Sentenza n.107 del 1981
 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 107

ANNO 1981

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI, Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 747, 750 e 751 del codice civile (successione - obbligo di collazione) promossi con le seguenti ordinanze:

1 ) ordinanza emessa il 26 giugno 1975 dal Tribunale di Sciacca nel procedimento civile vertente tra Pedalino Vincenza e Pedalino Serafina ed altri, iscritta al n. 450 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 306 del 19 novembre 1975;

2) ordinanza emessa il 4 maggio 1976 dal Tribunale di Salerno nel procedimento civile vertente tra Barlotti Pasqualina e Barlotti Raffaele ed altri, iscritta al n. 498 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 246 del 15 settembre 1976.

Visti l'atto di costituzione di Barlotti Pasqualina e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 dicembre 1980 il Giudice relatore Leopoldo Elia;

udito l'avvocato dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Il Tribunale di Sciacca, con ordinanza emessa il 26 giugno 1975, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 751 del codice civile per contrasto con gli artt. 3 e 42, secondo comma, della Costituzione in quanto stabilisce che la collazione di donazione avente ad oggetto danaro deve effettuarsi al valore nominale, senza tener conto, dunque, della eventuale svalutazione verificatasi dal momento della donazione al momento dell'apertura della successione.

La valutazione dell'id quod relictum e dell'id quod donatum obbedirebbe a criteri uniformi ed omogenei, volti ad assicurare la proporzionalità di trattamento in tutte le operazioni che si concludono con l'attribuzione delle quote agli eredi, con la conseguenza di risolvere "nel senso dell'irrilevanza il problema delle variazioni di valore dei beni donati". Essenziale a questo scopo sarebbe il considerare tutti gli elementi che entrano a far parte della massa ereditaria al valore che hanno al tempo dell'apertura della successione: regola questa sempre seguita, anche ai fini della riduzione (art. 556, cod. civ.), della collazione di beni immobili e mobili (artt. 747 e 750, cod. civ.), solo trascurata nel caso di collazione di danaro anche quando la somma sia stata donata "senza vincoli di indisponibilità"; con l'effetto di dare luogo ingiustificatamente ad una diversa disciplina nei confronti dei beneficiari di donazioni di beni di diversa qualità, di poter ledere anche la effettiva quota di legittima e di alterare comunque i valori del patrimonio cui si riferiscono i diritti dell'erede.

Nella specie l'attrice nel processo a quo, Pedalino Vincenza, chiedeva la riduzione delle donazioni effettuate dal de cuius e la reintegra della quota di legittima. Uno dei convenuti, rilevato che l'attrice medesima aveva ricevuto una donazione di lire 5.000 (cinquemila) nel 1922, eccepiva l'illegittimità costituzionale della norma che impone di valutare in termini nominali la somma donata ai fini della formazione della massa ereditaria.

L'ordinanza del giudice a quo, adottata in sostanziale accoglimento di tale eccezione, regolarmente comunicata e notificata, veniva pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 19 novembre 1975, n. 306.

2. - Interveniva nel giudizio innanzi a questa Corte l'Avvocatura dello Stato deducendo l'infondatezza della questione. Il principio nominalistico avrebbe, come illustrato anche nella relazione al codice civile, una insostituibile funzione nella vita economica: esso solo infatti consentirebbe di raffigurare i debiti pecuniari come entità costanti e di conoscere quindi con certezza la somma dovuta. Tale funzione renderebbe giustificato il diverso trattamento delle donazioni di danaro; una eccezione alla regola del nominalismo, limitata al campo successorio, creerebbe invece a sua volta un'ingiustificata differenza normativa.

3. - Questione analoga era sollevata dal Tribunale di Salerno con ordinanza emessa il 4 maggio 1976, in riferimento agli artt. 747, 750 e 751 del codice civile e con riguardo all'art. 3 della Costituzione.

Anche in questo caso il giudizio aveva ad oggetto azione di riduzione per lesa legittima; anche in questo caso l'attrice e le sorelle intervenute erano state beneficiarie di donazioni di somme di danaro; si eccepiva da parte convenuta l'incostituzionalità della normativa che impone di conferire le donazioni in danaro al solo valore nominale.

L'ordinanza, adottata in seguito a tale eccezione, veniva regolarmente comunicata e notificata; era successivamente pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 15 settembre 1976, n. 246.

L'Avvocatura dello Stato si costituiva nel giudizio innanzi a questa Corte chiedendo pronunzia di rigetto con argomenti in tutto simili a quelli svolti nella precedente analoga occasione.

Si costituiva anche Barlotti Pasqualina, attrice nel processo a quo, rilevando che gli artt. 747 e 750 del codice civile impugnati con l'atto introduttivo del giudizio di costituzionalità, sono estranei alla questione proposta, che atterrebbe invece al solo art. 751 del codice civile.

Osservava inoltre che non si può configurare una violazione del principio di eguaglianza nel caso in esame, non traducendosi la differenza normativa in privilegio (odioso o favorevole) a carattere soggettivo. Sosteneva poi la ragionevolezza anche in questo caso del principio nominalistico e l'irrazionalità di una deroga ad esso, limitata al diritto successorio, con argomenti simili a quelli svolti dall'Avvocatura dello Stato.

Considerato in diritto

Le ordinanze del Tribunale di Sciacca e del Tribunale di Salerno sollevano questione di legittimità costituzionale in ordine all'art. 751 del codice civile. Secondo il Tribunale di Sciacca questa disposizione contrasterebbe con gli artt. 3 e 42, secondo comma, della Costituzione; a parere del Tribunale di Salerno, invece, anche gli artt. 747 e 750 del codice civile si porrebbero in contrasto con l'art. 3 della Costituzione (unico parametro qui evocato). Ad avviso dei giudici remittenti la disciplina della collazione del danaro, che si riferisce nel quantum al valore legale della specie donata, comporterebbe un trattamento arbitrariamente differenziato tra coeredi donatari soggetti a collazione, secondo che essi siano donatari di beni immobili, di beni mobili o di somme di danaro. Inoltre la disciplina del codice sarebbe su questo punto in contrasto con il canone della razionalità.

La questione non è fondata.

Va rilevato, in primo luogo, che le ordinanze non contestano la legittimità costituzionale del principio nominalistico; non contestano, cioè, che una somma di danaro, considerata nel valore che viene attribuito alla moneta in cui essa è espressa alla data della emissione, costituisce sempre e costantemente il medesimo bene, quale che sia, nel momento storico che si considera, il potere di acquisto della moneta stessa.

Va ricordato, in secondo luogo, che il principio che regge l'istituto della collazione consiste nel computare nella determinazione della porzione spettante al condividente il bene che egli ha precedentemente ricevuto dal de cuius.

Il bene che va conferito è quello che è stato ricevuto. Se, invero, è stato ricevuto un immobile, è questo che viene conferito (art. 747, cod. civ.). Parimenti è da conferire la somma di danaro, che non è mutata nella sua identità, per il principio di cui si è detto.

Il problema della valutazione del bene al tempo dell'apertura della successione si pone nei casi in cui il bene non venga conferito in natura, o per scelta del conferente (art. 746, primo comma, cod. civ.) o per impossibilità, materiale o giuridica (art. 746, secondo comma), o per disposizione di legge (art. 750). L'imputazione viene fatta con riferimento non soltanto al valore, ma anche alla consistenza del bene al tempo dell'apertura della successione, in quanto tale valore sostituisce il bene, quale avrebbe dovuto essere conferito, appunto, in tale momento.

Per le somme di danaro non viene in considerazione un problema di imputazione, in quanto, per il principio innanzi ricordato, non si ha imputazione per equivalente, ma si ha collazione in natura della somma, che viene detratta nel valore suo proprio, rimasto immutato.

Ed infatti, la circostanza che il danaro che viene conferito non è costituito dalla stessa specie che è stata ricevuta non modifica l'essenza del conferimento, che resta conferimento in natura e non conferimento per equivalente, per il particolare carattere di fungibilità della moneta, che rimane sempre il medesimo bene, quale che sia la specie in cui viene corrisposta.

Tra l'ipotesi, dunque, di collazione per imputazione di beni nel loro equivalente e l'ipotesi di collazione di danaro, che è collazione in natura e non per equivalente, non sussistono né una identità né una affinità, che possano richiedere un pari trattamento ed anzi si ravvisa quella sostanziale diversità che giustifica ognora un trattamento differenziato.

Poiché, anzi, la collazione di somma di danaro è collazione in natura, questa si pone accanto al conferimento in natura di bene immobile, che è conferimento dello stesso bene e non di altro bene, di guisa che, ove si imponesse il conferimento di un bene diverso, quale sarebbe una somma di danaro di valore nominale più elevato, si verrebbe ad instaurare una diversità di disciplina tra pari situazioni.

In effetti le ordinanze di rimessione tendono a configurare una irrazionalità nel sistema legislativo, in riferimento alle ipotesi di sopravvenuta grave svalutazione monetaria, in quanto, considerando la situazione dei condividenti nel momento dell'apertura della successione, si viene a verificare una grave disparità di valori effettivi tra chi conferisce per imputazione l'equivalente in moneta del bene ricevuto e chi conferisce la somma di danaro, quale gli fu attribuita, giacché il primo vede diminuita la sua porzione di un valore in moneta corrente notevolmente superiore alla diminuzione patrimoniale che subisce il secondo.

La tesi della irrazionalità muove, però, da un presupposto che è del tutto estraneo all'istituto della collazione; dal presupposto, cioè, che chi abbia ricevuto una somma di danaro "senza vincoli di imponibilità" l'abbia investita nell'acquisto di beni o, quanto meno, che costui debba essere comunque trattato come se a tale acquisto sia addivenuto.

Orbene, tale presupposto è privo di fondamento, in quanto non può configurarsi a carico del beneficiario di una attribuzione in danaro né l'obbligo né l'onere di impiegarla in acquisti; ed invero la giurisprudenza della Corte di cassazione è giustamente costante nell'affermare che si ha attribuzione in danaro, come tale da considerare ai fini della collazione, anche quando il danaro ricevuto sia stato impiegato nell'acquisto di altri beni, in quanto è stato il danaro, e non il bene acquistato, l'oggetto dell'attribuzione, ed è il danaro, e non tale bene, l'oggetto del conferimento.

Il sospetto di irrazionalità potrebbe essere avanzato, peraltro, con riferimento a diverse ipotesi, in relazione alle quali recenti pronunce giurisprudenziali hanno dato rilevanza al fenomeno della svalutazione monetaria, ipotesi che tuttavia concernono situazioni irriducibili a quella qui considerata.

La svalutazione monetaria può, in realtà, venire in considerazione quando, a seguito del ritardo nella prestazione di una somma di danaro, il creditore riceva un pregiudizio, ottenendo un valore, stimato con riguardo al potere di acquisto della moneta, inferiore a quello che egli legittimamente attendeva; in relazione a queste ipotesi è stato ritenuto, infatti, che nella determinazione del danno da risarcire possa tenersi conto dell'incidenza della sopravvenuta svalutazione nel patrimonio del creditore.

Ma la medesima giurisprudenza ha pur sempre tenuto fermo il principio dell'immutabilità del bene - moneta nel considerare la situazione propria dei rapporti obbligatori che è la più vicina a quella qui considerata; è rimasto fermo, dunque, che chi ha ricevuto in mutuo una somma di danaro per un certo tempo è tenuto a dare la stessa somma, nel suo valore nominale, quale che ne sia stato il mutamento del valore di scambio nel tempo intercorso tra la nascita dell'obbligazione e la scadenza.

Né, quindi, sotto l'aspetto del trattamento difforme di pari situazioni, né sotto l'aspetto della irrazionalità del sistema normativo può ritenersi che la disciplina contenuta nell'art. 751 del codice civile, con riferimento agli artt. 747 e 750 dello stesso codice, sia in contrasto con i precetti dell'art. 3 della Costituzione.

Infine, quanto si è già detto vale a maggior ragione per escludere che risulti in qualche modo violato l'art. 42 della stessa Carta.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 751, 747 e 750 del codice civile sollevate in riferimento agli artt. 3 e 42, secondo comma, della Costituzione con le ordinanze in epigrafe dai Tribunali di Sciacca e di Salerno.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 1981.

Leonetto AMADEI – Giulio  GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 25 giugno 1981.