Sentenza n. 223 del 1975
 CONSULTA ONLINE 


SENTENZA N. 223

ANNO 1975

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promosso con ordinanza emessa il 20 marzo 1973 dal tribunale di Civitavecchia sul ricorso della ditta fratelli Federici ed altri per ottenere la dichiarazione di fallimento di Muliello Giuseppe, iscritta al n. 201 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 191 del 25 luglio 1973.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 18 giugno 1975 il Giudice relatore Giulio Gionfrida;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - A seguito di ricorsi proposti da varie società e volti ad ottenere il fallimento di Muliello Giuseppe, l'adito tribunale di Civitavecchia - ritenuto che era palese lo stato di insolvenza del Muliello e che, d'altra parte, non era decorso l'anno dalla cessazione dell'impresa commerciale del medesimo, onde sussistevano i presupposti per far luogo alla chiesta declaratoria di fallimento, in base al disposto dell'art. 10 r.d. 1942, n. 267 (secondo cui, appunto, "l'imprenditore... può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell'impresa, se l'insolvenza si é manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo"), con ordinanza 20 marzo 1973, sospesa la decisione nel merito, ha sollevato, in quanto a suo avviso rilevante e non manifestamente infondata, questione di legittimità dell'art. 10 sopradetto, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

2. - Ritualmente notificata, comunicata e pubblicata la ordinanza de qua ed instaurato il giudizio innanzi alla Corte, é in questo intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la declaratoria di infondatezza della sollevata questione.

Considerato in diritto

1. - Dispone l'art. 10 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) che "l'imprenditore, che per qualunque causa ha cessato dall'esercizio dell'impresa, può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell'impresa se l'insolvenza si é manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo".

Il giudice a quo dubita - come detto - della legittimità di tale norma e ne ipotizza il contrasto con il precetto costituzionale dell'eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione: in quanto, invero, il legislatore - senza tener conto della diversa "condizione personale" del soggetto non più imprenditore - parificherebbe, arbitrariamente ed irrazionalmente la situazione di questo con quella dell'esercente l'impresa commerciale, supponendo, in base ad una mera finzione contraria alla realtà, la persistenza della qualità imprenditoriale entro l'anno dalla cessazione dell'impresa.

2. - La questione non é fondata.

La norma dell'art. 10 legge fallimentare (avente il suo immediato precedente nella disposizione - formulata con criteri anzi di maggior rigore - dell'art. 690 cod. comm. e, comunque, in linea con una costante tradizione legislativa italiana, oltreché in armonia con le legislazioni di molti altri Paesi) trova la sua razionale giustificazione sotto diversi profili.

Da un lato va considerato che i rapporti posti in essere dall'imprenditore proiettano normalmente i loro effetti anche dopo la cessazione dell'attività commerciale, per un periodo più o meno lungo; cosicché la insolvenza manifestatasi entro l'anno (periodo nella specie discrezionalmente fissato dal legislatore) può ragionevolmente ritenersi ricollegabile alla gestione imprenditoriale.

D'altro lato - e ciò vale anche per il caso che l'insolvenza si sia manifestata prima della cessazione dell'impresa -, se tale cessazione fosse idonea ad evitare automaticamente il fallimento, tutti i debitori in difficoltà economiche potrebbero artatamente ricorrervi, con grave danno, oltre che della massa dei creditori, degli stessi interessi pubblicistici che l'istituto del fallimento é diretto a tutelare.

É pertanto pienamente razionale che nei confronti dell'imprenditore cessato sia applicabile, per il predetto periodo di tempo, la disciplina relativa alla dichiarazione di fallimento, sia per quanto attiene agli effetti patrimoniali sia per quelli di carattere personale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 1975.

Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

Depositata in cancelleria il 17 luglio 1975.