Sentenza n. 5 del 1978
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SENTENZA N. 5

ANNO 1978

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, quarto comma, del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (t.u. leggi per la elezione della Camera) e art. 2 della legge 27 febbraio 1958, n. 64, nella parte in cui rinvia al detto art. 7, promosso con ordinanza emessa il 16 novembre 1976 dal tribunale di Bari, nel giudizio elettorale promosso da Achille Tarsia Incuria contro Tatarella Giuseppe, iscritta al n. 110 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 107 del 20 aprile 1977.

 

Visto l'atto di costituzione di Tatarella Giuseppe, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 30 novembre 1977 il Giudice relatore Brunetto Bucciarelli Ducci;

 

uditi l'avv. Massimo Severo Giannini, per il Tatarella e il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

Nel corso di un giudizio elettorale promosso da Achille Tarsia Incuria per ottenere la dichiarazione di decadenza dalla carica di Consigliere regionale di Tatarella Giuseppe, il tribunale di Bari ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 7, quarto comma, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (e 2 della legge 27 febbraio 1958, n. 64, per la parte in cui richiama detto art. 7), in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione.

Il giudice a quo premette che la norma impugnata é rilevante ai fini del decidere, disattendendo le eccezioni del Tatarella dirette a dimostrare l'avvenuta abrogazione di essa per effetto della legge 17 febbraio 1968, n. 108, contenente disposizioni sulla elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale.

Nel merito il tribunale di Bari osserva che l'impugnato art. 7 del t.u. del 1957 sulle elezioni alla Camera dei deputati, che sancisce l'ineleggibilità a deputato del Consigliere regionale, comminando la decadenza dalla relativa carica per effetto della mera accettazione della candidatura alle elezioni politiche, contrasta con gli artt. 3 e 51 Cost., perché determinerebbe un trattamento ingiustificatamente deteriore dei consiglieri regionali rispetto ai Presidenti delle Giunte provinciali ed ai Sindaci dei Comuni con oltre 20.000 abitanti. Questi ultimi infatti, pur decadendo da quelle cariche per effetto della candidatura a deputato, potrebbero, secondo l'ordinanza di remissione, essere nuovamente eletti Presidenti e Sindaci, non essendo stata sancita alcuna incompatibilità con la perdurante qualità di consigliere provinciale o comunale. Altra disparità di trattamento sarebbe ravvisabile nei confronti dei deputati che presentatisi candidati alle elezioni regionali, non siano risultati eletti, prevedendo il legislatore, per tale ipotesi, inversa a quella in contestazione, una mera incompatibilità tra uffici anziché un caso di ineleggibilità.

Il tribunale di Bari ha infine esteso la censura prospettata all'art. 2 della legge 27 febbraio 1958, n. 64, nella parte in cui la legge elettorale sul Senato rinvia ai requisiti di eleggibilità a deputato, avendo il Tatarella presentato la propria candidatura anche per il Senato.

É intervenuto in giudizio innanzi a questa Corte il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, con atto depositato il 9 marzo 1977, la quale ha concluso per l'infondatezza della questione sollevata.

La difesa dello Stato osserva che il trattamento differenziato denunciato dal giudice a quo non appare irrazionale sotto nessuno dei due profili indicati:

a) perché il legislatore può aver ragionevolmente ritenuto, nell'esercizio della sua discrezionalità legislativa, che il consigliere regionale, se rimane in carica durante le elezioni politiche, può influire sulle medesime molto più del consigliere comunale o provinciale, di cui non ha previsto la decadenza;

b) perché parimenti attendibile appare la valutazione normativa secondo cui il consigliere regionale potrebbe esplicare un'influenza non commendevole sulla elezione a deputato ove perdurasse in carica, mentre il rischio che il deputato si valga della sua qualità per captare la benevolenza degli elettori nella competizione regionale apparirebbe molto più remoto.

Si é costituito in giudizio il dr. Giuseppe Tatarella, rappresentato e difeso dagli avvocati Piernicola De Leonardis e Aurelio Gironda, con atto di deduzioni depositato il 2 maggio 1977, chiedendo principalmente che venga dichiarata l'inapplicabilità, al caso di specie, della norma impugnata, di cui assume l'abrogazione, e, subordinatamente, che ne sia dichiarata l'illegittimità costituzionale.

La difesa della parte privata premette che la decadenza comminata dal denunciato art. 7 - valevole, all'epoca della sua emanazione, limitatamente ai consiglieri o deputati regionali delle Regioni a statuto speciale - risulta oggi abrogata per effetto della legge 17 febbraio 1968, n. 108, sulle elezioni dei Consigli delle Regioni a statuto normale. Infatti ciò deriverebbe dall'art. 6 di detta legge che, statuendo una mera incompatibilità dell'ufficio di consigliere regionale con quello di membro di una delle Camere prevede parimenti, all'art. 7, che le cause di incompatibilità, sia che esistano al momento della elezione, sia che sopravvengano, importino decadenza dall'ufficio di consigliere regionale quando questi non eserciti l'opzione prevista dall'art. 18 stessa legge. Il raffronto con tale successiva normativa dimostrerebbe l'abrogazione dell'impugnato art. 7 del t.u. del 1957, risultando così inapplicabile la decadenza in esso prevista, quanto meno per le Regioni a statuto ordinario.

Nel merito, ed in via subordinata, la difesa del Tatarella ricorda il principio affermato più volte dalla Corte costituzionale, secondo cui di fronte alla generalità del diritto di elettorato passivo, assicurato dall'art. 51 della Carta, le cause di ineleggibilità "sono di stretta interpretazione e devono comunque rigorosamente contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate" (sentenza n. 46 del 1969). Applicando gli insegnamenti della Corte alla norma denunciata - quali risulterebbero anche dalle sentenze n. 58 del 1972 e n. 129 del 1975 - la parte privata conclude osservando che essa sancisce conseguenze gravissime (la decadenza dalla carica di consigliere regionale) senza che vi sia già in atto una situazione conflittuale che la giustifichi.

Infine viene richiamato il disposto dell'art. 122, secondo comma, della Costituzione, secondo cui "nessuno può appartenere contemporaneamente ad un Consiglio regionale e ad una delle Camere del Parlamento o ad un altro Consiglio regionale". Tale norma costituzionale dovrebbe valere anche come criterio ermeneutico per addivenire alla conclusione che l'impugnato art. 7 del t.u. n. 361 del 1957 o é stato abrogato o si applica alle sole Regioni a statuto speciale o comunque contrasta con l'intento dei costituenti di prevedere una mera incompatibilità tra le due cariche.

Con la memoria depositata il 17 novembre 1977 la difesa dello Stato rileva che é errata la tesi del Tatarella secondo cui la norma denunciata dal giudice a quo sarebbe stata abrogata, osservando che la legge sulle elezioni dei consigli regionali non avrebbe avuto motivo di modificare le condizioni di eleggibilità a deputato, e che é ben possibile che il deputato possa esser eletto consigliere regionale e vi sia incompatibilità tra le due funzioni, attesa la piena autonomia tra le nozioni di ineleggibilità ed incompatibilità, che assolvono a finalità diverse.

Alla pubblica udienza le parti hanno insistito nelle rispettive tesi.

 

 

Considerato in diritto

 

 

1) La Corte é chiamata a decidere se l'art. 7, quarto comma, del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, secondo cui l'accettazione della candidatura a deputato comporta in ogni caso la decadenza dalla carica di consigliere o deputato regionale, contrasti o meno con gli artt. 3 e 51 della Costituzione. É altresì denunciato, per gli stessi motivi, l'art. 2 della legge 27 febbraio 1958, n. 64, nella parte in cui estende la disciplina descritta alle elezioni per il Senato.

É prospettato il dubbio che le norme impugnate implichino un trattamento ingiustificatamente deteriore del consigliere regionale rispetto ai presidenti delle Giunte provinciali ed ai sindaci dei comuni con più di 20.000 abitanti, e anche rispetto ai parlamentari che, volendo partecipare a competizioni elettorali regionali, non incorrono in alcuna decadenza essendo per essi prevista una mera incompatibilità qualora vengano eletti. Inoltre l'ineleggibilità del consigliere regionale a deputato o a senatore (con comminatoria di decadenza sin dal momento dell'accettazione della candidatura) é censurata per contrasto con il generale diritto di accedere alle cariche elettive, garantito dall'art. 51 Cost.

2) Le questioni non sono fondate.

Prima ancora di porre in luce il significato e la precisa funzione delle norme impugnate, occorre vagliare la fondatezza della tesi della parte privata secondo cui esse sarebbero state abrogate dalla legge 17 febbraio 1968, n. 108,  (recante norme per la elezione dei consigli regionali a statuto ordinario). L'art. 6 di tale legge, che prevede le cause di incompatibilità, ribadisce, tra l'altro, l'incompatibilità dell'ufficio di consigliere regionale con quello di membro di una delle due Camere (già sancito dall'art. 122 Cost.), mentre l'art. 7 dispone che tutte le cause di incompatibilità previste dall'art. 6, sia che esistano al momento della elezione, sia che sopravvengano ad essa, importano decadenza dall'ufficio di consigliere regionale, quando quest'ultimo non eserciti l'opzione nei modi prescritti.

Dal combinato disposto delle due previsioni la difesa del Tatarella deduce che la denunciata ineleggibilità non sussiste più, essendo stata sostituita da una mera incompatibilità funzionale, sicché il consigliere regionale potrebbe candidarsi alle elezioni politiche senza incorrere in alcuna decadenza, salva soltanto, in caso di avvenuta elezione al Parlamento, la necessità di esercitare la opzione tra le due cariche.

La Corte non condivide tale interpretazione, che del resto é stata disattesa dallo stesso giudice a quo, non ricorrendo nella specie alcuna delle ipotesi di abrogazione configurabili ai sensi dell'art. 15 delle preleggi.

Il testo unico n. 361 del 1957 é volto a disciplinare nel suo complesso il sistema delle elezioni alla Camera dei deputati, e determina, tra l'altro, le ipotesi di ineleggibilità di coloro che vi partecipano come candidati, mentre le cause di incompatibilità sono fondamentalmente disciplinate dalla legge 15 febbraio 1953, n. 60. La citata legge 108 del 1968 disciplina, invece, le elezioni dei consigli regionali ordinari, regolamentando, tra l'altro, le relative cause di ineleggibilità ed incompatibilità.

Non può quindi condividersi la suggestiva argomentazione difensiva che dalla configurazione della sopravvenuta incompatibilità dell'ufficio di parlamentare con quello di consigliere regionale - ricavabile dalle disposizioni menzionate - vuole dedurre che in tanto la norma ha un significato e una sua ragione d'essere in quanto abbia necessariamente supposto il caso del consigliere regionale che abbia potuto presentarsi (con successo) alle elezioni politiche, con conseguente abrogazione della ineleggibilità denunciata.

Può infatti obiettarsi che l'art. 7 della legge n. 108 del 1968, mentre trova applicazione per tutte le altre incompatibilità previste dall'art. 6, originarie o sopravvenute alla elezione a consigliere regionale, esplica effetto anche per quanto attiene alla fattispecie particolare dei rapporti tra l'ufficio di consigliere regionale e di membro di una delle Camere, ma in un caso diverso da quello ipotizzato (contra legem) dal Tatarella; e cioè quando il consigliere regionale, presentatosi precedentemente e senza successo alle elezioni politiche, (prima ancora di rivestire la carica di consigliere) sia poi chiamato a far parte del Parlamento a seguito di surrogazione.

Disconosciuta pertanto l'incompatibilità tra le due normative, entrambe in vigore nel rispettivo ambito, può essere affrontato il merito della questione.

3) L'impugnato art. 7 del t.u. n. 361 del 1957 stabilisce chiaramente che i consiglieri regionali, i presidenti delle Giunte provinciali ed i sindaci dei Comuni con più di 20.000 abitanti sono ineleggibili a deputato.

Gli interessati possono, tuttavia, sottrarsi a tali cause di ineleggibilità cessando realmente dalle funzioni esercitate, previa presentazione delle dimissioni, almeno 180 giorni prima della data di scadenza del quinquennio di durata della Camera cui intendono candidarsi o sette giorni dopo il decreto di scioglimento in caso di elezioni anticipate. Per rafforzare tale ineleggibilità, ed evitare inconvenienti sorti nella pratica, il legislatore ha sancito, nel 1956, la decadenza dagli uffici menzionati come effetto automatico della accettazione della candidatura delle elezioni politiche.

Dalla interpretazione letterale e sistematica della norma impugnata, che configura una causa specifica di ineleggibilità, emerge la relativa ratio, confermata anche dai lavori preparatori della legge elettorale del 1948, approvata dalla stessa assemblea costituente, e da quelli della novella del 1956. Si é voluto cioè impedire che i titolari di determinati importanti uffici potessero valersi dei poteri connessi alla loro carica per influire indebitamente sulla competizione elettorale, esercitando una captatio benevolentiae o un metus publicae potestatis nei confronti degli elettori. Ciò é dimostrato anche dalla prevista sanzione della decadenza che nella fattispecie avrebbe dovuto essere immediatamente dichiarata da parte dei competenti organi regionali.

Né può ritenersi che il legislatore, al fine di tutelare l'anzidetto interesse pubblico sostanziale, abbia adottato uno strumento eccessivo rispetto allo scopo perseguito.

Non é infatti fondatamente opinabile che sarebbe stata sufficiente la sussistenza di una mera incompatibilità tra le cariche di consigliere regionale e deputato al Parlamento, giacché l'incompatibilità assolve ad un suo proprio scopo - sostanzialmente quello di evitare la contemporanea titolarità di due uffici validamente conseguiti - mentre l'ineleggibilità che ha la funzione sopra menzionata deve operare fin dall'inizio della competizione elettorale. Quindi la previsione dell'art. 122 Cost. non vale ad escludere che la legge ordinaria consideri senz'altro i consiglieri regionali ineleggibili a parlamentari.

Per inquadrare la normativa impugnata nell'ambito dei principi costituzionali che ne sono a fondamento, occorre ricordare che la Costituzione ha fissato taluni criteri basilari, pur rinviando alla legge ordinaria sia per la determinazione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di deputato o di senatore (art. 65 Cost.), sia per la disciplina delle ineleggibilità ed incompatibilità dei consiglieri regionali (art. 122 Cost.), anche se ha ritenuto necessario determinare essa stessa taluni particolari casi di incompatibilità (citati artt. 65 e 122). L'art. 51 della Costituzione infatti garantisce a tutti la possibilità di accedere alle cariche elettive "in condizioni di eguaglianza e secondo i requisiti stabiliti dalla legge".

La prospettata violazione dell'art. 51 Cost. é stata direttamente collegata all'orientamento di questa Corte secondo cui l'eleggibilità é la norma, l'ineleggibilità é l'eccezione, e "le cause di ineleggibilità... devono comunque rigorosamente contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate" (sentenza n. 46 del 1969). Tale affermazione deve però esser coordinata con l'altra, più volte formulata, secondo cui il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità politica può stabilire, per categorie generali ed astratte, cause di ineleggibilità volte ad assicurare la libera e genuina espressione del voto popolare nonché la primaria esigenza della autenticità della competizione elettorale (sentenze nn. 38 del 1971 e 45 del 1977).

Va pertanto riconosciuta, sulla scorta di tali criteri, la giustificazione della norma impugnata, in quanto sancisce la ineleggibilità alla Camera e al Senato del consigliere regionale presentatosi candidato in circoscrizioni elettorali comprese nell'ambito territoriale della Regione, come é avvenuto nel caso in esame. Detta ineleggibilità, potrebbe, semmai, non apparire altrettanto giustificata secondo gli orientamenti giurisprudenziali di questa Corte laddove produca effetti per tutto il territorio nazionale anziché nell'ambito della Regione nella quale il consigliere regionale eserciti il proprio mandato: ma siffatta questione non costituisce oggetto del giudizio sottoposto a questa Corte.

4) Nemmeno sussiste la denunciata violazione dell'art. 3 Cost. perché le situazioni comparate dal giudice a quo sono tra loro eterogenee.

Sotto un primo profilo é pur vero che la qualità di deputato o senatore non impedisce la partecipazione di essi alla competizione elettorale regionale, tuttavia non é riscontrabile in dette qualità un collegamento tanto penetrante fra funzioni attribuite ed ambito territoriale ove si svolge la competizione elettorale, da giustificare, di per sé solo, la configurazione di un'ulteriore causa di ineleggibilità. Sicché la mera incompatibilità prevista per tale ipotesi assolve correttamente al suo scopo di evitare il cumulo di cariche considerate fra loro incompatibili.

Neppure é pertinente la contrapposizione posta in evidenza dal giudice a quo, secondo cui il consigliere regionale che non riesce alle elezioni politiche perde ogni incarico, mentre il Presidente di Giunta provinciale o il Sindaco (dei Comuni con più di ventimila abitanti), in caso di insuccesso, rimane consigliere provinciale o comunale, e potrebbe essere rieletto all'ufficio prima ricoperto. In tale prospettazione sembra infatti celarsi un equivoco: invero o si é inteso denunciare una pretesa disparità di trattamento fra le cariche di consigliere regionale e quelle di presidente provinciale o di sindaco, e allora la censura é ictu oculi contraddetta dalla lettera della norma impugnata, che sancisce l'identica ineleggibilità in tutti e tre i casi, sempre aggravata dalla decadenza dalle cariche menzionate; o, invece, si é voluto denunciare la circostanza che il consigliere regionale é ineleggibile a differenza di quello provinciale o comunale, ma allora é facile obiettare in contrario che rientra nella discrezionalità del legislatore una valutazione differenziata delle funzioni comparate, attesa la minore importanza delle ultime due, e quindi la diversa possibilità di un'indebita influenza sull'elettorato.

 

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7, quarto comma, D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (testo unico per la elezione della Camera dei deputati), e 2, legge 27 febbraio 1958, n. 64, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, con l'ordinanza del tribunale di Bari in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 1978.

 

Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN  - Arnaldo MACCARONE

 

 Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 16 gennaio 1978.