Sentenza n. 153 del 1979
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SENTENZA N. 153

ANNO 1979

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Avv. Leonetto AMADEI , Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 595 e 599 del codice civile promosso con ordinanza emessa il 5 luglio 1977 dal tribunale di Bari nel procedimento civile vertente tra Barletta Nucci Maria Addolorata e Fabiano Ignazia ed altra, iscritta al n. 47 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 94 del 5 aprile 1978.

Visto l'atto di costituzione di Barletta Nucci Maria Addolorata e di Fabiano Ignazia.

Udito nell'udienza pubblica del 24 ottobre 1979 il Giudice relatore Edoardo Volterra;

uditi gli avvocati Sergio Panunzio per Barletta Nucci, Domenico Giannuli e Nicolò Lipari per Fabiano.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso del procedimento civile vertente tra Barletta Maria Addolorata e Fabiano Ignazia vedova Barletta ed altra, il tribunale di Bari, con ordinanza del 5 luglio 1977, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 595 e 599 del codice civile, nel testo anteriore alla riforma del diritto di famiglia operata dalla legge 19 maggio 1975, n. 151.

Le norme denunziate disciplinano la capacità a succedere del coniuge del binubo e prescrivono che questi non possa ricevere per testamento sulla disponibile più di quanto consegue sulla disponibile stessa il meno favorito dei figli di precedenti matrimoni. Al giudice a quo, tale normativa, assoggettando ad un trattamento diverso il coniuge del testatore a seconda che quest'ultimo abbia o meno contratto un precedente matrimonio, sembra vulnerare il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, e, prevedendo limitazioni della capacità a succedere per testamento del binubo, sembra incompatibile con il principio costituzionale della dignità dell'unione matrimoniale, indipendentemente dalla circostanza che questa unione si sia realizzata in prime o ulteriori nozze.

Osserva ancora il tribunale che l'evoluzione giurisprudenziale della Corte costituzionale, con particolare riferimento alle dichiarate illegittimità costituzionali degli artt. 593, 592 e 781 cod.civ. e la stessa evoluzione legislativa, che, con l'istituto del divorzio e la riforma del diritto di famiglia ha reso ormai anacronistico il disfavore per le seconde nozze che caratterizzava la passata legislazione, giustificano il riesame della questione da parte della Corte costituzionale, la quale, con una sentenza del 16 dicembre 1970, n. 189, ebbe a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 595 e 599 cod.civ.

2. - L'ordinanza é stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.

Dinanzi alla Corte costituzionale si sono costituiti Fabiano Ignazia rappresentata e difesa dagli avvocati Domenico Giannuli e Nicolò Lipari, Barletta Maria Addolorata rappresentata e difesa dagli avvocati Aldo Sandulli e Tommaso Siciliani.

3. - Nell'aderire alle argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione, la difesa della Fabiano insiste sulla illegittimità costituzionale della normativa, osservando come l'evoluzione giurisprudenziale della Corte costituzionale abbia condotto da un lato alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 592 cod.civ. e dall'altro a quella dell'art. 781 cod.civ., rispettivamente contenenti il divieto di lasciare la disponibile in favore dei figli naturali non riconoscibili e di donazione tra coniugi. Egualmente priva di ragionevolezza per gli stessi motivi messi in risalto nelle decisioni sopra citate appare oggi la normativa denunziata che del resto é stata abrogata dal nuovo diritto di famiglia. Tale normativa in realtà sarebbe ispirata allo sfavore delle nuove nozze e limiterebbe la libertà di contrarle attraverso restrizioni di carattere patrimoniale con violazione quindi dell'art. 29 della Costituzione.

4. - La difesa della Barletta Maria Addolorata rileva che la Corte costituzionale ha già dichiarato l'infondatezza della questione della successione del coniuge del binubo con la sentenza n. 189 del 1970. Osserva che la ratio degli artt. 592, 593 e 781 cod.civ. é in realtà ben diversa da quella degli artt. 595 e 599 cod.civ. Ed infatti nel caso della successione del coniuge del binubo ragionevolmente il legislatore ha tenuto conto della possibilità di influenzare in costanza di matrimonio il coniuge in danno dei figli nati in precedenti matrimoni. Nella sua discrezionalità il legislatore ha poi ritenuto inopportuno mantenere in vita tali limitazioni. Ma si tratta appunto di discrezionalità legislativa che non può condizionare la legittimità costituzionale della normativa abrogata.

5. - Le parti costituite hanno presentato memorie ampiamente ribadendo le argomentazioni a sostegno delle opposte tesi.

Considerato in diritto

1. - Il giudice a quo denunzia, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione, gli artt. 595 e 599 del cod.civ., (il primo dei quali espressamente abrogato dall'art. 196 della legge 19 maggio 1975, n. 151), in quanto le disposizioni impugnate (applicabili nel procedimento di merito perché relativo ad una successione apertasi anteriormente al 1975), assoggettando ad un diverso trattamento il coniuge del testatore a seconda che questo abbia o meno contratto un secondo matrimonio, vulnererebbero il principio di uguaglianza e, prevedendo limitazioni alla capacità successoria del coniuge del binubo, sarebbero incompatibili con il principio costituzionale della dignità dell'unione matrimoniale di cui all'art. 29, indipendentemente dalla circostanza che tale unione si sia realizzata in prime o ulteriori nozze.

2. - Sia l'ordinanza di rimessione che la difesa dell'attrice richiamano la sentenza n. 189/1970 di questa Corte con cui analoga questione venne dichiarata non fondata.

Il giudice a quo afferma che l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale e quella della legislazione dimostrano, oggi per allora, come le norme impugnate fossero incompatibili con la Costituzione del 1948, mentre la parte privata, facendo leva sul precedente, sostiene che il mutamento legislativo é frutto di un riesame dell'opportunità di mantenere la limitazione alla capacità di succedere del coniuge del binubo: resterebbe pertanto fermo che sotto il profilo della legittimità costituzionale non sarebbero censurabili né la soluzione adottata dal legislatore del 1942 né quella del 1975.

3. - La richiamata decisione n. 189 del 1970 si basava essenzialmente sull'assunto, tratto dalla relazione al codice che la disciplina impugnata fosse dettata per evitare che "il coniuge del binubo in fatto possa influire su questo a danno di figli di precedenti matrimoni e per salvaguardare costoro sul terreno patrimoniale".

In base all'indirizzo giurisprudenziale iniziato con la sentenza n. 205 del 1970 e manifestatosi particolarmente con la sentenza n. 91 del 1973, la Corte ritiene oggi di dover approfondire l'indagine sugli esposti motivi ispiratori della normativa, per controllarne l'esattezza sotto il profilo storico e per verificarne l'intrinseca ed estrinseca validità rispetto ai principi consacrati negli artt. 3 e 29 della Costituzione.

4. - La disposizione dell'art. 595 del codice civile italiano del 1942, la quale ripeteva sostanzialmente quella dell'art. 770 del preesistente codice del 1865, veniva, nel disegno di legge n. 2417 (comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica il 18 settembre 1967) con cui si proponeva l'abrogazione dell'articolo in parola, qualificata "iniqua, irrazionale, incostituzionale e anche illogica". Essa infatti appariva, già prima della sua abrogazione legislativa del 1975, un vero e proprio relitto storico.

La disposizione traeva le sue lontanissime origini dalla legislazione del Basso Impero Romano, decisamente contraria alle nozze dei vedovi e dei divorziati, la quale, mentre da un lato procedeva alla graduale abrogazione delle leggi di Augusto tendenti ad ostacolare il celibato e a costringere uomini e donne ad unirsi in matrimonio e a passare a seconde nozze, dall'altro lato, con numerose costituzioni di Costantino, Valentiniano, Graziano, Teodosio II e di altri imperatori, mirava con varie disposizioni limitanti i diritti patrimoniali e successori dei binobi e i loro diritti nei confronti dei figli nonché con una normativa severamente repressiva dell'adulterio, ad ostacolare e ad impedire i secondi e i successivi matrimoni senza però giungere a dichiararne la nullità. Nello stesso tempo cercava di proteggere i diritti e le aspettative patrimoniali dei figli di primo letto ai quali riservava particolare favore. Queste leggi risentono la diretta influenza della Chiesa, la quale sin dall'origine, nella sua dottrina, come dimostrano l'insegnamento rivolto a uomini e donne nelle Epistole di S. Paolo, gli scritti dei Padri fra i quali Atenagora, Clemente di Alessandria, Origene, Tertulliano, Sant'Ambrogio e tanti altri, esaltava la castità e la continenza esortando al celibato e a mantenere lo stato di vedovanza, quali condizioni moralmente superiori a quella dei coniugati, sconsigliando decisamente di compiere successivi matrimoni ed escludendo i binubi dagli ordini e dalle funzioni sacerdotali e dal compimento di vari atti di culto. La normativa espressa già in antichi decreti vescovili e in numerosi concili, pur considerando giuridicamente valido il secondo matrimonio, conferma, attraverso disposizioni che pongono in una condizione d'inferiorità nel campo religioso e nella comunità dei fedeli, i binubi e coloro che si uniscono in matrimonio con questi, l'ostilità della Chiesa verso le seconde nozze, tendenza questa seguita e condivisa dalle autorità civili del IV e dei secoli successivi.

La legislazione imperiale romana, ispirata al presupposto che il coniuge del binubo possa circuire questo a proprio favore inducendolo a spogliarsi dei suoi beni a danno dei figli nati da matrimoni anteriori influisce profondamente sul diritto intermedio. Fra le tante costituzioni imperiali emanate in questa materia viene data particolare importanza ad una di esse, conservata nel Codice Giustinianeo C. 5, 9, 6 nel titolo de secundis naptiis, degli imperatori Leone ed Antemio del 472, denominata dagli scrittori medioevali e successivi con le due parole iniziali Hac ediclali, la quale fra l'altro vietava che il binubo lasciasse al nuovo coniuge per qualsiasi atto di liberalità sia fra vivi sia mortis causa ed anche per interposte persone più di quanto donava o lasciava al meno preferito dei figli del precedente matrimonio. La legge stabiliva inoltre che l'eventuale eccedenza dovesse essere divisa fra tali figli. Questa disposizione che Giustiniano nelle sue Novelle giudicava ottima, é più tardi ampiamente commentata da celebri giuristi. Applicata in Francia nei paesi di diritto scritto ed in alcune Coutumes, viene estesa a tutto il regno per effetto del celebre editto del luglio 1560 del re di Francia Francesco II noto come edit des secondes noces, emanato per consiglio del cancelliere Michel de L'Hopital in conseguenza di un fatto che aveva suscitato molto clamore.

L'editto, il quale si riferiva solo alle vedove che contraevano nuovo matrimonio, vietava ad esse di donare al loro successivo marito anche per interposte persone più di quanto avesse il figlio meno preferito del precedente matrimonio, ordinando la riduzione della eccedenza. Il proomio dell'editto, nel quale sono esposti i motivi di esso, mostra che l'intenzione del legislatore era, richiamandosi alle costituzioni imperiali romane e invocando l'"infermità" del sesso, di porre la binuba in una condizione di inferiorità giuridica limitandone la capacità. La giurisprudenza estese il divieto (accolto in varie Coutumes, fra cui quelle di Parigi, Orleans ed Amiens) anche ai lasciti testamentari e ai vedovi binubi. Pochi anni dopo il re Enrico III con l'Ordonnance de Blois del 1579 aggravava le pene contro le vedove che si univano in matrimonio con uomini indegni della loro condizione, confermando il disfavore verso le seconde nozze.

Questa normativa, decisamente contraria ai binubi, si mantenne in Francia sino alla Rivoluzione, quando la Convenzione ritenne di abolire gli impedimenti ai successivi matrimoni. Con la legge 5 brumaio anno II art. 1 e con la legge 17 nevoso, anno II art. 12 si dichiarava illecita e pertanto non scritta la condizione apposta agli atti gratuiti di non passare a nuove nozze e con la medesima legge del 17 nevoso agli artt. 13 e 14 si permetteva a ciascun coniuge di dare all'altro i suoi beni in mancanza di figli e, in presenza di questi, sia di primo matrimonio, sia di matrimoni successivi, la metà dei beni in usufrutto.

I redattori del Codice Napoleonico, come può constatarsi dai lavori preparatori, ritornarono invece alle disposizioni dell'antica legge del 472 Hac edictali. La materia venne regolata nel titolo II del libro III (delle disposizioni fra coniugi, per contratto di matrimonio, o durante il matrimonio) nell'articolo 1098: "Il marito o la moglie che, avendo figli d'altro matrimonio, ne contrarrà un secondo od ulteriore, non potrà donare al nuovo sposo che una parte uguale alla minore che perverrà ad uno dei figli legittimi, senza che in nessun caso, queste donazioni possano eccedere il quarto dei beni".

Pertanto, il Codice Napoleonico, riproducendo la prima disposizione dell'antico editto delle seconde nozze del 1560, limitava la capacità giuridica dei binubi in confronto degli altri cittadini e stabiliva norme patrimoniali diverse per i coniugi del primo e dei successivi matrimoni.

5. - Come é noto, il Codice civile francese venne applicato per vari anni in quasi tutta l'Italia e, negli anni successivi alla Restaurazione, sostituito in vari Stati da nuovi codici. Mentre il Codice generale austriaco del 1811 applicato al Regno Lombardo-Veneto il 1 gennaio 1815, non contiene, come il Codice civile germanico e il Codice svizzero, il divieto, in alcune nuove legislazioni italiane viene mantenuta la norma dell'art. 1098. Così il Codice pel Regno delle Due Sicilie promulgato nel 1819, il quale all'art. 1052 posto nel capitolo IX del titolo II con la medesima intitolazione del titolo II del libro III del Codice Napoleonico, riproduce pedissequamente l'articolo 1098 di questo, meno l'ultima parte riguardante la limitazione del quarto dei beni. Ugualmente il Codice per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla del 1820 nella Parte seconda al titolo I capo III (Delle disposizioni permesse in testamento) all'art. 662. Nel codice Albertino del 1837 il divieto é posto all'art. 149 nella sezione V sotto il titolo V che porta la denominazione "delle seconde nozze". Questa collocazione indicava ben chiaramente che lo scopo del legislatore, ispirato al disfavore per i successivi matrimoni, era precipuamente quello di limitare i diritti patrimoniali, e di disposizione dei binubi. ("Non può il binubo lasciare al nuovo coniuge per qualunque atto lucrativo o tra vivi, o d'ultima volontà, maggior porzione di quella che abbia lasciato ad uno dei figli del primo matrimonio, il meno favorito. I lucri dotali però né limiti portati dalle leggi non s'imputeranno in detta porzione. L'eccesso del lascito al secondo coniuge cade in favore di tutta indistintamente la prole del primo matrimonio nella conformità dell'art. 147, non ostante qualunque disposizione del binubo in contrario, e benché il secondo coniuge avesse in favore d'altri rinunziato al lascito").

É interessante notare che di questo articolo, considerato come i tre precedenti della medesima sezione, come aventi lo scopo di porre un freno alle seconde nozze, la Magistratura del Regno di Sardegna nelle sue osservazioni al progetto di revisione del Codice Albertino aveva proposto la soppressione.

L'articolo in parola venne tenuto presente nella elaborazione del codice civile del 1865 nella quale le disposizioni concernenti i binubi furono oggetto di perplessità e di discussioni, ritenendosi che i figli fossero tutelati dalle norme sulla porzione legittima. Avuto riguardo ai vari dubbi di interpretazione dell'articolo 149 del Codice Albertino, la norma limitatrice venne posta nella sezione II del capo II ("della capacità di ricevere per testamento") nell'articolo 770 con la seguente formulazione: "Il binubo non può lasciare al nuovo coniuge una porzione maggiore di quella che abbia lasciato al meno favorito dei figli del precedente matrimonio". Le incapacità stabilite per il binubo, come espressamente dichiarato nella Relazione dell'allora Guardasigilli Giuseppe Pisanelli "sono dirette ad impedire qualsiasi violenza o seduzione che possa tornare a danno dei figli del precedente matrimonio o dei congiunti chiamati dalla legge a succedere". Con ciò si affermava ancora una volta il presupposto che ciascun coniuge per il solo fatto di essere tale fosse esposto alla circumvenzione e alla violenza dell'altro.

L'autorità della tradizione storica influenzò anche i redattori del nuovo codice del 1942, i quali, malgrado i dubbi espressi dalla dottrina e i pareri di abolizione avanzati da alcuni Sindacati fascisti di avvocati e procuratori in sede di esame del progetto, mantennero il divieto, formulando nel capo III del titolo III ("della capacità di ricevere per testamento") nell'articolo 595, diversamente dai precedenti codici sotto il profilo di un'incapacità di ricevere da parte del coniuge del binubo: "Il coniuge del binubo non può ricevere da questo per testamento, sulla disponibile, più di quanto consegue, sulla disponibile stessa, il meno favorito dei figli di precedenti matrimoni. Per determinare la porzione del coniuge devono calcolarsi le donazioni da lui ricevute. L'eccedenza di cui é stato disposto a favore del coniuge, anche per donazione, deve essere divisa in parti eguali fra il coniuge medesimo e tutti i figli del testatore".

6. - La storia del divieto, risalendo, attraverso le legislazioni che si sono succedute nel tempo all'origine della norma, mostra come questa fosse soprattutto ispirata dall'ostilità verso le seconde nozze considerate come atto moralmente e giuridicamente riprovevole e si fondasse sul presupposto che il binubo fosse sempre esposto ai raggiri, artifizi e violenza da parte del nuovo coniuge per spogliarlo dei suoi averi, raggiri, artifizi e violenza ad evitare i quali non sarebbero state, in un secondo o successivo matrimonio, suflicienti le ordinarie disposizioni sulla captazione testamentaria. Scopo precipuo della norma era infatti quello di ostacolare le nuove nozze e di scoraggiarle, limitando la capacità giuridica dei binubi. L'ostilità del legislatore, malgrado che sia il codice civile del 1865 (art. 850), sia quello del 1942 (art. 636) dichiarassero illecita la condizione impedente le prime nozze e le ulteriori, si appalesa anche in talune norme del codice civile (tali ad esempio, quelle degli artt. 434, 149, 636, 328, sostituito dall'art. 151 della legge n. 151 del 1975, 340 e 31, abrogati dall'art. 159 della citata legge) nonché in disposizioni in tema di pensione di riversibilità della vedova binuba, nelle quali non appare estraneo, insieme ad altri presupposti, anche il disfavore verso i successivi matrimoni (V. art. 81 del t.u. sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato approvato con d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092; art. 42 del t.u. sulle pensioni di guerra approvato con d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915; V. anche art. 27 r.d. 17 agosto 1935, n. 1765).

7. - Il motivo invocato da taluni che il divieto di cui all'art. 595 fosse esclusivamente diretto a tutelare gli interessi dei figli di primo letto, se poteva avere un'apparenza di veridicità per le più antiche legislazioni, appariva in gran parte inconsistente e ormai superato una volta introdotto l'istituto della quota disponibile e della riserva ereditaria e data la possibilità di impugnare le disposizioni testamentarie affette di violenza, dolo od errore (art. 624 codice civile).

La norma denunziata, stabilendo che la condizione di colui che aveva contratto successivamente più matrimoni, costituisce un elemento discriminante rispetto alla capacità di qualunque altro cittadino celibe o coniugato una sola volta di disporre della quota disponibile dei suoi beni nei confronti del proprio coniuge e, correlativamente, rispetto alla capacità di questo coniuge di ricevere sulla quota disponibile, violava il principio costituzionale di uguaglianza di cui all'art. 3.

La differenza di trattamento fatto ai binubi, in confronto degli altri coniugati e in genere degli altri cittadini, non solo non trovava alcuna ragionevole giustificazione in motivi che comunque potessero identificarsi con i principi e i valori della Costituzione, soprattutto dell'art. 29, ma appariva rispondere a concetti del tutto superati e addirittura contrastanti con la logica del sistema creando una serie di situazioni palesemente assurda.

Infatti, mentre qualunque cittadino poteva disporre liberamente dei propri beni nei limiti della propria quota disponibile e poteva liberamente ricevere entro la quota disponibile di altri liberalità a proprio favore, ciò era vietato ai binubi e ai coniugi di questi per il solo fatto che esisteva fra loro un rapporto giuridico di matrimonio legittimo. I vedovi e i divorziati, come tutti gli altri cittadini, potevano invece disporre della loro quota disponibile a favore di qualsivoglia altra persona anche se con loro convivente more uxorio, o unita da vincolo di matrimonio religioso non trascritto, o unita da matrimonio legittimo successivamente annullato prima della morte del binubo, situazioni queste nelle quali i pericoli a danno dei figli di matrimoni anteriori di circumvenzione, di dolo o di violenza che si affermava volere impedire potevano esistere con assai maggiore incidenza e frequenza e con conseguenze assai più gravi.

L'assurdità risulta anche per situazioni nelle quali l'applicabilità del divieto dipendeva da situazioni del tutto accidentali e indipendenti dalla volontà delle persone.

Tale ad esempio quella del binubo il cui precedente o i precedenti matrimoni fossero dichiarati nulli, nel qual caso l'incapacità del testatore e del suo coniuge non esisteva, e così anche, secondo un'autorevole dottrina, quando la persona a favore della quale l'istituzione era stata fatta, aveva acquistato la qualità di coniuge legittimo dopo la confezione del testamento.

Del resto l'incapacità del binubo e del di lui coniuge si aveva solo in presenza, al momento dell'apertura della successione, di figli legittimi o legittimati per susseguente matrimonio che non fossero premorti o dichiarati indegni o avessero rinunziato all'eredità. Ciò creava una differenziazione rispetto alla capacità giuridica fra binubi con figli nati da precedenti matrimoni e binubi senza tali figli. L'incapacità, invece, non si verificava in presenza di figli legittimati per decreto del Capo dello Stato (ora con la riforma del 1975 con provvedimento del giudice: nuovo art. 284 del codice civile), di adottivi e di naturali in quanto non erano nati da precedenti matrimoni del binubo.

Altra situazione irrazionale, nella quale la capacità del binubo e del di lui coniuge risultava ancora limitata in confronto a quella degli altri cittadini, vi era quando al figlio meno favorito di precedenti matrimoni era lasciata la sola legittima. In tal caso il nuovo coniuge non poteva ricevere nulla sulla disponibile, ma conseguiva la sola riserva. Per di più, concorrendo con figli legittimi, la quota di riserva gli spettava soltanto in usufrutto con la conseguenza che il testatore non gli poteva lasciare nulla in proprietà.

Altra limitazione si era verificata dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 781 del codice civile (sentenza 14 giugno 1973, n. 91). Affermata la liceità delle donazioni fra coniugi, ne derivava che nel determinare la porzione del nuovo coniuge, si sarebbero dovute calcolare anche le donazioni fatte dal binubo al proprio coniuge durante il matrimonio. In tal modo, prima dell'abrogazione dell'art. 595, si sarebbe avuta un'ulteriore limitazione della capacità del binubo rispetto a quella degli altri cittadini, potendo questi fare donazioni al proprio coniuge e riducendosi invece quelle del binubo che concorressero a fare oltrepassare sulla disponibile quanto conseguiva il figlio meno preferito di precedenti matrimoni.

8. - La norma dell'art. 595 contrastava pertanto anche con l'art. 29 della Costituzione in quanto, limitando la capacità dei binubi e dei loro coniugi in confronto a quella degli altri coniugati, operava una distinzione giuridica fra il precedente matrimonio legittimo e i successivi, ponendo i coniugi di successivi matrimoni in uno stato di inferiorità giuridica in confronto dei coniugi precedenti. Questa distinzione non si conciliava con l'art. 29 della Costituzione, il quale non differenzia fra loro i matrimoni legittimi, ma vuole questi ordinati sulla uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e tanto meno consente di disciplinare in modo diverso il primo matrimonio da quelli successivi.

A base del divieto di cui all'art. 595, così come a base di quello dell'art. 781 dichiarato costituzionalmente illegittimo, vi era la presunzione, denunziata dalla Corte nella sua citata sentenza n. 91 del 1973, che il matrimonio legittimo creasse fra i coniugi uno stato reciproco di ineguaglianza e di inferiorità, non riscontrabile nelle altre forme di unioni coniugali non legittime, per cui ciascun coniuge potesse essere sempre circuito o costretto dall'altro a spogliarsi a favore di questo dei suoi beni, presunzione questa incompatibile con l'uguaglianza civile e morale dei coniugi. Come nella citata sentenza n. 91 del 1973, riguardo alla statuizione di incostituzionalità dell'art. 781, la Corte, anche rispetto all'art. 595, osserva che questa presunzione contrasta con la stessa realtà giuridica in quanto la persona unita all'altra da vincolo coniugale legittimo é meno esposta a soggiacere a seduzioni e pressioni affettive da parte dell'altro coniuge dirette ad ottenere liberalità, che non invece la persona non unita ad altra con siffatto vincolo, la quale più facilmente può essere indotta a cedere a ricatti affettivi e a compiere liberalità sotto la minaccia di non legittimare l'unione illegittima o di farla cessare.

9. - L'esame della legislazione italiana dopo la II guerra mondiale mostra, attraverso una serie di abrogazioni di norme limitatrici della capacità giuridica dei binubi, il progressivo abbandono da parte del legislatore del disfavore verso le seconde nozze. L'abrogazione effettuata dal legislatore con la legge 19 maggio 1975, n. 151 dell'art. 595 del codice civile ha operato decisamente in questa direzione adeguando il diritto di famiglia e di successione ai principi espressi nella Costituzione e giova anche essa a rivelare uno stato di illegittimità costituzionale esistente prima della riforma del 1975.

Devesi pertanto dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 595 nel testo abrogato dall'art. 196 della legge 19 maggio 1975, n. 151 e di conseguenza anche l'incostituzionalità dell'art. 599 del codice civile nella parte in cui richiamava l'art. 595 del medesimo codice.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 595 del codice civile nel testo abrogato dall'art. 196 della legge 19 maggio 1975, n. 151 e dell'art. 599 del codice civile nella parte in cui richiama il predetto art. 595.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 dicembre 1979.

Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 20 dicembre 1979.