Sentenza n. 108 del 1977
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SENTENZA N. 108

ANNO 1977

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo unico della legge 3 maggio 1956, n. 392 (Assicurazione obbligatoria di invalidità, vecchiaia e tubercolosi ai religiosi che prestano attività di lavoro presso terzi), promosso con ordinanza emessa il 4 maggio 1974 dal pretore di Asti, nel procedimento civile vertente tra Amerio Pasquale e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 457 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 del 3 gennaio 1975.

Visto l'atto di costituzione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 febbraio 1977 il Giudice relatore Leopoldo Elia;

uditi l'avv. Gianni Romoli, per l'INPS, e il sostituto avvocato generale dello Stato Carlo Bafile, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Amerio Pasquale, con ricorso presentato al pretore di Asti, premesso che, in conseguenza del lavoro prestato nel periodo 1 maggio 1964-31 dicembre 1970 alle dipendenze della Parrocchia di S. Damiano nella sua qualità di sacerdote, era divenuto titolare di una posizione assicurativa presso l'Istituto nazionale previdenza sociale, che tuttavia il medesimo Istituto aveva provveduto ad annullare la sua posizione negando potesse qualificarsi lavoro subordinato il rapporto di cui si é detto a causa dello status di religioso del prestatore d'opera e che pertanto era stata anche revocata l'autorizzazione alla prosecuzione volontaria, chiedeva si dichiarasse soggetto all'obbligo di assicurazione sociale tale rapporto e dunque valida a tutti gli effetti di legge la sua posizione assicurativa presso l'I.N.P.S., la contribuzione obbligatoria effettuata e la prosecuzione volontaria.

L'Istituto nazionale previdenza sociale si costituiva chiedendo il rigetto della domanda.

Rilevava che l'articolo unico della legge 3 maggio 1956, n. 392 recante "Per l'assicurazione obbligatoria di invalidità, vecchiaia e tubercolosi ai religiosi che prestano attività di lavoro presso terzi" prevede l'obbligo assicurativo per i religiosi solo in quanto prestino attività lavorativa alle dipendenze di soggetti giuridici diversi dagli enti ecclesiastici, associazioni, case religiose di cui all'art. 29 lett. a) e b) del Concordato; nella fattispecie appunto l'Amerio aveva prestato attività alle dipendenze di una parrocchia e dunque di ente ecclesiastico ricompreso fra quelli previsti dal detto art. 29 lett. a) del Concordato.

Il pretore di Asti, con ordinanza emessa all'udienza del 4 maggio 1974, su conforme eccezione del ricorrente, proponeva due questioni di legittimità costituzionale relative entrambe all'articolo unico della legge 3 maggio t956, n. 392, per contrasto con l'art. 3 e con l'art. 38 della Costituzione.

Riteneva le questioni rilevanti dato che, in presenza di tale norma, non sarebbe possibile neppure dare ingresso alle prove concernenti il rapporto interrotto fra l'Amerio e la Parrocchia di S. Damiano.

Riteneva inoltre non manifestamente infondata la questione relativa al contrasto fra l'articolo unico della legge n. 392 del 1956 e l'art. 38 Cost., essendo il diritto alla tutela previdenziale riconosciuto a tutti coloro che prestano attività lavorativa a prescindere dal contenuto e dalla natura di questa. Una esclusione da siffatta tutela potrebbe concepirsi per il sacerdote che é titolare di un beneficio ecclesiastico, data la sua particolare posizione, non anche per il sacerdote (sia esso appartenente al clero secolare o sia un religioso) che di tale beneficio non é titolare, pur quando presti la sua opera in favore di ente ecclesiastico, associazione, casa religiosa prevista dal Concordato. La tutela previdenziale dello Stato nei confronti del religioso, d'altra parte, non violerebbe la sovranità della Chiesa, dato che non interferirebbe con il contenuto ecclesiale dell'attività svolta.

Riteneva, infine, non manifestamente infondata la questione relativa al contrasto fra detta norma e l'art. 3 Cost. dato che, alla stregua dell'art. 3 r.d. 28 agosto 1924, n. 1422, così come interpretato in giurisprudenza, viene riconosciuto un diritto alla tutela previdenziale al sacerdote appartenente al clero secolare che svolga attività in favore di ente concordatario e non si ravviserebbero motivi idonei per diversamente regolare l'ipotesi consimile in cui tale attività sia svolta da un religioso.

2. - Si costituiva in giudizio innanzi a questa Corte l'Ente Nazionale Previdenza Sociale il quale innanzi tutto eccepiva irrilevanza delle questioni sollevate, assumendo che un accertamento relativo alla esistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra Amerio Pasquale e la Parrocchia di S. Damiano condizionerebbe ogni problema di applicabilità dell'articolo unico della legge n. 392 del 1956; assumendo inoltre che mancherebbe allo stato ogni prova circa l'effettiva qualità di religioso di Amerio Pasquale e circa la sua appartenenza ad una Congregazione. Nel merito chiedeva si pronunciasse decisione di rigetto. Negava infatti potesse ritenersi violato l'art. 3 Cost. tenuto conto del diverso status e dei diversi poteri del religioso e dell'appartenente al clero secolare; i voti di castità, di povertà e, soprattutto, di obbedienza che il religioso pronunzia, la sua appartenenza ad una comunità che costituisce una garanzia di assistenza e di mantenimento verrebbero ad integrare uno status complessivamente non comparabile con quello del clero secolare. Per motivi analoghi dovrebbe inoltre ritenersi infondata la questione relativa alla pretesa violazione dell'art. 38 Cost., dato che appunto l'operante efficacia del voto di obbedienza escluderebbe la possibilità di un rapporto di lavoro subordinato fra religioso ed ente ecclesiastico.

Interveniva inoltre il Presidente del Consiglio dei ministri, attraverso l'Avvocatura dello Stato, eccependo irrilevanza delle questioni e chiedendo nel merito il rigetto di esse. Solo al termine di una indagine relativa alla esistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra Amerio Pasquale e la menzionata Parrocchia potrebbe infatti sorgere un problema di applicabilità della norma di cui si tratta. Il lavoro prestato dal religioso nell'ambito della "famiglia" religiosa sarebbe poi oggetto degli specifici doveri che costui assume acquisendo lo status che gli é proprio e non potrebbe essere ricondotto in alcun modo entro gli schemi del lavoro subordinato. Un recente decreto della S. Congregazione dei Religiosi (De ausilio eis qui Institutum deserunt praebendo del 25 gennaio 1974) provvederebbe, del resto, a garantire adeguata assistenza ai religiosi che si secolarizzano. Tutto ciò escluderebbe l'invocabilità dell'art. 38 Cost.; escluderebbe inoltre una violazione del principio di eguaglianza, data appunto l'impossibilità di comparare lo status di religioso con quello di appartenente al clero secolare.

3. - Con successiva memoria l'Avvocatura dello Stato, pur ammettendo che l'attività svolta dal religioso nella fattispecie deve considerarsi prestata a favore di terzo e non della "famiglia" religiosa di appartenenza, osservava che non avrebbe peraltro mai potuto essere ricondotta nello schema del lavoro subordinato, essendo prestata in adempimento di un dovere di obbedienza che sussisterebbe pur sempre nei confronti dell'ordine, che terzo non può considerarsi. Ogni intervento dello Stato in questo settore - che avrebbe carattere prettamente spirituale - violerebbe del resto la sovranità e l'indipendenza della Chiesa, riconosciute e garantite dall'art. 7 della Costituzione.

Nella discussione le parti costituite si riportavano ai rispettivi scritti difensivi.

Considerato in diritto

Sia la difesa dell'INPS che l'Avvocatura dello Stato eccepiscono la irrilevanza della questione di legittimità costituzionale. Secondo la prima manca addirittura la certezza che il sacerdote don Pasquale Amerio appartenga al clero regolare; ma risulta allora incomprensibile il comportamento dell'INPS, che ha annullato la posizione assicurativa dell'Amerio proprio in ragione della sua qualifica di "religioso", richiamandosi alla legge 3 maggio 1956, n. 392, articolo unico, che prende in considerazione soltanto i religiosi e le religiose ed esclude dalla copertura assicurativa questi lavoratori in quanto prestano attività di lavoro retribuite alle dipendenze degli enti ecclesiastici e delle associazioni religiose di cui all'art. 29, lett. a e b del Concordato. Era dunque ovvio che il pretore ritenesse esistente tale presupposto di fatto, non contestato nel giudizio a quo da nessuna delle parti. Quanto alla seconda eccezione di irrilevanza, avanzata sia dall'Avvocatura dello Stato che dalla difesa dell'INPS, essa si fonda sulla affermazione finale del pretore di Asti che soltanto dopo la pronunzia di questa Corte circa la legittimità costituzionale della norma sui casi di esclusione dalla copertura assicurativa, previsti dal citato articolo, sarà possibile al giudice a quo indagare sulla esistenza, nella fattispecie, di un rapporto di lavoro retribuito.

Ma al di là delle espressioni usate nell'ordinanza, é chiaro che la norma limitativa contenuta nell'articolo unico della legge 392 del 1956 era immediatamente applicabile in senso negativo, in quanto avrebbe consentito al pretore (o forse imposto per il principio di economia) di respingere senz'altro la domanda della parte attrice. Di qui la innegabile rilevanza della questione sottoposta alla Corte.

Nel merito la questione é fondata.

Come é noto, la previdenza sociale a favore degli ecclesiastici e, tra essi, dei religiosi ha dato luogo a più di una incertezza anche dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e la giurisprudenza di questa Corte a proposito dell'art. 38, secondo comma, Cost. Fondamentale in materia é la norma contenuta nell'art. 3 del r.d. 28 agosto 1924, n. 1422, in tema di assicurazione contro l'invalidità e la vecchiaia, secondo la quale: "sono soggetti all'assicurazione i sacerdoti solo nel caso che godano di una retribuzione da parte di enti, associazioni e privati per ufficio cui non sia annesso un beneficio ecclesiastico". Si tratta di una disposizione che un indirizzo giurisprudenziale ed amministrativo consolidato per decenni ha ritenuto non applicabile ai sacerdoti del clero regolare, considerati quali prestatori d'opera di specie particolarissima - tali in fatto, ma non in diritto - per il loro modo di vita in comune nell'ambito di una associazione religiosa, obbligata ad assisterli nella malattia e nella vecchiaia. Per questo motivo erano pure esclusi dalla tutela previdenziale tutte le religiose ed i religiosi non sacerdoti. Con la legge 3 maggio 1956, n. 392, si é inteso rimediare a questa situazione discriminatoria nei confronti di tutti gli appartenenti agli ordini e congregazioni religiose; ma si é limitata in misura notevolissima la pur perseguita parificazione con il clero secolare e con gli altri lavoratori, in quanto si é esclusa la tutela assicurativa obbligatoria per la invalidità, vecchiaia e per la tubercolosi nei confronti dei religiosi che prestano attività di lavoro retribuito alle dipendenze di enti ecclesiastici, associazioni e case religiose di cui all'articolo 29, lettere a e b del Concordato tra la Santa Sede e l'Italia. Infatti la giurisprudenza e la prassi amministrativa dell'INPS, sia pure con qualche incertezza anche da parte della Cassazione dopo l'entrata in vigore della legge 3 maggio 1956, n. 399, avevano riconosciuto che gli appartenenti al clero secolare potevano fruire della tutela assicurativa per l'invalidità e vecchiaia e per la tubercolosi anche quando prestavano la loro attività retribuita presso gli enti e associazioni di cui all'art. 29, lettere a e b del Concordato. In particolare la Cassazione aveva ritenuto che fossero soggetti a queste forme di assicurazioni sociali obbligatorie sia il sacerdote coadiutore del parroco (can. 475 del Codex Juris Canonici) che non godesse di particolare beneficio connesso al suo ufficio, sia il sacerdote insegnante in un seminario. Ma la disparità di trattamento diveniva ancor più stridente con le leggi 5 luglio 1961, nn. 579 e 580, in quanto, per la prima volta, la tutela previdenziale obbligatoria era prevista indipendentemente dallo svolgimento di una attività lavorativa, subordinata e retribuita, ovvero autonoma, ma era collegata soltanto alla sussistenza del particolare status di sacerdote secolare cattolico o di ministro di un culto riconosciuto. Va poi sottolineato che per la legge 5 luglio 1961, n. 579, (art. 13), la iscrizione al Fondo per l'assicurazione di invalidità e vecchiaia del clero secolare era compatibile con l'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia, e i superstiti, pur dando luogo anziché ad una distinta pensione, ad un supplemento del 20% della pensione dovuta dal Fondo.

Per la successiva legge 22 dicembre 1973, n. 903, (ma di essa, come della precedente, il pretore di Asti non fa conto) l'iscrizione al Fondo di previdenza é puramente e semplicemente compatibile con l'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti; tuttavia sono esclusi da tale assicurazione i sacerdoti secolari per l'attività che esplicano all'interno dell'ordinamento canonico ad eccezione di coloro che fossero già iscritti alla predetta assicurazione alla data di entrata in vigore della legge stessa (art. 6); inoltre la nuova normativa mantiene la tutela previdenziale ai sacerdoti ridotti allo stato laico (artt. 13 e 23) nonché ai sacerdoti secolari che entrano a far parte di un ordine o congregazione religiosa (art. 24).

Se dunque ora non potrebbe istituirsi, come prima dell'entrata in vigore della legge 22 dicembre 1973 n. 903, un puntuale raffronto tra la situazione del clero secolare e del clero regolare in ordine alla assicurazione per l'invalidità e vecchiaia con riferimento all'attività retribuita prestata agli enti ed associazioni di cui all'art. 29, lettere a e b del Concordato (già risolto a danno degli appartenenti al clero regolare ratione subiecti), é pur vero che alla precedente disparità di disciplina (ad es. sacerdote coadiutore del parroco, assicurato se secolare, non assicurato se regolare) corrisponde ancor oggi una differenza di tutela previdenziale qualitativamente più grave di quella che poteva prodursi prima della istituzione del Fondo: infatti, mentre il sacerdote secolare, soltanto in dipendenza del suo status, ha diritto alla pensione di vecchiaia e di invalidità, alle condizioni previste (ed in particolare con il versamento dei contributi), il sacerdote regolare, se presta attività retribuita alle dipendenze degli enti ed associazioni di cui all'art. 29, lett. a e b del Concordato, non é protetto nemmeno dalla assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità e la vecchiaia.

Oltre a questa prima disparità di trattamento tra sacerdoti secolari e regolari, la norma limitativa della legge 392 del 1956 produce pure ulteriori discriminazioni tra gli appartenenti agli ordini e congregazioni religiose, negando o garantendo la tutela previdenziale a seconda che il terzo datore di lavoro rientri o no tra gli enti e associazioni sopra menzionati (ad es. diverso trattamento della suora dipendente da un ospedale e della suora dipendente da un seminario). Infine la disparità più grave é quella che sussiste tra tutti i lavoratori da una parte e i religiosi e le religiose che forniscono attività di lavoro retribuita ai terzi "concordatari".

É dunque in distinto riferimento al disposto dell'art. 38, secondo comma, e dell'art. 3, primo comma, della Costituzione che si manifesta la illegittimità costituzionale della limitazione contenuta nell'articolo unico, primo comma, della legge n. 392 del 1956. Invero, a fronte del carattere generale della disposizione dell'art. 38, secondo comma, Cost. perde di rilievo lo status di religioso o di sacerdote e viene unicamente in considerazione lo status di lavoratore.

La differenza di trattamento esistente in atto non può essere giustificata né dalle diversità che caratterizzano lo status di sacerdote secolare rispetto a quello di appartenente al clero regolare né, più in generale, della peculiarità dello status di religioso rispetto a quello di tutti gli altri lavoratori.

Va infatti tenuto nettamente distinto il complesso rapporto, che lega il religioso al suo ordine e alla sua congregazione, dal rapporto di lavoro retribuito che qui unicamente viene in rilievo: e comunque, é sufficiente riscontrare in una prestazione di attività i requisiti necessari ad integrare i presupposti previsti nella legge, per stabilire la sussistenza del rapporto previdenziale.

In particolare non può essere motivo di diverso trattamento il vincolo di obbedienza che a seguito della professione dei voti astringe il religioso ai suoi superiori: a parte il generalissimo principio proprio dello Stato moderno, secondo il quale da simili vincoli non derivano limitazioni alla comune capacità dei soggetti, proprio in tema di previdenza sociale può constatarsi l'irrilevanza dell'obbligo di obbedienza. Infatti, anche l'attività di lavoro retribuita, prestata alle dipendenze di terzi diversi dagli enti "concordatari", potrebbe essere fornita per comando, e non semplicemente col consenso, del superiore dell'ordine o della congregazione: senza che ciò privi il religioso o la religiosa della tutela assicurativa. E ciò conferma che, anche a voler ammettere una presunzione di legge a favore del vincolo d'obbedienza, come titolo in base al quale sarebbe prestata l'attività a favore degli enti "concordatari", tale presunzione sarebbe del tutto inidonea a superare la censura di violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione.

Né ha rilievo il fatto che il religioso vive in comunità, in quanto ai bisogni della stessa ciascun membro é tenuto a contribuire, ed il religioso anziano di solito non é in grado di fornire un apprezzabile apporto; anzi necessita di particolari cure ed assistenza cui talvolta l'ordine o la congregazione non può sopperire. Né gli obblighi assistenziali che gravano su tali associazioni religiose potrebbero di norma essere fatti valere dinanzi al giudice civile. Comunque, il motivo della vita in comunità come limite alla tutela previdenziale é già chiaramente superato dalla legge n. 392 del 1956. Né si riesce a scorgere la ragione secondo la quale il legislatore dovrebbe darsi carico del sacerdote secolare ridotto allo stato laicale, mentre non dovrebbe preoccuparsi minimamente di quei religiosi che lasciano l'abito dopo molti anni trascorsi in attività sociali; situazioni tutte che toccano, sia pure indirettamente, il delicatissimo tema del pieno esercizio della libertà religiosa. A questo fine non vale certo richiamarsi, come fa l'Avvocatura dello Stato, al recente decreto in data 25 gennaio 1974 della Sacra Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari "De auxilio iis qui Institutum deserunt praebendo", perché i discrezionali interventi in esso previsti concernono esclusivamente l'ordinamento canonico.

Infine, é assolutamente ultroneo dubitare che una coerente e generale applicazione dell'art. 38, secondo comma, Cost. anche ai religiosi e alle religiose, possa avere incidenza sulla normativa concordataria specie per ciò che riguarda l'esercizio da parte dei primi di un ufficio del ministero ecclesiastico: infatti, secondo la chiarissima giurisprudenza della Corte di cassazione, bisogna distinguere tra l'attività di lavoro retribuita, quale mero dato oggettivo rilevante per la legge civile ai semplici fini della tutela previdenziale, e lo stesso rapporto nella sua genesi, contenuto e modalità di svolgimento, regolato, come tale, dalla legge ecclesiastica e per cui funziona il limite della garanzia di indipendenza e di libertà della Chiesa.

Infine appare ovvio che il limite alla tutela previdenziale previsto dalla legge n. 392 del 1956 risulta costituzionalmente illegittimo soltanto se l'attività del religioso o della religiosa é prestata alle dipendenze di "terzi", categoria nella quale non potrebbero mai farsi rientrare l'ordine o la congregazione religiosa d'appartenenza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell'articolo unico, primo comma, della legge 3 maggio 1956, n. 392, nella parte in cui esclude dalla soggezione alle assicurazioni sociali obbligatorie per la invalidità, vecchiaia e per la tubercolosi di cui al regio decreto 4 ottobre 1935, n. 1827, e successive modificazioni ed integrazioni, i religiosi e le religiose quando prestano attività di lavoro retribuita alle dipendenze di enti ecclesiastici, di associazioni e case religiose di cui all'art. 29, lettere a e b del Concordato tra la Santa Sede e l'Italia.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 1977.

Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 9 giugno 1977.