Sentenza n.10 del 1980
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SENTENZA N.10

ANNO 1980

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI  Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale: a) degli arti coli 40 e 72 della legge della Regione Lazio 29 maggio 1973, n. 20, nonché degli artt. 76, comma sesto, e 81, commi terzo, quarto e sesto, della legge medesima, come modificata dalla legge regionale 29 maggio 1973, n. 21; b) dell'art. 36, commi secondo, terzo, quarto, quinto e sesto, della legge della Regione Campania 16 marzo 1974, n. 11, come modificato dall'art. 3 della legge regionale 9 settembre 1974, n. 52, nonché dell'art. 39, commi primo, secondo e terzo, della detta legge regionale n. 1 1/1974, promossi con le seguenti ordinanze:

1) n. 3 ordinanze emesse il 18 febbraio 1976 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sui ricorsi proposti da Billi Livio ed altri, Costantini Maurizio, D'Ambrosio Antonio, Zattella Antonio ed altri e Ventola Vito contro la Regione Lazio, iscritte ai nn. 592, 593 e 594 del registro ordinanze 1976 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 281 e 288 del 20 e del 27 ottobre 1976;

2) ordinanza emessa il 23 marzo 1976 dal Tribunale amministrativo regionale della Campania sul ricorso proposto da Amoroso Aldo contro la Regione Campania, iscritta al n. 564 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 260 del 29 settembre 1976;

Visti gli atti di costituzione di Ventola Vito e Amoroso Aldo e delle Regioni Lazio e Campania;

udito nell'udienza pubblica del 24 ottobre 1979 il Giudice relatore Livio Paladin;

uditi gli avvocati Aldo Piras e Antonio Luigi Paoletti, per Ventola, l'avv.

Sergio Panunzio, per Amoroso, e l'avv. Giuseppe Abbamonte, per le Regioni Lazio e Campania.

Considerato in diritto

1. - I giudizi promossi dai tribunali amministrativi regionali per il Lazio e per la Campania si prestano ad essere riuniti, poiché in tutte le ordinanze di rimessione si sollevano questioni di legittimità concernenti una serie di norme legislative regionali sullo stato giuridico e sul trattamento economico dei dipendenti di amministrazioni statali trasferiti alle Regioni, assumendo che ai ricorrenti spetterebbero benefici maggiori o diversi, rispetto a quelli che sono stati loro attribuiti dai relativi decreti di inquadramento.

Tuttavia, le argomentazioni svolte nelle varie ordinanze, al pari delle conclusioni cui pervengono i due tribunali, differiscono alquanto per le loro prospettive e per la loro ampiezza. Infatti il tribunale amministrativo regionale per la Campania ha dichiarato la manifesta infondatezza delle eccezioni di parte che deducevano la violazione dell'art. 117 nonché dell'VIII disp. trans. Cost., proponendo invece la questione di legittimità della disciplina regionale sull'inquadramento e sul trattamento del personale trasferito da altre amministrazioni (con particolare riguardo all'art. 36 della legge della Regione Campania 1 6 marzo 1 974, n. 11 , come modificato dall'art. 3, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, della legge regionale 9 settembre 1974, n. 52, ed all'art. 39, primo, secondo e terzo comma, della predetta legge regionale n. 11), per violazione degli artt. 3, primo comma, 35, primo comma, e 97, primo e secondo comma, della Costituzione. Viceversa il tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha non soltanto impugnato le norme sulla tabella organica e sull'inquadramento del personale nei ruoli organici regionali (artt. 72 ed 81, terzo, quarto e sesto comma, della legge della Regione Lazio 29 maggio 1973, n. 20, come modificata dalla contemporanea legge regionale n. 21), in riferimento agli artt. 3,35,36 e 97, primo e secondo comma; ma ha sollevato la questione di legittimità dello stesso art. 81 come pure di altre norme regionali costituenti secondo il giudice a quo< il presupposto della disciplina dell'inquadramento > (artt. 40 e 76, sesto comma, della legge regionale n. 20 del 1973), per contrasto con l'art. 117 Cost., con l'ottava disposizione transitoria costituzionale, con l'art. 49, secondo comma, lett. b), dello Statuto della Regione Lazio; ed ha nuovamente invocato l'art. 97, primo e secondo comma, della Costituzione, per sostenere l'illegittimità degli artt. 40 e 76, sesto comma, della legge regionale n. 20 del 1973.

2. - Fra tutti questi motivi d'impugnazione, giova far precedere l'esame delle censure che assumono la violazione di limiti propri delle leggi regionali, quali i principi fondamentali stabiliti o comunque desumibili dalle leggi dello Stato, le specifiche norme legislative statali sul passaggio alle Regioni di funzionari e dipendenti dello Stato stesso, l'ulteriore principio dettato dallo Statuto della Regione Lazio in tema di < qualifiche funzionali >: sia perchè tali censure sono formulate in termini così comprensivi da assorbire ogni altra questione di legittimità delle norme laziali impugnate, qualora venissero accolte dalla Corte; sia perchè, d'altro lato, la valutazione del loro fondamento consente di fissare alcune premesse, utili per meglio analizzare le altre questioni proposte da entrambi i giudici a quibus.

Ora, il tribunale amministrativo regionale per il Lazio deduce anzitutto che la salvaguardia delle < posizioni di carriera ed economiche già acquisite al momento del passaggio > dei dipendenti statali trasferiti alla Regione secondo una clausola ricorrente nei decreti di primo trasferimento delle funzioni amministrative statali alle Regioni di diritto comune, a cominciare dall'art. 8, primo comma, del d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 1 sarebbe attuativa di un < precetto ... implicito > nell'ottava disposizione transitoria costituzionale. Pur fermo restando che previsioni legislative del genere non garantiscono al personale trasferito sviluppi di carriera analoghi a quelli peculiari dei ruoli originari, il giudice a quo ritiene dunque < che la legislazione regionale sia tenuta a conservare al personale proveniente dalle Amministrazioni statali il tipo di mansioni inerenti alla qualifica già rivestita e la conseguente posizione rispetto ai dipendenti della stessa carriera >. Per contro, l'inquadramento operato dall'art. 81 della legge regionale n. 20 del 1973 (come modificato, in pari data, dalla legge regionale n. 21) livellerebbe le posizioni medesime, senza tenerle in alcun conto, ed anzi produrrebbe nei rapporti fra i vari dipendenti interessati < scavalcamenti > non giustificati: vanificando, oltre tutto, i benefici previsti dall'art. 68 del d.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, per cui gli impiegati statali trasferiti alle Regioni a statuto ordinario si sono visti attribuire, < con decorrenza giuridica ed economica dalla data del trasferimento..., la promozione alla qualifica superiore > (salva l'alternativa di < cinque aumenti periodici di stipendio >, per i dipendenti che rivestissero già < la qualifica terminale della rispettiva carriera >).

Posta in questi termini, la censura non è fondata.

Per prima cosa, si potrebbe notare che il giudice a quo presuppone, ma senza dimostrarlo, che la conservazione delle < posizioni di carriera > già proprie dei dipendenti statali trasferiti alle Regioni di diritto comune sia costituzionalmente imposta dall'ottava disposizione transitoria, per sè considerata: laddove è ben noto che il testo costituzionale si limita, su questo punto, ad affidare ad apposite < leggi della Repubblica > la disciplina del < passaggio > dei funzionari e dipendenti dello Stato; che, d'altra parte, nessun accenno alla necessaria salvaguardia delle relative posizioni di carriera si ritrova nell'art. 17 della legge 16 maggio 1970, n. 281, sulla base del quale il Governo ha regolato, con decreti aventi valore di legge ordinaria, il primo trasferimento delle funzioni e del personale statale alle Regioni; e che, finalmente, nell'art. 124 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, al personale coinvolto nella seconda operazione di trasferimento sono state < fatte salve le posizioni economiche rispettivamente già acquisite nel ruolo di provenienza >, con una significativa obliterazione delle posizioni di carriera.

Ai fini del presente giudizio, basta però rilevare che le clausole dei decreti di primo trasferimento, quanto alle posizioni di carriera ed economiche spettanti al personale trasferito, hanno formato l'oggetto-da parte del tribunale amministrativo regionale per il Lazio- di un'interpretazione eccessivamente estensiva. Come ha giustamente notato in proposito il tribunale amministrativo regionale per la Campania, le clausole in questione perseguono unicamente la < transitoria esigenza di evitare una reformatio in peius dello status dei dipendenti statali > interessati. Del resto, è questa l'interpretazione che meglio si armonizza con l'autonomia legislativa regionale, costituzionalmente garantita, su quella componente dell'< ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione >, che è rappresentata dallo stato giuridico e dal trattamento economico del corrispondente personale. Caricata di significati ulteriori e trasformata in un vincolo permanente anziché transitorio, la conservazione delle < posizioni di carriera > finirebbe per rendere impossibile un'organica disciplina dello stato giuridico dei dipendenti regionali, dando invece luogo ad una composita e poliedrica legislazione di risulta, inevitabilmente modellata sui vari stati giuridici delle varie amministrazioni ed istituzioni di provenienza del personale trasferito: con la grave conseguenza di pregiudicare per un indefinito periodo di tempo, non solo il trattamento del personale stesso, ma l'assetto ed il funzionamento degli uffici regionali.

Per risolvere negativamente la questione proposta dal giudice a quo, è dunque sufficiente constatare che in base all'art. 81, terzo comma, della legge n. 20/1973 della Regione Lazio (riprodotto dal quinto comma del nuovo testo contenuto nella legge n. 21) l'< assegnazione > del personale trasferito è stata operata con riguardo < alla qualifica funzionale corrispondente alla carriera di appartenenza all'atto dell'inquadramento >: assicurando a tali dipendenti, non certo l'identità delle posizioni conseguenti al loro inquadramento nei ruoli regionali rispetto alle posizioni originarie, ma quel tanto di equivalenza fra le posizioni stesse che era consentita dalle peculiari caratteristiche dell'ordinamento e della strutturazione degli uffici regionali, risultanti dalla parte seconda della legge n. 20. Quanto poi al trattamento economico, né i ricorrenti né il tribunale amministrativo regionale per il Lazio affermano che i dipendenti dello Stato trasferiti alla Regione siano stati svantaggiati nei confronti del corrispondente personale rimasto inquadrato nei ruoli delle amministrazioni statali. Anche i benefici previsti dall'art. 68 del d.P.R. n. 748 del 1972, sebbene riferiti a qualifiche ben diverse da quelle elencate nell'art. 40 della legge laziale n. 20, hanno finito per trovare riscontro nell'art. 81 bis, aggiunto all'art. 81 delle leggi n. 20 e n. 21 del 1973, in virtù dell'art. 3 della legge laziale 31 ottobre 1977, n. 41: dove si attribuisce al personale interessato, in luogo dell'applicazione d'una nuova, comune tabella di inquadramento, la facoltà di < optare per l'attribuzione di cinque aumenti biennali di stipendio >. Ed anzi l'art. 4, primo comma, della ricordata legge n. 41 aggiunge che < a nessun dipendente può essere attribuito un trattamento economico inferiore a quello che avrebbe percepito presso l'ente di provenienza, se colà fosse stato in servizio il giorno precedente a quello di entrata in vigore della legge regionale 29 maggio 1973, n. 20, con la qualifica spettantegli anche a seguito dell'applicazione dell'art. 68 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1972, n. 748... >.

3. - Il tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha però messo in dubbio la costituzionalità delle norme sul rapporto d'impiego dei dipendenti di quella Regione, anche in riferimento all'art. 117 Cost., per violazione dei principi fondamentali cui s'informa la legislazione dello Stato in materia di pubblico impiego. A questa stregua, precisamente, il giudice a quo ha considerato rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità dell'art. 40 (sulla < classificazione delle qualifiche funzionali >), dell'art. 76, sesto comma (sulla < progressione economica nell'ambito di ciascuna qualifica >) ed ancora dell'art. 81 della legge regionale n. 20 (come sostituito dall'articolo unico della legge n. 21).

Di tali questioni è certamente ammissibile quella che concerne l'art. 40 in collegamento con l'art. 81: dal momento che per valutare la legittimità dei provvedimenti di inquadramento impugnati nei giudizi pendenti dinanzi al tribunale amministrativo regionale per il Lazio, che tale giudice ha ritenuto conformi alle norme regionali sull'inquadramento stesso, è pregiudiziale l'indagine sulla costituzionalità dell'intera disciplina legislativa delle qualifiche, nel cui ambito i ricorrenti sono stati inquadrati. Ma la censura non è fondata.

Le ordinanze in esame assumono che le norme regionali non avrebbero osservato il principio di < articolazione delle carriere in qualifiche >, configurando invece un ristrettissimo numero di qualifiche uniche (funzionario direttivo, collaboratore, assistente, ausiliario specializzato, ausiliario qualificato, ausiliario), equivalenti in sostanza alle tradizionali carriere del pubblico impiego statale (direttiva, di concetto, esecutiva, ausiliaria, per non dire delle distinte funzioni dirigenziali).

Sennonché la visione del limite dei principi, che emerge da questa impugnativa, si dimostra troppo rigida: tanto da circoscrivere eccessivamente l'autonomia spettante alle Regioni di diritto comune, non solo per ciò che riguarda lo stato giuridico dei dipendenti regionali, ma anche di riflesso quanto all'ordinamento dei rispettivi uffici. Non a caso, il giudice a quo ritiene indispensabile che il legislatore regionale adotti un < modello organizzativo > non troppo dissimile da quello statale, proprio perchè possa essere conservata nel passaggio dallo Stato alla Regione < la sostanza della posizione raggiunta > dai singoli dipendenti trasferiti dall'uno all'altro ente. Così ragionando, tuttavia, il tribunale non avverte che lo stato giuridico dei dipendenti regionali non può esser valutato per sè solo, ma va considerato in funzione dell'ordinamento degli uffici e delle complessive caratteristiche dell'ente Regione. Al di là della lettera dell'art. 117 Cost., che l'ordinamento degli uffici si ponga se non altro in sede logica come un prius e non come un posterius, risulta infatti dalle peculiarità dell'amministrazione regionale, a partire dalle direttive sul carattere necessariamente indiretto dell'amministrazione stessa, contenute nel primo e nel terzo comma dell'articolo 118 Cost., che il d.P.R. n. 616 del 1977 ha poi specificato e variamente attuato: peculiarità che rischierebbero di esser compromesse qualora la Regione dovesse conformarsi all'apparato statale, organizzandosi secondo le esigenze di una parte del personale trasferito.

A ciò si deve aggiungere che in tema di pubblico impiego, mancando un'apposita legge-cornice in cui siano fissati ed eventualmente novati i principi fondamentali del settore, le norme principio non vanno ricavate come sembra credere il giudice a quo dal solo statuto degli impiegati civili dello Stato, contenuto nel d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3; ma sono desumibili da tutte le leggi statali succedutesi nel disciplinare i più vari rapporti d'impiego, facenti capo allo Stato apparato come anche agli altri enti pubblici, comprese le stesse Regioni: secondo un criterio che questa Corte ha affermato sa pure sinteticamente ella sentenza n. 40 del 1972.

Da un lato, pertanto, non possono venire trascurate quelle norme-principio sul pubblico impiego regionale, che si ritrovano negli Statuti delle Regioni di diritto comune e in particolar modo nello Statuto del Lazio. Seguendo una linea divergente dai criteri informatori del tradizionale assetto del pubblico impiego statale, tutti gli Statuti hanno infatti previsto un solo ruolo organico del personale (per l'intera Regione o quanto meno per gli uffici dipendenti dalla Giunta, fatta eccezione per il distinto ruolo del personale del Consiglio); e svariate norme statutarie tra le quali si colloca, appunto, l'art. 49 dello Statuto laziale anno inoltre disposto che un tale ruolo non sia suddiviso in carriere ma, immediatamente, in qualifiche funzionali cui si accede mediante concorso, per poi beneficiare al loro interno di una progressione esclusivamente economica.

D'altro lato, è comunque decisivo che anche le ordinarie leggi dello Stato sul pubblico impiego si siano discostate, progressivamente, dallo schema di articolazione delle carriere e delle relative qualifiche, già tracciato nello statuto degli impiegati civili dello Stato. In primo luogo, una sistematica riorganizzazione delle carriere degli impiegati statali, intesa a ridurre le qualifiche in atto, è stata avviata dall'art. 11 della legge-delega 18 marzo 1968, n. 249 (prorogata e integrata dalla legge 28 ottobre 1970, n. 775), cui ha fatto seguito il d.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1077: in parziale attuazione delle proposte avanzate nel 1963 dalla Commissione per la riforma dell'amministrazione dello Stato, che miravano già a far coincidere qualifiche, attribuzioni e responsabilita. In secondo luogo, un altro passo di determinante importanza è stato compiuto con l'entrata in vigore della legge 20 marzo 1975, n. 70, sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente: che negli artt. 15 e 16 ha bensì previsto tre distinti ruoli del personale stesso (amministrativo, tecnico e professionale), limitando però a dieci le relative qualifiche funzionali. Il che suona conferma-anche senza dover prendere in esame le vicende legislative più recenti- di una linea di sviluppo dell'intero ordinamento del pubblico impiego, dalla quale discende l'infondatezza della questione di legittimità del combinato disposto degli artt. 40 ed 81 della legge laziale n. 20 del 1973 (come modificata dalla legge n. 21), in riferimento all'art. 117 Cost.

In atto, inammissibile per difetto di rilevanza è invece la parallela questione sollevata con riguardo all'art. 76, sesto comma, della legge n. 20. Vanamente, infatti, il tribunale amministrativo regionale per il Lazio argomenta che nella disciplina impugnata < non è previsto alcun procedimento per l'accertamento positivo del merito individuale >; sicché la progressione economica si risolve nell'attribuzione di classi di stipendio più elevate, a favore dei dipendenti regionali che abbiano conseguito una certa anzianità ed un giudizio non inferiore a < meritevole >, nonché in aumenti periodici del 2,50% per ogni biennio di permanenza senza demerito nella rispettiva classe di stipendio. Quale che sia la fondatezza di tale censura, sta di fatto che in tutte le controversie pendenti dinanzi al tribunale stesso si tratta di accertare unicamente la legittimità di una serie di decreti di inquadramento nei ruoli regionali; senza che il giudice a quo sia tenuto per ora ad affrontare né direttamente né indirettamente-alcun conseguente problema di progressione in carriera.

In altre parole, i pregiudizi che alcuni dipendenti regionali potrebbero subire, essendo state escluse le promozioni per merito comparativo (con la sola eccezione del < passaggio di qualifica >), rimangono del tutto ipotetici. E, su questo punto, i ricorrenti non hanno visto frustrata-in ipotesi-nulla più che una loro aspettativa, sfornita di giuridica tutela dinanzi al giudice a quo.

4. - Le considerazioni già svolte consentono senz'altro di concludere che deve esser respinta anche l'impugnativa promossa per la pretesa violazione dell'art. 49, secondo comma, lett. b), dello Statuto della Regione Lazio.

Dai lavori preparatori e dallo stesso testo dell'art. 49 si ricava, in effetti, che la suddivisione del ruolo organico del personale in < qualifiche funzionali > ha corrisposto all'intento di prefigurare un modello di pubblico impiego ben lontano da quello tradizionalmente proprio delle amministrazioni dello Stato. Né giova rilevare che altro è la < qualifica funzionale >, altro la < qualifica unica > sostanzialmente introdotta dal legislatore regionale del Lazio, con l'effetto di determinare < l'artificiosa riduzione ad unita di mansioni notevolmente diverse fra loro >: dal momento che non compete alla Corte di verificare, nei limiti d'un sindacato di legittimità costituzionale, se ed in qual misura le qualifiche individuate dalla legge laziale n. 20 del 1973 siano abbastanza articolate, così da potersi ritenere veramente < funzionali >, secondo criteri desunti - come avverte lo stesso giudice a quo-dalla scienza dell'amministrazione piuttosto che dall'ordinamento giuridico vigente.

5. - Entrambi i tribunali amministrativi regionali, per il Lazio e per la Campania, hanno d'altra parte sollevato la questione di legittimità delle rispettive norme regionali sull'inquadramento del personale statale trasferito, in riferimento all'articolo 3 Cost. Premesso che, in base al principio costituzionale di eguaglianza , situazioni fra loro diverse non potrebbero subire un'identica regolamentazione, tutte le ordinanze di rimessione lamentano che i dipendenti inquadrati in una medesima qualifica oppure in un medesimo livello funzionale sarebbero stati indiscriminatamente pareggiati, salva soltanto la diversa anzianità di servizio: con la prevedibile conseguenza che, difettando idonei correttivi, il personale già dotato di una qualifica più elevata nel ruolo di provenienza potrebbe vedersi posposto ad altro personale inferiore per qualifica d'origine, venendone pregiudicato-come precisa il tribunale amministrativo regionale per la Campania-non solo nel trattamento economico ma anche nella posizione in carriera. Ed anzi l'irrazionalità di una tale disciplina si rivelerebbe ancora più palese, in vista di quelle norme di favore-rispettivamente contenute nell'art. 81, quarto comma, della legge laziale n. 20 del 1973 (corrispondente all'art. 81, sesto comma, del nuovo testo introdotto dalla legge n. 21) e negli artt. 36, terzo comma, e 39, primo, secondo e terzo comma, della legge campana n. 11 del 1974 (come modificata dalla legge n. 52 del medesimo anno)-che consentono l'inquadramento nella qualifica o nel livello funzionale immediatamente superiori a quelli di appartenenza, a beneficio dei dipendenti in possesso di un titolo di studio superiore a quello richiesto o che abbiano già svolto mansioni proprie della carriera superiore oppure pro vengano - nel caso della Regione Campania - da ruoli atipici o contraddistinti da parametri comunque differenziati od abbiano, ancora, diretto per almeno cinque anni i disciolti centri INAPLI, ENALC ed INIASA.

Va subito notato, tuttavia, che quest'ultima impugnativa non è rilevante ai fini dei giudizi a quibus: per nessuno dei quali risulta che i ricorrenti abbiano invocato l'applicazione di norme speciali sull'inquadramento nella qualifica o nel livello superiori a quello di appartenenza. Quanto invece alle norme legislative locali che hanno regolato in via generale l'inquadramento del personale trasferito nei corrispondenti ruoli regionali, la questione non è fondata.

La necessità di giungere sul punto ad una decisione di rigetto deriva, in prima linea, dal tipo stesso di sindacato e di giudizio che entrambi i tribunali richiedono alla Corte. In effetti, le valutazioni di legittimità costituzionale sul rispetto del principio di eguaglianza, sebbene operabili e concretamente operate nelle forme più diverse e nei più vari settori dell'ordinamento giuridico, comportano per definizione che la normativa impugnata venga posta a raffronto con un'altra o con altre normative (sia pure estendendo l'indagine alle difettose previsioni ovvero alle lacune dell'ordinamento giuridico), per stabilire in tal modo se il legislatore abbia dettato disposizioni così poco ragionevoli da doversi ritenere costituzionalmente illegittime. Nelle ordinanze di rimessione, viceversa, nessun raffronto del genere è proposto, fatta soltanto eccezione per l'accenno conclusivo dell'argomentazione svolta dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio: là dove si prospetta un'ingiustificata disparità di trattamento fra il personale tuttora inserito nei ruoli delle amministrazioni statali ed il personale trasferito alla Regione. Ma è chiaro che una tale comparazione non consente di mettere in luce alcuna violazione del principio di eguaglianza: sia perchè i due termini da comparare non sono omogenei; sia perchè l'autonomia legislativa regionale sull'ordinamento degli uffici e sullo stato giuridico dei relativi dipendenti, in vista della quale è stata già respinta la questione di legittimità delle norme sull'inquadramento nei ruoli della Regione Lazio, sollevata in relazione all'art. 117, esige-a più forte ragione-che sia dichiarata l'infondatezza della connessa questione proposta in riferimento all'art. 3 Cost.

Al di là di questo, ciò che i due tribunali vorrebbero che la Corte valutasse, non consiste affatto nel divario fra la disciplina in esame ed un tertium costituito da una differente disciplina legislativa, statale o regionale; ma invece si risolve nelle rispettive posizioni che singolarmente sono state attribuite ai dipendenti regionali inquadrati in una certa qualifica o in un certo livello, sulla base di provvedimenti che hanno puntualmente applicato-nei loro confronti-la legislazione delle Regioni Lazio e Campania. Simili valutazioni comportano, pero, un immediato giudizio sulla giustizia delle leggi (o delle conseguenze che ne possano discendere in sede applicativa): che spetta alla Corte di effettuare, ma solo entro gli schemi del sindacato di legittimità costituzionale sulle violazioni del principio di eguaglianza.

Ciò basta per precludere l'accoglimento dell'impugnativa; anche se potrebbe aggiungersi, in considerazione dei casi specifici, che ai ricorrenti dev'esser garantita-in questa sede- < solo la posizione giuridica ed economica acquisita da ciascuno, senza riguardo alle rispettive posizioni di altri dipendenti > (come la Corte ha precisato nella sentenza n. 27 del 1978, circa la cosiddetta < commassazione > delle carriere del personale delle poste e telecomunicazioni).

6. - Infondata è anche la questione di legittimità delle predette norme legislative laziali e campane sull'inquadramento, sollevata in riferimento al primo comma dell'art. 35 Cost. Il principio della tutela del lavoro < in tutte le sue forme ed applicazioni > si presenta già letteralmente con una portata troppo ampia (come questa Corte ha precisato nelle sentenze n. 22 del 1967, n. 10 del 1970, n. 98 del 1973), perchè si possano trarne criteri di risoluzione degli specifici problemi del pubblico impiego regionale, inerenti all'assegnazione del personale trasferito, entro i ruoli organici di date Regioni a statuto ordinario.

Lo stesso vale per la pretesa violazione dell'art. 36 Cost., addotta dal solo tribunale amministrativo regionale per il Lazio, in nome dell'esigenza che la retribuzione sia proporzionata < alla quantità e qualità > del lavoro prestato. Rappresenta infatti un salto logico desumere-come vorrebbe il giudice a quo-che al generalissimo precetto dell'art. 36, primo comma, non possa non corrispondere un dato modello del pubblico impiego, contraddistinto da qualifiche ben articolate, nonché da procedimenti che assicurino < la migliore valutazione dei meriti e delle capacità individuali >. Essenziale è soltanto che nell'ambito dei vari rapporti di lavoro, comunque strutturati, non vi siano sproporzioni così gravi da ledere questa norma costituzionale. E, per dimostrarlo, non basta d'altronde stabilire una comparazione con i soli dipendenti regionali che sarebbero stati ingiustamente privilegiati nell'inquadramento; ma occorre-se mai-estendere la comparazione stessa, ricomprendendovi anche i dipendenti meno favoriti che esercitino analoghe funzioni, sia presso la Regione che presso altri enti pubblici.

7. - Resta da stabilire se le impugnate norme sulle qualifiche funzionali e sulla tabella organica del personale della Regione Lazio, nonché sul relativo inquadramento dei dipendenti statali trasferiti, tanto nei ruoli del Lazio quanto in quelli della Campania, non abbiano violato l'art. 97, primo e secondo comma, della Costituzione. Entrambi i tribunali propongono alla Corte la questione, in base ad un triplice ordine di considerazioni: primo, che il descritto sistema delle qualifiche o dei livelli funzionali, non comportando una sufficiente individuazione delle corrispondenti funzioni (e non ricollegandosi a un adeguato complesso di incentivi, morali ed economici, che assicurino il migliore svolgimento dei relativi compiti), darebbe luogo ad una irrazionale organizzazione degli uffici, violando l'esigenza di buon andamento dell'amministrazione; secondo, che parallelamente sarebbe stato leso pur senza che i due tribunali forniscano in proposito alcuna motivazione specifica il principio dell'imparzialità dell'amministrazione stessa; terzo, che le normative regionali in discussione contrasterebbero anche con il capoverso dell'art. 97, là dove s'impone che nell'ordinamento degli uffici (e dunque nell'inquadramento del personale ad essi addetto) vengano determinate < le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari >. Ma in tutti i suoi profili, così ricostruiti, la questione è comunque infondata.

In verità, la Corte ha dovuto prender atto che le scelte effettuate dai legislatori del Lazio e della Campania, nell'inquadramento del personale di tali Regioni, sono state contestate da vari studiosi della pubblica amministrazione. Si è infatti notato che i cinque livelli previsti in Campania e le sei qualifiche funzionali configurate nel Lazio hanno prodotto un eccessivo schiacciamento delle diverse posizioni di partenza, specie per quanto riguarda l'unico livello o l'unica qualifica di funzionario direttivo; e ciò, precisamente, in due Regioni per le quali è stato disposto un massiccio trasferimento di tali funzionari, ben più consistente di quello registratosi in altre amministrazioni regionali di diritto comune.

Per contro, l'accordo concluso il 17 ottobre 1972 fra le segreterie confederali CGIL- CISL-UIL e gli assessori al personale delle Regioni a statuto ordinario prevedeva l'introduzione di sette livelli, due dei quali direttivi; mentre il primo contratto dei dipendenti regionali, siglato il 14 settembre 1978 e quindi integrato d'intesa fra i rappresentanti sindacali e delle Regioni a statuto ordinario, ha aggiunto un ottavo livello funzionale, fatta sempre eccezione per gli appositi incarichi di coordinatore.

Sennonché, nella sede di un giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi, la violazione del principio di buon andamento dell'amministrazione non può essere invocata, se non quando si assuma l'arbitrarietà o la manifesta irragionevolezza della disciplina impugnata, rispetto al fine indicato dall'articolo 97, primo comma, Cost. Con tutta evidenza, tale non è il caso delle norme in questione. Il sistema dei livelli o delle qualifiche funzionali, sebbene semplificati all'estremo come si è verificato in Campania e nel Lazio, implica pur sempre almeno due ordini di vantaggi: vale a dire, da un lato, la perequazione retributiva che in tal modo si attua per classi di prestazioni considerate omogenee od affini; e, d'altro lato, la mobilità del personale inquadrato nel medesimo livello o nella medesima qualifica funzionale, che ne consegue non solo all'interno di ciascun apparato regionale ma anche nell'ambito dei vari rapporti di collaborazione fra Regioni ed enti locali (come ora è previsto espressamente nel ricordato contratto dei dipendenti delle Regioni a statuto ordinario). Il che vale ad escludere che sussista il vizio di legittimità costituzionale, ipotizzato in tal senso dalle ordinanze di rimessione.

D'altra parte, non occorre spendere parole per negare che sia stato leso il contestuale principio di imparzialità dell'amministrazione: giacché la pretesa violazione dell'art. 97, primo comma, Cost. dev'essere negata  sotto questo aspetto - in base agli stessi argomenti per cui si è già concluso che le disposizioni impugnate non si pongono in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza.

Infine, le motivazioni già svolte fanno ritenere che non sia stato leso neppure il capoverso dell'art. 97, richiamato dalle ordinanze di rimessione in collegamento con gli scopi di buon andamento e d'imparzialità dell'amministrazione, prescritti dal primo comma dell'articolo stesso. Del resto, nessuna delle controversie instaurate dinanzi ai due tribunali amministrativi regionali ha per oggetto l'avvenuto o mancato conferimento di determinate attribuzioni; sicché la disposizione del secondo comma dell'art. 97 non può venire in diretta considerazione nel presente giudizio.

Né giova replicare che l'art. 97 sarebbe stato comunque violato, come accenna il tribunale amministrativo regionale per la Campania, dal momento che quella Regione non avrebbe affatto definito le attribuzioni e le responsabilità corrispondenti ad ogni status dei suoi impiegati: provvedendo invece a regolare il trattamento del proprio personale, senza aver predisposto il relativo assetto delle funzioni e degli uffici. Di per se stessa, questa sfasatura non determina alcuna illegittimità costituzionale. Carenze e lacune del genere, che in altre circostanze potrebbero apparire abnormi, trovano infatti una giustificazione nei riguardi di enti costretti a misurarsi con i problemi del loro primo impianto, quali erano-all'epoca-le Regioni di diritto comune.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 76, sesto comma, ed 81, quarto comma, della legge 29 maggio 1973, n. 20, della Regione Lazio (come modificata dalla legge regionale 29 maggio 1973, n. 21), e degli artt. 36, terzo comma, e 39, primo, secondo e terzo comma, della legge 16 marzo 1974, n. 11, della Regione Campania (come modificata dalla legge regionale 9 settembre 1974, n. 52), rispettivamente sollevate dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio, in riferimento agli artt. 3, 35, 36, 97, primo e secondo comma, 117 Cost., e dal tribunale amministrativo regionale per la Campania, in riferimento agli articoli 3 e 97, primo e secondo comma, Cost.;

b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 40, 72, 81, terzo e sesto comma, della legge 29 maggio 1973, n. 20, della Regione Lazio (come modificata dalla legge regionale 29 maggio 1973, n. 21), e dell'art. 36, secondo, quarto, quinto e sesto comma, della legge 16 marzo 1974, n. 11, della Regione Campania (come modificata dalla legge regionale 9 settembre 1974, n. 52), rispettivamente sollevate dal tribunale amministrativo regionale per il Lazio, in riferimento agli artt. 3, 35, 36, 97, primo e secondo comma, 117 Cost., nonché alla VIII disp. trans. Cost. ed all'art. 49, secondo comma, lett. b), dello Statuto della Regione Lazio, e dal tribunale amministrativo regionale per la Campania, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 35, primo comma, 97, primo e secondo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/01/80.

Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA - Edoardo  VOLTERRA – Guido  ASTUTI – Michele  ROSSANO – Antonino  DE STEFANO – Leopoldo  ELIA – Guglielmo  ROEHRSSEN – Oronzo REALE - Brunetto  BUCCIARELLI DUCCI – Alberto  MALAGUGINI – Livio  PALADIN – Arnaldo  MACCARONE – Antonio  LA PERGOLA – Virgilio  ANDRIOLI

Giovanni  VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 30/01/80.