Sentenza n.203 del 1981
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SENTENZA N. 203

ANNO 1981

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 composta dai signori giudici

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 13, 14 e 15 del r.d. 28 febbraio 1930, n. 289 (norme per l'attuazione della legge 24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello Stato e per il coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 29 aprile 1976 dal Tribunale di Trieste, nel procedimento penale a carico di Sekulic Milos ed altri, iscritta al n. 565 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 260 del 29 settembre 1976.

Visti l'atto di costituzione di Perich Giorgio e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 21 ottobre 1981 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari;

udito l'avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un procedimento penale contro tale Perich Giorgio - procedimento riunito per connessione ad altri contro diversi imputati -, il Tribunale di Trieste, con ordinanza emessa il 29 aprile 1976 (n. 565 Reg. ord. 1976) e debitamente notificata e pubblicata, sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 13, 14 e 15 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289 (di attuazione della legge 1159/1929 sui "culti ammessi nello Stato") in riferimento agli artt. 8 e 20 Cost.

2. - La vicenda ebbe origine nel 1973 a Trieste, ove esiste una "comunità religiosa serbo-ortodossa", il cui statuto è stato approvato con decreto del Presidente della Repubblica 21 novembre 1966, n. 1205. In tale statuto, la suddetta comunità è dichiarata "persona giuridica e morale, costituita su base volontaria di carattere spirituale, ecclesiastico, religioso, morale, culturale e di beneficenza" (art. 1); sono individuati gli organi della comunità nell'Assemblea, nel Consiglio e nella Presidenza (art. 14); viene precisato che il segretario è scelto dal Consiglio ed acquista la stabilità dopo un anno (art. 80); è statuito che, "se il numero dei confratelli si riducesse a meno di sei", allora "deciderà la competente autorità italiana" (art. 13); è inoltre previsto, tra l'altro, non solo che "all'assemblea elettorale la Presidenza è tenuta ad invitare tempestivamente la competente autorità governativa italiana di Trieste, il cui delegato presenzierà all'assemblea fino al termine delle elezioni, prendendo posto a destra del Presidente" (art. 24), ma anche che "della elezione del Consiglio, della Presidenza e degli altri organi deve essere data comunicazione alla locale autorità governativa di Trieste" (art. 28).

3. - Con nota del 14 marzo 1973, indirizzata a Perich Giorgio, ma anche, per conoscenza, al locale Procuratore della Repubblica - oltre che al Presidente della comunità ed a tale Relich Dusan - la Prefettura di Trieste, premesso che il Consiglio della comunità aveva deliberato, sin dal 27 del mese di gennaio, di sostituire nell'incarico di segretario il Perich col Relich, invitava il Perich a consegnare le chiavi dell'ufficio al Presidente della comunità, avvertendolo che, in caso contrario, sarebbe stato denunziato all'autorità giudiziaria per i provvedimenti di competenza. Sennonché, lo stesso giorno 14 marzo, un avvocato triestino, dichiarando di agire nella qualità di legale della comunità, replicava alla Prefettura, con lettera inviata per conoscenza al Procuratore della Repubblica. In particolare, eccepiva: che la Prefettura non aveva alcuna competenza, giacché la questione concerneva "un incarico di carattere burocratico nell'ambito della vita interna della comunità"; che la delibera di questa, cui la Prefettura faceva riferimento, "era nulla in radice, perchè contraria all'art. 36 dello statuto" ed anche all'art. 34; che "le norme statutarie sono vincolanti anche per l'autorità politica ed amministrativa"; che l'operato degli organi statutari "può essere oggetto di sindacato esclusivamente da parte dell'autorità giudiziaria nell'ambito delle norme regolanti le persone giuridiche"; che "l'intervento dell'autorità amministrativa è strettamente limitato alle ipotesi previste dagli artt. 24 e 28 dello statuto".

Il giorno successivo, tuttavia, nonostante le su riportate considerazioni in fatto ed in diritto, la Prefettura di Trieste inviava apposita nota al Procuratore della Repubblica, dandogli notizia del rifiuto del Perich di consegnare le chiavi al Presidente della comunità "o, quanto meno, al legittimo segretario" e dichiarando di informarlo "nel caso ravvisasse nei fatti esposti estremi di reato".

4. - L'autorità giudiziaria elevava allora rubrica a carico di Perich, imputandogli la contravvenzione di cui all'art. 650 c.p "per essersi rifiutato di eseguire l'ordine della Prefettura di Trieste perchè consegnasse le chiavi dell'ufficio di segreteria della comunità serbo-ortodossa di Trieste al nuovo Presidente della comunità o, quanto meno, al nuovo segretario". E, benché si trattasse di reato di competenza pretoria, venivano disposti l'istruttoria formale - stante la già segnalata riunione ad altri processi - e, quindi, il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale di Trieste. Nel corso del dibattimento, poi, il Perich eccepiva l'illegittimità costituzionale degli artt. 13, 14 e 15 del regio decreto n. 289/1930, in quanto ritenuti fondamento dell'ordine prefettizio. Il Tribunale, stimando a sua volta che la vigilanza e la tutela dell'autorità tutoria sull'attività dei culti ammessi, previste dalle richiamate norme, violano gli artt. 8 e 20 Cost., cioè la libertà delle confessioni religiose ed il divieto di stabilire speciali limitazioni legislative nei confronti delle associazioni o istituzioni aventi carattere ecclesiastico o fine di religione o di culto, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di cui in epigrafe.

5. - Si sono costituiti in giudizio, sia il Presidente del Consiglio, tramite l'Avvocatura dello Stato, sia il Perich, tramite l'Avvocato Arturo Carlo Jemolo.

Osserva l'Avvocatura dello Stato, invocando la sentenza n. 59/1958 di questa Corte, che ogni regolamentazione di rapporti - e, quindi, anche quella tra Stato e confessioni acattoliche - comporta vantaggi per queste ultime, cui corrispondono limiti nell'interesse dello Stato, e che le norme impugnate non incidono in alcun modo sulla libertà di esercizio del culto, in quanto concernono la sfera amministrativa dell'attività degli enti dei culti acattolici, ma non già quella religiosa e spirituale. Inoltre, l'evidente analogia delle norme in esame con quelle emanate in esecuzione del Concordato con la Santa Sede mostra come nel nostro ordinamento v'è assoluta parità di trattamento fra "culti ammessi" e religione cattolica. Aggiunge poi che non si configura alcuna violazione della libertà religiosa dei culti acattolici ad opera delle norme impugnate, le quali non creano alcuna discriminazione rispetto ad altri enti di diritto comune e non hanno perciò carattere di specialità.

La difesa di Perich, da parte sua, rileva in primo luogo che il divieto disposto dall'art. 20 Cost., di statuire speciali limitazioni legislative all'attività delle associazioni od istituzioni ivi previste non può non comprendere il divieto di stabilire limitazioni mediante atti amministrativi. Affermi poi che l'art. 8 Cost. non ha inteso riconoscere una semplice libertà associativa, ma accordare un 'autonomia istituzionale, e che all'autorità governativa italiana sono consentiti solo quegli interventi che risultano previsti nello statuto, il quale è sufficiente a regolare ogni rapporto tra lo Stato e la comunità serbo-ortodossa.

Considerato in diritto

La sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 13, 14 e 15 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289 (di attuazione della legge 1159/1929 sui "culti ammessi") in riferimento agli artt. 8 e 20 Cost., così come proposta dal giudice a quo, è inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza.

Va anzitutto precisato, infatti, che l'ordine prefettizio di consegnare le chiavi dell'ufficio della comunità serbo-ortodossa di Trieste al Presidente o al segretario della comunità stessa non conteneva alcuna indicazione della norma legittimante l'autorità governativa ad esercitare nel caso quel potere e che, prescrivendo l'art. 650 c.p. che il reato di inosservanza di un provvedimento dell'autorità si consuma solo se questo è "legalmente dato", è stato allora il Tribunale ad individuare nelle norme poi impugnate il titolo di legittimazione del potere prefettizio. Esso ha affermato, in primo luogo, che "l'ordine della Prettura... venne certamente preso in virtù delle disposizioni di cui agli artt. 13, 14 e 15 del r.d. 28 febbraio 1930, n. 289"; ha, in secondo luogo, espresso il dubbio sulla legittimità costituzionale delle menzionate norme. Tuttavia, anziché argomentare sulla relazione tra le fattispecie normative invocate e la fattispecie concreta oggetto del giudizio de quo, al fine di mostrare che questo non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della sollevata questione di legittimità costituzionale, si è limitato a manifestare il convincimento che con quelle disposizioni "si pone in essere un controllo dell'autorità tutoria che snatura la libertà religiosa espressamente prevista dall'art. 8 della Costituzione e ribadita dall'art. 20".

Se si considera allora - prescindendo da ogni indagine sulla esatta natura giuridica della comunità serbo-ortodossa di Trieste - che, in ordine agli "istituti dei culti diversi dalla religione dello Stato", l'art. 13 stabilisce la vigilanza e la tutela governativa (senza peraltro specificare che vi rientri l'ordine di consegna); l'art. 14 facoltizza visite, ispezioni, scioglimento dell'amministrazione con conseguente nomina di un commissario; l'art. 15 prevede l'annullamento di atti e deliberazioni in violazione di leggi e regolamenti, il sopra trascritto richiamo dell'ordinanza al controllo, da parte dell'autorità tutoria, che pregiudicherebbe la libertà religiosa appare motivo più astratto, che generico, a sostegno della indimostrata applicabilità delle norme impugnate nel giudizio de quo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 13, 14 e 15 del r.d. 28 febbraio 1930, n. 289, sollevata, in riferimento agli artt. 8 e 20 della Costituzione, dal Tribunale di Trieste, con l'ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1981.

Leopoldo ELIA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI

 

Depositata in cancelleria il 29 dicembre 1981.