito dalla legge del 1975), bensì il primo comma dell'articolo stesso (nel testo del '75 che, sul punto, é rimasto in sostanza immutato anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 1 del 1981). Ma il dubbio é pur sempre infondato, perché l'ordinamento giudiziario non é stato in tal senso intaccato dalla decisione n. 86 di quest'anno e, soprattutto, perché la categoria dei magistrati di cassazione con ufficio direttivo non é sorretta da alcuna garanzia comparabile a quella che riguarda i magistrati di cassazione complessivamente intesi.

Da un lato, giova notare che l'art. 23, primo comma, della legge n. 195 del 1958 (nel testo ora vigente) richiede in modo esplicito che due degli otto o dei quattro magistrati di cassazione - rispettivamente presi in considerazione dalle leggi del 1975 e del 1981 - siano stati "dichiarati idonei all'esercizio di funzioni direttive superiori" o, più semplicemente, risultino "idonei" alle funzioni medesime; ma l'art. 16 della legge n. 831 del 1973, in base al quale può essere tuttora dichiarata l'idoneità in esame, non é stato per questa parte annullato (né reso altrimenti inapplicabile) per effetto della sentenza n. 86. D'altro lato, é determinante l'argomento che la categoria dei magistrati di cassazione con ufficio direttivo esorbita dalla fondamentale tripartizione di cui all'art. 1 della legge n. 392 del 1951; e rappresenta in ogni caso il frutto di un criterio misto di classificazione, discrezionalmente utilizzato dal legislatore ordinario.

Più di preciso, due sono le componenti principali di tale categoria (secondo le indicazioni già fornite dall'art. 6 della legge n. 392): quella costituita dai titolari di uffici direttivi interni alla Corte di cassazione e quella costituita da magistrati di cassazione cui siano stati conferiti uffici direttivi equiparati, non attinenti alla giurisdizione di legittimità (dalla presidenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, all'ufficio di presidente delle Corti di appello o di procuratore generale presso le Corti medesime). Nel primo senso, però, lo stesso art. 104 Cost. ha direttamente individuato, al terzo comma, gli uffici direttivi destinati ad assumere specifica evidenza ai fini della composizione del Consiglio superiore: vale a dire, quello di "primo presidente" e quello di "procuratore generale della Corte di cassazione". Nel secondo senso, la scelta legislativa in questione non attiene più alla Cassazione come tale, bensì ad una serie di funzioni di cui l'ordinamento giudiziario può liberamente disporre. E, non a caso, anche le Sezioni unite civili della Corte suprema avevano a suo tempo dichiarato manifestamente infondata l'impugnativa dell'art. 3 della legge n. 695 del 1975, nella parte che equipara la dichiarazione dell'idoneità all'effettivo esercizio delle funzioni direttive superiori.

b) Secondariamente, va dichiarata la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma impugnata, nella parte relativa ai "magistrati di appello".

Anche per questo aspetto, non cade il nesso con l'ordinamento giudiziario, stabilito mediante l'art. 1 della legge n. 570 del 1966 (relativamente ai presupposti ed alle forme di attribuzione della qualifica in esame). Né si può dire che le stesse ragioni, in base alle quali la citata sentenza n. 86 di quest'anno ha parzialmente annullato il combinato disposto degli artt. 7 e 10 della legge n. 831 del 1973, impongano una corrispondente decisione circa le nomine a magistrato di appello, se non altro in vista delle conseguenze che ne derivano quanto alla composizione del Consiglio superiore. Come questa Corte ha già notato nella predetta pronuncia, in una prospettiva costituzionale sono, ben diverse le posizioni spettanti alle Corti d'appello ed alla Corte di cassazione, nonché alle rispettive categorie di magistrati. Le Corti d'appello non esercitano, infatti, funzioni specificamente attribuite dalla Costituzione, a differenza di quelle che il secondo e il terzo comma dell'art. 111 Cost. riservano alla Cassazione; né i magistrati d'appello vengono distintamente considerati dalla Costituzione, come invece si riscontra negli artt. 106, terzo comma, e 135, primo e secondo comma, aventi espresso riguardo ai "consiglieri di cassazione" od alla generalità dei componenti la suprema magistratura ordinaria. Al contrario, funzioni e giudici di merito, inclusi i magistrati e le Corti d'appello, possono bene formare l'oggetto delle più varie riforme, da parte del legislatore ordinario; tanto più che la giurisdizione di secondo grado non é certo attribuita in via esclusiva ai magistrati in questione, bensì é ripartita fra varie specie di organi giurisdizionali, sulla base di scelte legislative che negli anni più recenti hanno assunto una sempre più vasta portata. Il che concorre a spiegare per quali ragioni l'ordinamento giudiziario non distingua rigorosamente gli stati giuridici dei giudici di merito, come é dimostrato dalla stessa legge n. 570 del 1966, che ha unificato il "ruolo organico" dei magistrati di appello e di tribunale.

In tale situazione, la Corte deve solo assicurare che i magistrati di cassazione, investiti delle corrispondenti funzioni, non rimangano esclusi dal Consiglio superiore; mentre spetta al legislatore ordinario di riconsiderare, eventualmente, l'intera categorizzazione della componente "togata" del Consiglio. E rimane la preminente esigenza di dare infine una piena attuazione alla settima disposizione transitoria costituzionale, là dove si preannuncia "la nuova legge sull'ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione".

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 23, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, come sostituito dall'art. 3 della legge 22 dicembre 1975, n. 695, nella parte in cui prevede che i posti riservati ai magistrati di cassazione possano essere assegnati a "magistrati che abbiano conseguito la rispettiva nomina, ancorché non esercitino le rispettive funzioni";

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23, secondo comma, della legge n. 195 del 1958, come sostituito dall'art. 3 della legge n. 695 del 1975 - sollevata dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 104, quarto comma, 107, terzo comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe - nella parte in cui prevede che i posti riservati ai magistrati di appello possano essere assegnati a "magistrati che abbiano conseguito la rispettiva nomina, ancorché non esercitino le rispettive funzioni".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 1982.

 

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto  - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.

Giovanni VITALE – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 10 maggio 1982.