Sentenza n. 71 del 1979
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SENTENZA N. 71

ANNO 1979

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Prof. Leonetto AMADEI, Presidente

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 423 e 449 del cod. pen. promosso con ordinanza emessa il 25 novembre 1977 dal tribunale di Pistoia, nel procedimento penale a carico di Paccagnini Remo, iscritta al n. 96 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 115 del 26 aprile 1978.

Udito nella camera di consiglio del 5 aprile 1979 il Giudice relatore Alberto Malagugini.

Ritenuto in fatto

In un procedimento penale a carico di Paccagnini Remo, imputato del delitto di cui all'art. 449 cod. pen. per avere, per colpa, cagionato un incendio propagatosi in un bosco di circa 1800 mq., il tribunale di Pistoia, accogliendo un'istanza della difesa, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 423- 449 cod. pen., in relazione agli artt.3 e 24 Cost., ritenendo "generica e non convincente" la sentenza 27 dicembre 1974, n. 286, con la quale la Corte costituzionale ha già respinto la medesima questione.

Considerato in diritto

1. - Il tribunale di Pistoia dubita della legittimità costituzionale degli artt. 423-449 cod. pen., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., "sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento che tale normativa pone fra colui che incendia la cosa propria e colui che, invece, incendia l'altrui, nel prevedere che nella prima ipotesi il reato sia punibile solo se dal fatto derivi pericolo per l'incolumità pubblica, pericolo sempre presunto nella seconda ipotesi".

Il giudice a quo ritiene irrazionale la differente disciplina delle due fattispecie, nelle quali identico é il bene tutelato - la pubblica incolumità - mentre é diversa, ma a suo avviso irrilevante, la relazione dell'agente con la cosa incendiata, propria ovvero altrui.

Quanto alla rilevanza, il tribunale di Pistoia la deduce dalla considerazione che nella fattispecie in esame sarebbero pacifiche "e la tipicità del fatto e la carenza del periodo per la incolumità pubblica" parendogli, infine, la questione non manifestamente infondata nonostante la decisione in termini, di cui alla sentenza n. 286 del 1974, di questa Corte.

2. - La questione non é fondata.

L'art. 423, primo comma, del codice penale punisce con la reclusione da tre a sette anni "chiunque cagiona un incendio".

Per effetto del capoverso del medesimo art. 423 cod. pen., tale disposizione, di carattere generale, "si applica anche nel caso di incendio di cosa propria, se dal fatto deriva pericolo per la incolumità pubblica".

L'art. 449, primo comma, cod. pen., a sua volta, punisce con la reclusione da uno a cinque anni, per quanto interessa nei limiti del presente giudizio, "chiunque cagiona per colpa un incendio".

L'art. 423 del codice penale prevede, dunque, a tutela della incolumità pubblica, due distinte fattispecie criminose, alle quali é comune l'elemento materiale - incendio - che richiede il medesimo dolo generico.

Mentre però l'incendio di cosa altrui é configurato come un reato di pericolo presunto, per la punibilità dell'incendio di cosa propria tale pericolo deve essere concretamente accertato.

Per rimanere all'ipotesi di incendio di cosa altrui (art. 423, primo comma, cod. pen.), in relazione alla quale (ex art. 449, primo comma, cod. pen.) é stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, la presunzione del conseguente pericolo per la incolumità pubblica, in tanto si giustifica, sul piano logico-giuridico, in quanto l'elemento materiale del delitto considerato - identico anche per l'ipotesi colposa - e cioè, il fuoco-incendio, abbia caratteristiche tali da renderne deducibile in via normale il pericolo per la incolumità pubblica.

Perciò dottrina e giurisprudenza pressoché univoche ritengono che non basti un qualunque fuoco volontariamente appiccato su cosa altrui perché si verifichi l'elemento materiale del delitto di incendio, ma che occorrano, invece, una entità dell'incendio ed una collocazione della cosa incendiata idonee, nelle circostanze date, a provocare pericolo per la incolumità pubblica. Se queste condizioni non si verificano - se cioè l'entità dell'incendio o la collocazione della cosa incendiata sono tali da escludere la possibilità dell'evento pericoloso - l'agente non é punibile, per il titolo di cui all'art. 423, primo comma, cod. pen., (né, a titolo di colpa, ai sensi dell'art. 449, primo comma, cod. pen.).

3. - Tenendo presenti orientamenti, giustamente questa Corte, con la sentenza n. 286 del 1974, ha rilevato che "il diritto vivente finisce, se non con l'identificare, certo col ravvicinare assai le fattispecie dell'incendio di cosa propria e dell'incendio di cosa altrui".

La diversa disciplina adottata dal legislatore per l'incendio di cosa propria, secondo la relazione al C. P. del 1930, é ispirata "alla conciliazione del diritto di proprietà con la necessità di difendere la pubblica incolumità" essendo "sembrato giusto che il diritto del proprietario a disporre della cosa propria come meglio gli piace debba essere disconosciuto solo di fronte alla reale esistenza del pericolo per la pubblica incolumità e non solamente per effetto di quella presunzione di pericolo che inerisce ad alcuni fatti per disposizione di legge fondata sull'id quod plerumque accidit".

La scelta legislativa così operata per l'incendio di cosa propria, già criticata nel corso dei lavori preparatori del codice penale, potrebbe apparire ispirata a criteri superati e non più rispondente ad una corretta valutazione del diritto di proprietà e dei modi del suo godimento, correlati al fine di assicurarne la funzione sociale, nonché incongrua rispetto alla oggettività giuridica del reato d'incendio. Per questo, nel progetto preliminare al codice penale, elaborato nell'ormai remoto 1930, mentre si é ritenuta "tecnicamente poco apprezzabile" la distinzione tra "pericolo in astratto", e "pericolo in concreto" per la difficoltà di determinare ed accertare il quid pluris che al secondo dovrebbe inerire rispetto al primo, si é riconosciuta "non giustificata dai moderni orientamenti in tema di proprietà" la "speciale disciplina dell'incendio, nel caso in cui questo sia effettuato su cosa propria". La conseguente proposta di legge era di eliminare questa speciale disciplina mantenendo il solo primo comma dell'art. 423 cod. pen.

4. - Vero é che il giudice a quo, per quanto é dato desumere dalla assai scarna motivazione addotta, muove nella direzione opposta.

Denunziando gli artt. 423-449 cod. pen. in relazione all'art. 3 (e 24) Cost., nel corso di un procedimento penale per incendio colposo di cosa altrui, il tribunale di Pistoia sembra infatti dedurre la illegittimità della disciplina generale, dettata dall'art. 423, primo comma, cod. pen., dal diverso trattamento riservato, in via derogatoria, dal cpv. dell'articolo medesimo, a chi incendia la cosa propria.

Si invoca, dunque, una applicazione del principio di uguaglianza in senso inverso a quello naturale, presupponendo con ciò che, tra le diverse scelte cui il legislatore avrebbe potuto accedere, solo quella adottata per chi incendi la cosa propria (rapportata ad un pericolo accertabile) abbia quella ragionevolezza intrinseca che invece non sarebbe ravvisabile nella disciplina normativa dell'incendio di cosa altrui (rapportata ad un pericolo presunto).

La stessa prospettazione della questione ne denunzia la infondatezza, non sembrando ipotizzabile, nell'ambito di scelte di politica criminale riservate alla discrezionalità del legislatore, una censura ancorata al parametro dell'art. 3, primo comma, Cost., che investa la disciplina generale di una determinata fattispecie.

Si deve, comunque, concludere che le scelte del legislatore, erano e rimangono espressione di una discrezionalità che, in quanto riferita a due fattispecie tipiche a costituire le quali é stato preso in considerazione anche il rapporto - di proprietà oppure no - tra l'agente e la cosa incendiata, rendono costituzionalmente non censurabile la differenza di trattamento dell'una rispetto all'altra.

Soltanto il legislatore potrà, infatti, ritenere l'opportunità o meno di modificare la disciplina normativa in esame, unificando il trattamento penale delle due fattispecie e scegliendo la soglia di pericolosità, presunta o concretamente accertata, alla quale rapportare per entrambe l'evento, appunto, di pericolo.

5. - Quanto alla pretesa violazione dell'art. 24 Cost., in mancanza della benché minima motivazione sul punto da parte del giudice a quo, basterà ribadire che "la garanzia giurisdizionale della difesa é riconosciuta entro i confini della configurazione giuridica di diritto sostanziale" (sent. 286/74).

Non é perciò ravvisabile violazione del diritto alla difesa nel divieto di provare un elemento estraneo alla fattispecie giudicanda.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità degli articoli 423 e 449 cod. pen., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., sollevata dal tribunale di Pistoia con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 1979.

Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 16 luglio 1979.