Sentenza n.139 del 1981
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SENTENZA N. 139

ANNO 1981

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI, Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 24, 42, 52, 92 e segg. del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa); e del coord. disp. degli artt. 429, comma terzo, cod. proc. civ. e 59 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, promossi con:

1) n. quattro ordinanze emesse il 1 luglio 1975 dal Tribunale di Ravenna nei procedimenti civili vertenti tra Guardigli Aldo, Fanti Ludovico, Cignani Enzo, Montanari Luciano e il fallimento Callegari e Ghigi, rispettivamente iscritte ai nn. 368, 369, 370 e 371 del registro ordinanze 1975 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 281 del 1975;

2) ordinanza emessa il 21 gennaio 1980 dal Giudice unico del Tribunale di Locri nel procedimento civile vertente tra Barresi Rocco e la Ditta Confezioni Lorena, iscritta al n. 755 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 352 del 1980;

3) n. quattro ordinanze emesse il 13 ottobre 1980 dalla Corte di cassazione - sezioni unite civili - sui ricorsi proposti dalla Compagnia Mediterranea di Assicurazione in l.c.a. contro Di Pace Gerardo, Scassa Franco, Laudicina Enzo e Martino Aurelio, rispettivamente iscritte ai nn. 853, 854, 855 e 856 del registro ordinanze 1980 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 357 del 1980 e n. 6 del 1981.

Visti gli atti di costituzione della Compagnia Mediterranea di Assicurazione in l.c.a. e di Martino Aurelio nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 4 marzo 1981 il Giudice relatore Virgilio Andrioli;

uditi l'avv. Emilio Pasanisi per la Compagnia Mediterranea di Assicurazione in l.c.a., l'avv. Francesco Russo per Martino Aurelio e l'avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.1. - Con sentenza 18 febbraio 1972 il Tribunale di Ravenna dichiarò il fallimento della s.a.s. Callegari e Ghigi in persona degli accomandatari Franco e Pierfrancesco Callegari che con successiva sentenza 23 marzo 1972 estese agli accomandanti Alessandro e Eugenio Callegari.

Aldo Guardigli, dipendente della fallita società, chiese ed ottenne l'ammissione al passivo in via privilegiata per la somma di lire 6.394.694; somma, della quale in sede di riparto parziale percepì il 25% pari a lire 1.598.673 rimanendo quindi creditore per lire 4.796.021.

Con domanda di insinuazione tardiva, presentata il 30 ottobre 1974, il Guardigli chiese di essere ammesso al passivo, sempre in via privilegiata, per gli interessi maturati sulla somma, corrispostagli in base al riparto parziale dal 18 febbraio 1972 al 4 luglio 1973, e gli interessi maturati dal 18 febbraio 1972 al saldo sulla residua somma, nonché su questa ultima una somma ulteriore per svalutazione monetaria. In sede di precisazione delle conclusioni chiese l'ammissione per somma pari al maggior danno subito a causa della diminuzione di valore del credito verificatasi dal 18 febbraio 1972 (data della dichiarazione del fallimento sociale) o, quanto meno, dalla data di entrata in vigore della legge 11 agosto 1973, n. 533 fino al saldo, e, in subordine, chiese che il Tribunale, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimità degli artt. 42, 52, 54, 55 e 72 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione in quanto non consentirebbero l'ammissione al passivo della somma di cui all'art. 429, comma terzo, cod. proc. civ. (rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro), relativa al periodo successivo alla dichiarazione di fallimento, trasmettesse gli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione.

Malgrado le conclusioni di reiezione opposte dalla convenuta curatela, il Tribunale, con ordinanza 1 luglio 1975, debitamente comunicata e notificata, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 281 del 27 ottobre 1975, e iscritta al n. 368 del registro ordinanze 1975, ha ritenuto rilevante e giudicato non manifestamente infondata la questione di illegittimità degli artt. 42, 52, 92 e segg., r.d. 16 marzo 1942, n. 267 in relazione agli artt. 3 e 36 della Costituzione e in riferimento all'art. 429, comma terzo (sub art. 1 legge n. 533/1973) cod. proc. civile.

Secondo il Tribunale, la "cristallizzazione" dei crediti di lavoro in materia concorsuale, che seguirebbe sia all'impossibilità di adempiere, in cui versa il debitore fallito, sia al difetto di concorsualità del credito per risarcimento di danni provocati da inadempimento, maturati dopo la dichiarazione di fallimento, mal si concilia con il novellato comma terzo dell'art. 429, che consente la rivalutazione dei crediti del lavoratore a far tempo dal sorgere del credito, se formano oggetto di condanna resa in processo celebrato con il rito speciale del lavoro. Tale contrasto comporterebbe disparità di trattamento tra crediti di lavoro, fatti valere nel processo del lavoro, per i quali vige il comma terzo dell'art. 429 c.p.c., e crediti di lavoro accertati in sede di verificazione del passivo dell'imprenditore fallito. Donde la violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Avanti la Corte nessuna delle parti si è costituita; ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri con atto 3 novembre 1975, depositato il successivo 10, nel quale l'Avvocatura generale dello Stato ha concluso per l'infondatezza della questione a) in riferimento all'art. 3 perchè la posizione del lavoratore creditore di datore in bonis non può essere equiparata alla posizione del lavoratore creditore di datore fallito e, pertanto, la inapplicabilità del novellato comma terzo dell'art. 429 non implica violazione del principio di uguaglianza e ben può l'art. 429, comma terzo essere invocato anche dal secondo lavoratore a fallimento chiuso, e b) in riferimento all'art. 36 perchè - a parte il difetto di motivazione che inficia sul punto l'ordinanza di rimessione - la legge 29 luglio 1975, n. 426 ha modificato l'ordine dei privilegi, previsto negli artt. 2751 bis e 2777 cod. civ. a favore dei lavoratori, i quali non possono non giovarsi della riforma anche nel concorso aperto sul patrimonio del datore fallito.

1.2. - Differiscono sol per le generalità dei dipendenti (Ludovico Fanti, Enzo Cignani, Luciano Montanari) e l'importo dei crediti, che hanno formato oggetto di domanda di msinuazione tardiva, le altre tre ordinanze di pari data, rese dal medesimo Tribunale, comunicate e notificate, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 281 del 27 ottobre 1975 e iscritte ai nn. 369, 370 e 371 registro ordinanze 1975.

Nessuna delle parti si è costituita avanti la Corte; gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri ricalcano l'altro versato nell'incidente n. 368/1975.

1.3. - Alla pubblica udienza del 4 marzo 1981, cui i quattro incidenti sono stati rinviati dall'udienza del 29 ottobre 1980, il giudice Andrioli ha svolto la relazione e l'avvocato dello Stato Angelini Rota ha insistito nelle già formulate conclusioni e, ancor prima, nella irrilevanza della questione, provocata dalla anteriorità della dichiarazione di fallimento del datore di lavoro rispetto alla data della entrata in vigore della legge n. 533/1973.

2.1. - La causa, introdotta avanti il Tribunale di Locri con atto notificato il 10 gennaio 1963 da Rocco Barresi il quale, assumendo di aver svolto attività di rappresentante di commercio della Ditta Confezioni Lorena, corrente in Castelvetrano, ne aveva chiesto la condanna al pagamento di provvigioni e instava per la risoluzione del contratto per colpa della convenuta, proseguì anche dopo l'entrata in vigore della legge 11 agosto 1973, n. 533, con il rito ordinario e diè luogo alla sentenza 10 luglio 1975, con cui vennero dichiarate la "incompetenza per materia" del Tribunale e la competenza del giudice istruttore in funzione di giudice unico. All'udienza del 19 dicembre 1977 avanti il giudice unico fu dichiarata la interruzione della causa per fallimento della convenuta, dichiarato dal Tribunale di Trapani con sentenza di cui non risulta dagli atti la data.

Con ricorso del 23 marzo 1978 la causa venne riassunta nei confronti del curatore del fallimento, che non si costituì, avanti il giudice unico, il quale, con ordinanza 21 gennaio 1980, debitamente comunicata e notificata, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 352 del 24 dicembre 1980 e iscritta al n. 755 registro ordinanze 1980, giudicò rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 24 della legge fallimentare sulla considerazione che la norma, per essere fondata sul principio della concentrazione di tutte le liti, comunque connesse con il fallimento, avanti il tribunale fallimentare, sarebbe in contrasto con la legge 11 agosto 1973, n. 533, sicuramente ispirata alla tutela del lavoratore sia per la competenza territoriale sia per il rito, che tale contrasto provocherebbe disparità di trattamento tra il lavoratore, che fa valere i propri diritti nei confronti del datore in bonis, e il lavoratore che li fa valere nei confronti del datore fallito.

Avanti la Corte nessuna delle parti si è costituita; ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri con atto 3 gennaio 1981, depositato il successivo 12, in cui l'Avvocatura generale dello Stato ha concluso per l'infondatezza della questione sul riflesso a) che parametro di costituzionalità non sarebbe da riguardarsi all'art. 3, che appare soltanto nella pubblicazione della ordinanza nella Gazzetta Ufficiale, b) che il sindacato di conformità al principio d'uguaglianza può sperimentarsi per quando sussista una qualche diversificazione, che renda irrazionale la diversa normativa, o quando difettino motivi attendibili per discriminare situazioni, che, pur basate su diversi presupposti, vengano poi ad assumere note che si distinguano per particolari atteggiamenti soggettivi o oggettivi, c) che appare per contro giustificato che, se il debitore è fallito, giudice del rapporto sia non quello del lavoro ma l'altro fallimentare affinché tutte le azioni rientrino nella procedura concorsuale dell'accertamento del passivo fallimentare al fine di assicurare il principio fondamentale della par condicio creditorum.

Alla pubblica udienza del 4 marzo 1981 il giudice Andrioli ha svolto la relazione; l'avvocato dello Stato Angelini Rota per il Presidente del Consiglio dei ministri ha insistito nelle già prese conclusioni.

3.1. - Gerardo Di Pace, premesso che, assunto in prova dalla Compagnia Mediterranea di Assicurazioni s.p.a. il 1 marzo 1958 in qualità di "commesso autista", era entrato a far parte dell'organico della Compagnia il 1 marzo 1959 con la qualifica di "aiuto commesso" con obbligo di espletare anche mansioni di autista, che il 1 giugno 1960 venne promosso "impiegato di III cat. A" e con tale qualifica reinquadrato il 21 giugno 1962, dopo avere, con atto notificato il 23 agosto 1965, convenuto la Compagnia, collocata in l.c.a. (liquidazione coatta amministrativa) con d.P.R. 17 settembre 1964, n. 788, avanti il Tribunale di Roma, sezione lavoro, per sentirla condannare al pagamento della somma di lire 2.670.628 a titolo di differenza stipendio, indennità di mensa, indennità sostitutiva del preavviso, compenso per lavoro straordinario, differenza dell'indennità sostitutiva delle ferie e differenza dell'indennità di anzianità, spiegò, con ricorso 11 giugno 1967 notificato il successivo 16 ottobre, opposizione avverso l'elenco dei creditori della Compagnia in l.c.a. a cura del liquidatore nella cancelleria del Tribunale di Roma il 10 maggio 1967, chiedendo di essere ammesso per la complessiva somma di lire 2.748.628 sulla base degli stessi titoli dedotti nell'atto di citazione. La Compagnia costituitasi contestò il fondamento delle pretese dell'attore.

Riunite le due cause, nelle quali il Di Pace chiese riconoscerglisi la rivalutazione monetaria dei crediti azionati, e assunta prova per testi, il Tribunale giudicò rivalutabile il credito del Di Pace sol a far tempo dai 12 dicembre 1973, e cioè da data anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento.

Proposizione oppugnata dalla Compagnia in Cassazione con ricorso notificato il 4 novembre 1976.

Gli altri incidenti, di cui sono protagonisti Franco Scassa, Enzo Laudicina e Aurelio Martino, ne divergono sol per l'ammontare dei crediti.

3.2. - Identica la motivazione in diritto delle quattro ordinanze 13 ottobre 1980, comunicate e notificate, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale nn. 557 del 1980 e 6 del 1981 e iscritte ai nn. 853 a 856 reg. ord. 1980, con le quali le Sezioni unite civili della Cassazione, sulle divergenti conclusioni del P.M., hanno sollevato d'ufficio questione di legittimità della normativa risultante dal coordinato disposto degli artt. 429, comma terzo, cod. proc. civ. e 59 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in riferimento all'art. 36 della Costituzione.

I dubbi di illegittimità si appuntano in particolar guisa sull'art. 59 della legge fallimentare in quanto - si osserva - fra i crediti di cui esso vuole il livellamento dell'espressione monetaria rilevante ai fini del concorso ai valori della data del fallimento, vanno senz'altro compresi quelli di cui all'art. 429, terzo comma, codice di procedura civile che garantisce nel processo del lavoro la rivalutazione. Cosicché, non rilevando in contrario il fatto che l'art. 429, terzo comma, costituisca una norma speciale - tale non potendosi considerare di fronte alle disposizioni della legge fallimentare - le esigenze tutelate dall'art. 429 rimangono sacrificate a quelle di cui è espressione l'art. 59. Il che peraltro non esaurisce il discorso, rendendosi necessario verificare se le anzidette disposizioni, nel risultato cui dà luogo il loro coordinamento, siano coerenti con i precetti della Costituzione che garantiscono il diritto dei prestatori di lavoro alla retribuzione.

Avanti la Corte ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri e si è costituito per la Compagnia l'avv. E. Pasanisi e per la parte privata Martino Aurelio gli avv. Russo e Gagliardi.

Alla pubblica udienza del 4 marzo 1981 il giudice Andrioli ha svolto la relazione; gli avv.ti Russo e Pasanisi e l'avvocato dello Stato Angelini Rota hanno insistito nelle già prese conclusioni.

Considerato in diritto

La connessione delle questioni giustifica la contestuale decisione dei nove incidenti.

1. - Va per prima esaminata la questione d'illegittimità dell'art. 24 della legge fallimentare, che il giudice unico del Tribunale di Locri, ponendo la impugnata disposizione a raffronto con la intera legge 11 agosto 1973, n. 533, ha nella ordinanza 21 gennaio 1980 giudicato lesiva del principio di uguaglianza per inferirne diversità tra i trattamenti riservati al lavoratore creditore di datore in bonis e al lavoratore creditore del datore fallito.

La questione è infondata perchè l'applicazione dell'art. 24 alle azioni derivanti da rapporti di lavoro - prevista si noti fin dal 1942 - si giustifica per la esigenza di assoggettare anche i crediti che ne formano oggetto alla procedura di accertamento del passivo in virtù del fondamentale principio della vis attractiva del tribunale fallimentare.

2.1. - Sia le ordinanze della Cassazione sia quelle del Tribunale di Ravenna prospettano dubbi di incostituzionalità riguardo alla esclusione della rivalutazione dei crediti di lavoro fatti valere in procedure concorsuali per il tempo successivo alla data di loro apertura. Secondo le ordinanze della Cassazione tale esclusione risulterebbe dal coordinato disposto degli artt. 429, terzo comma, del codice di procedura civile, e 59 della legge fallimentare, o il dubbio di legittimità costituzionale si porrebbe in riferimento al solo art. 36 della Costituzione. Secondo le ordinanze di rimessione del Tribunale di Ravenna, invece, la esclusione stessa discenderebbe dagli artt. 45, 52, 92 e seguenti della legge fallimentare, e il dubbio di incostituzionalità si porrebbe anche in relazione all'art. 3 della Costituzione ma in riferimento al solo art. 429, comma terzo, del codice di procedura civile.

Vertendosi in tutti i giudizi promossi con tali provvedimenti in tema di crediti sorti nei confronti del datore in bonis non ancora fallito né collocato in liquidazione coatta amministrativa, non viene in considerazione la diversa ipotesi dei crediti di massa che pure aveva formato oggetto di discettazione avanti ad alcuno dei giudici del merito.

Questa Corte non può fare buon viso alla eccezione di irrilevanza sollevata sul riflesso che la dichiarazione di fallimento del datore di lavoro sarebbe anteriore alla data di entrata in vigore della legge 533/1973, perchè la giurisprudenza della Cassazione si è definitivamente orientata nel senso dell'applicabilità dell'art. 429, comma terzo, ai crediti pur sorti anteriormente al 12 dicembre 1973 (data di entrata in vigore della legge 533/73) e a far tempo della loro maturazione (orientamento definito "norma vivente" da questa Corte con sentenza n. 161 del 1977).

2.2. - Nel merito giudica la Corte che la non rivalutabilità dei crediti di lavoro nella procedura fallimentare - sia che la si faccia discendere (come 51 assume nelle ordinanze della Cassazione) dal coordinato disposto degli artt. 429, terzo comma, del codice di procedura civile, e 59 della legge fallimentare, sia che (come si sospetta nei provvedimenti di rimessione del Tribunale di Ravenna) si propenda a ricavarla, in riferimento all'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ., dagli artt. 42, 52, 92 e segg., della legge fallimentare - non sia in contrasto, sotto alcuno dei profili prospettati, né con l'art. 36 né con l'art. 3 della Costituzione.

Al riguardo la Cassazione, premesso che l'art. 36 della Costituzione configura il diritto del lavoratore alla retribuzione come diritto rafforzato e irrinunciabile, si domanda se la esigenza primaria, cui la retribuzione ne risulta finalizzata, possa ritenersi pienamente assicurata senza un meccanismo di adeguamento che - in qualunque evenienza ed in qualunque sede se ne pretenda il soddisfacimento - sottragga il relativo credito al pericolo della svalutazione, e se possa quindi ritenersi compatibile con la norma costituzionale un meccanismo di adeguamento che cessi di operare nella procedura concorsuale cui sia sottoposto il datore di lavoro, riservando al lavoratore solo la possibilità, spesso teorica, offerta dall'art. 120 della legge fallimentare (o, se vuolsi, dagli artt. 2308 codice civile e 147 della stessa legge).

A sua volta il Tribunale di Ravenna si basa essenzialmente sulla "disparità di trattamento - a suo avviso evidente - tra crediti di lavoro accertati nella sede propria del processo di lavoro (per i quali vigono le norme di cui all'art. 429, terzo comma, codice di procedura civile) e crediti di lavoro accertati in base alle norme dello stesso passivo fallimentare". Riconosce quindi come sostanzialmente inaccettabile che, mentre il principio introdotto con l'art. 429 codice di procedura civile si fonda sul fatto oggettivo della esistenza di un credito di lavoro sminuito nella sua consistenza dalla svalutazione monetaria, il credito di lavoro accertato con la formazione dello stato passivo debba in virtù delle particolari norme della legge fallimentare rimanere inalterato.

2.3. - Né i rilievi svolti dalla Corte di cassazione né quelli svolti dal Tribunale di Ravenna possono essere condivisi.

É ben vero che questa Corte, con la sentenza n. 13 dei 1977, ebbe a ritenere che la disposizione dell'art. 429 c.p.c., come modificato dalla legge n. 533 del 1973, nel prevedere la dovuta retribuzione e l'obbligo del giudice di determinare il maggior danno eventualmente subito per la diminuzione di valore del credito, rinviene nello sfondo il presidio e la garanzia (oltre che di altri precetti della Costituzione) dell'art. 36, ma ravvisò la ratio della norma nella funzione di "remora" che essa "ingenera rispetto ... al fatto stesso del non puntuale adempimento alla scadenza delle prestazioni destinate ad assolvere esigenze primarie del lavoratore" e sottolineò che con la disciplina in questione "viene recuperato con manovra sostanzialmente riequilibratrice quel tanto di arricchimento conseguito dal datore di lavoro che non ha compensato la forza di lavoro, il cui frutto ha investito nella propria struttura organizzativa".

Anche la successiva sentenza n. 43 del 1977 ha confermato come ratio della norma la funzione di remora per il datore di lavoro e quella di riequilibrio economico fra i soggetti del rapporto, nel senso sopra precisato, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale della inapplicabilità dell'art. 429, terzo comma, codice procedura civile ai crediti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici, in quanto ritenne insussistenti nel caso le suddette finalità.

Il più o meno puntuale adempimento della obbligazione del datore di lavoro non rileva per il periodo posteriore alla apertura delle procedure concorsuali poiché queste rientrano nella categoria della esecuzione forzata delle obbligazioni, e, pertanto, si risolve in inutile dialettica la disquisizione quale sia la causa dell'attribuzione identificata nell'art. 150 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile.

La violazione dell'art. 3, poi, è a torto prospettata dal Tribunale di Ravenna per essere la posizione creditizia del lavoratore nelle procedure concorsuali non comparabile alla situazione prevista nel rito del lavoro.

Va pertanto esclusa tanto la violazione dell'art. 36 quanto quella dell'art. 3 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità degli artt. 42, 52, 92 e segg. r.d. 16 marzo 1942, n. 267 sollevata in relazione agli artt. 3 e 36 della Costituzione e in riferimento all'art. 429, comma terzo (sub art. 1 l. 533/1973) cod. proc. civ. dal Tribunale di Ravenna con ordinanze 1 luglio 1975;

dichiara non fondata la questione di legittimità dell'art. 24 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 sollevata dal giudice unico del Tribunale di Locri in relazione all'art. 3 della Costituzione con ordinanza 21 gennaio 1980;

dichiara non fondata la questione di legittimità della normativa risultante dal coordinato disposto degli artt. 429, comma terzo, cod. proc. civ. e 59 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sollevata dalla Corte di cassazione in riferimento all'art. 36 della Costituzione con ordinanze 13 ottobre 1980.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 1981.

Leonetto AMADEI – Giulio  GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI.

Giovanni VITALE – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 21 luglio 1981.