Sentenza n. 265 del 1976
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SENTENZA N. 265

ANNO 1976

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 199, terzo comma, e 500 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 21 novembre 1975 dal tribunale di Sanremo, nel procedimento penale a carico di Luigi Mistri, iscritta al n. 633 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 58 del 3 marzo 1976.

Udito nella camera di consiglio del 25 novembre 1976 il Giudice relatore Enzo Capalazza.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un procedimento iniziato al fine di ottenere la restituzione in termine per la dichiarazione di appello avverso una sentenza di condanna pronunciata in contumacia, il tribunale di Sanremo ha posto in dubbio, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, la legittimità costituzionale: a) dell'art. 199, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede, per la dichiarazione di impugnazione dell'imputato contumace, il medesimo termine di tre giorni stabilito per l'impugnazione dell'imputato presente al dibattimento; b) dello stesso art. 199, terzo comma, in relazione al successivo art. 500, nella parte in cui non distingue tra notificazioni a mani proprie e notificazioni in altro modo; c) dell'art. 500, nella parte in cui non prescrive l'obbligo di avvertire che, contro la sentenza notificata, può essere, a pena di decadenza, proposta impugnazione entro tre giorni dalla notificazione.

Ad avviso del giudice a quo, la prefissione dello stesso termine per la dichiarazione di impugnazione tanto nell'ipotesi che l'imputato sia presente al dibattimento, quanto in quella che l'imputato sia contumace si risolverebbe nella violazione dell'effettivo esercizio del diritto di difesa.

Infatti, l'imputato presente alla lettura del dispositivo della sentenza può senza indugio conferire con il difensore ed effettuate la dichiarazione di impugnazione in cancelleria. Al contrario, l'imputato contumace, ricevendo la comunicazione dell'estratto, deve munirsi di un difensore e recarsi nell'ufficio giudiziario. Se poi l'atto é consegnato a persona convivente, questa che può non sapere nulla del processo, non di rado é indotta ad attendere il ritorno del destinatario. E ciò, secondo l'ordinanza, sarebbe di grave pregiudizio, anche perché nell'atto notificato non é espressamente detto che contro la decisione é ammesso il gravame entro tre giorni, e che ciò é a pena di decadenza.

Non vi é stata costituzione della parte, né intervento della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - Sono stati denunziati a questa Corte, per violazione dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione, gli artt. 199, terzo comma, e 500 del codice di procedura penale, assumendosi che sarebbero menomate le garanzie difensive del contumace, perché sottoposto alla stessa disciplina e tenuto all'osservanza degli stessi termini dell'imputato presente al dibattimento.

2. - Le questioni vanno risolte alla stregua dell'indirizzo seguito nei precedenti della Corte, secondo i quali il diritto di difesa non postula identiche modalità per il suo esercizio, potendo esso venire diversamente regolato ed adeguato alle particolari e varie esigenze dei singoli procedimenti, purché non ne siano compromessi lo scopo e la funzione (si vedano le sentenze n. 46 del 1967, n. 16 del 1970 e n. 159 del 1972).

Non si tratta qui di un irreperibile, la cui posizione é minutamente disciplinata per legge (si vedano le sentenze n. 54 e n. 136 del 1971), né di un assente che non abbia dato notizia del suo nuovo recapito e che, perciò, viene equiparato all'irreperibile (si veda la motivazione della già citata sentenza n. 159 del 1972, par. 5).

Ciò premesso, mentre, da un lato, il contumace, che si presume abbia voluto estraniarsi dal processo, dispone della difesa tecnica (di fiducia o d'ufficio), abilitata, al par dell'imputato, a proporre gravame (art. 151, terzo comma, cod. proc. pen.); dall'altro, qualora il provvedimento non sia più impugnabile, ma la situazione impeditiva si sia verificata per caso fortuito o per forza maggiore, é previsto il rimedio della restituzione nel termine scaduto, ex art. 183 bis del codice di procedura penale. E a ciò, appunto, era diretta l'iniziativa del contumace - esplicatasi sino alla Cassazione - che il giudice a quo, a seguito di rimessione per competenza, ha indirizzato su altra via, censurando non già, eventualmente, l'art. 183 bis nella sua corrente restrittiva accezione giurisprudenziale, bensì gli artt. 199, terzo comma, e 500 cod. proc. pen.

3. - L'accennato indirizzo non vulnera le esigenze dell'interesse difensivo e, nel contempo, impedisce possibili artificiose remore alla definizione del processo, senza vulnerare il precetto dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

4. - La Corte non ritiene esatta la censura relativa alla parificazione, ai fini del gravame, tra imputato presente e imputato contumace (neppure per quanto attiene alla notificazione, in mani proprie o in altro modo, dell'atto impugnabile), perché, secondo l'id quod plerumque accidit, la diversa posizione del contumace é da ascrivere a una sua scelta. Né può essere accolta qui la pretesa, prospettata in via correttiva, che sia prescritto l'obbligo di avvertire il contumace che, contro l'atto notificato, é proponibile l'impugnazione entro tre giorni, a pena di decadenza. A prescindere che un tale avviso non é richiesto neanche per l'imputato presente, il quale ben può essere o restare, pur dopo la pronunzia, personalmente ignaro dell'esistenza e della brevità del termine, non varrebbe addurre l'analogia con l'art. 507, secondo comma, cod.proc. pen., attesa la particolarità del procedimento per decreto, più volte rilevata da questa Corte (vedansi le sentenze n. 170 del 1963, n. 27 del 1966 e n. 119 del 1969 e l'ordinanza n. 125 del 1973).

Il rimedio agli inconvenienti indicati nell'ordinanza é affidato solo al prudente apprezzamento del legislatore.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 199, terzo comma, e 500 del codice di procedura penale, sollevate con l'ordinanza in epigrafe dal tribunale di Sanremo, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 dicembre 1976.

Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 29 dicembre 1976.