Sentenza n. 159 del 1975
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SENTENZA N. 159

ANNO 1975

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 2,196 e 202 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), nonché dell'art. 2540 del codice civile, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 16 febbraio 1973 dalla Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile vertente tra Rizzo Pinna Umberto e il fallimento della cooperativa "Madonna di Porto Salvo" ed altro, iscritta al n. 199 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 191 del 25 luglio 1973;

2) ordinanza emessa il 1 marzo 1974 dalla Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile vertente tra Ravidà Nicola e l'impresa Terenzio Cecchini, iscritta al n. 285 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 250 del 25 settembre 1974.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 9 aprile 1975 il Giudice relatore Guido Astuti;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 22 maggio 1969 il tribunale di Agrigento dichiarava il fallimento della società cooperativa in liquidazione "Madonna di Porto Salvo", avente ad oggetto un'attività commerciale. Avverso tale decisione il commissario liquidatore della società, adducendo il preventivo inizio della procedura di liquidazione coatta amministrativa, proponeva opposizione, che veniva dichiarata inammissibile per tardività. In sede di gravame, la Corte di appello di Palermo, dopo aver ritenuto la tempestività della opposizione, ha sollevato, di ufficio, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 196 e 202 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, e, per quanto occorra, dell'art. 2540 del codice civile, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Identica questione di legittimità costituzionale é stata sollevata, dalla stessa Corte di appello di Palermo, anche nel giudizio vertente tra Nicola Ravidà e l'impresa Terenzio Cecchini.

É intervenuto, in entrambi i giudizi di legittimità costituzionale, il Presidente del Consiglio dei ministri deducendo, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, la infondatezza della questione proposta.

Considerato in diritto

1. - Con due ordinanze, di contenuto sostanzialmente identico, la Corte di appello di Palermo solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 196 e 202 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nonché, per quanto occorra, dell'art. 2540 del codice civile.

Le imprese per cui la legge ammette il concorso tra fallimento e liquidazione coatta amministrativa, (quali le società cooperative svolgenti attività commerciale), sarebbero soggette ad un trattamento giuridico illegittimamente differenziato, anche sotto il profilo penalistico, rispetto a quello d'ogni altra categoria di imprenditori e operatori economici, e caratterizzato, nel caso di liquidazione, da una più limitata tutela giurisdizionale per i loro creditori. Mentre il fallimento offre piena garanzia e tutela dei diritti dei creditori come degli interessi pubblicistici della collettività, con un procedimento affidato ad organo operante con criteri di certa obiettività, sotto la direzione e il controllo costante dell'autorità giudiziaria, e con l'applicazione di limitazioni giuridiche e di sanzioni, anche penali, di diversa natura ed entità, adeguatamente graduate, per gli imprenditori sprovveduti, imprudenti o scorretti, tale funzione e tali effetti non avrebbe, invece, la liquidazione coatta amministrativa, neppure quando ad essa segua pronuncia giudiziale di accertamento dello stato di insolvenza. Ciò in quanto l'opera del commissario liquidatore, "istituzionalmente deputato, almeno in via prevalente, alla tutela di interessi diversi da quelli personali dei creditori, e in ipotesi con questi in conflitto, non offre, per i creditori, le medesime garanzie di obiettività e di rendimento di quella svolta dal curatore del fallimento sotto assidua direzione e controllo del giudice".

Osservano inoltre le ordinanze che mentre al creditore é consentito di provocare il fallimento del suo debitore proponendo domanda giudiziale, analogo potere non gli é concesso per provocare il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, né l'accertamento dello stato di insolvenza del debitore, a cui nemmeno il giudice può procedere d'ufficio, essendo tale accertamento condizionato dall'iniziativa del commissario liquidatore o del pubblico ministero, insuscettibile di giuridica coercizione e pertanto insufficiente ad attuare un'adeguata tutela dei diritti dei creditori e dell'interesse pubblico. Infine, la liquidazione coatta amministrativa, "pur dopo l'accertamento giudiziale dell'insolvenza, si svolge sotto il preminente controllo e sotto le direttive dell'autorità amministrativa, con solo limitato, e meno efficace e penetrante, intervento del giudice (ordinario), sebbene anche per essa vengano in definitiva gestiti dal liquidatore diritti e interessi privatistici dei creditori".

Nel sistema vigente, rilevano ancora le ordinanze, l'alternativa tra liquidazione e fallimento "é meramente casuale, e non risponde a imperative, o anche solo rilevanti, ragioni di interesse pubblico, perché, indipendentemente da prefissati presupposti, é esclusivamente indotta dalla prevenzione dell'uno o dell'altro provvedimento". Anche sotto questo profilo, sarebbe manifesta la disparità di trattamento, con la conseguente menomazione di tutela giuridica, sia per le imprese soggette in via alternativa alla liquidazione o al fallimento rispetto a quelle soggette solo al fallimento, sia per i loro creditori, rispetto a quelli di altre imprese svolgenti le medesime attività commerciali, con violazione dei principi sanciti dagli artt. 3 e 24 della Costituzione.

2. - I giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza.

La questione non é fondata. I dubbi prospettati nelle ordinanze di rimessione investono da un canto l'istituto della liquidazione coatta amministrativa, per la speciale disciplina normativa diversa da quella dell'ordinaria procedura fallimentare, e si appuntano d'altro canto contro il regime di concorso tra fallimento e liquidazione ammesso dalla legge per talune categorie di imprese, come le società cooperative aventi per oggetto un'attività commerciale (cfr. art. 2540 codice civile). Per quanto concerne la legittimità costituzionale della vigente disciplina dell'istituto nei suoi caratteri generali, questa Corte ha già avuto occasione di dichiarare, - con espresso riferimento agli effetti della liquidazione coatta amministrativa nei confronti dei creditori ed alla speciale procedura amministrativa di accertamento del passivo - , come tale disciplina sia giustificata dalle finalità pubblicistiche connesse alla attività delle diverse categorie di imprese ad essa soggette, le quali, "sebbene si avvalgano prevalentemente di strutture ed attività ricadenti nella sfera del diritto privato, involgono tuttavia molteplici interessi, o perché attengono a particolari settori della economia nazionale, in relazione ai quali lo Stato assume il compito della difesa del pubblico affidamento, o perché si trovano in rapporto di complementarità, dal punto di vista teleologico e organizzativo, con la pubblica amministrazione". Per le stesse ragioni "che giustificano gli interventi della pubblica amministrazione, mediante la vigilanza sugli organi, nonché l'ingerenza e i controlli sulle attività delle imprese medesime,... non può non competere a questa il presiedere alla liquidazione coatta di tali imprese, anche quando ne sia dichiarato lo stato di insolvenza, designandone l'organo liquidatore e controllando l'attività dello stesso, compresa quella diretta, in particolare, all'accertamento del passivo" (sentenza n. 87 del 1969). Conseguentemente, questa Corte ha altresì ritenuto che non sussiste alcuna sostanziale violazione del principio enunciato dall'art. 24, primo comma, della Costituzione, né per il fatto che il procedimento amministrativo (ma pur esso inteso a dare attuazione al criterio della par condicio creditorum) si svolga a cura di un commissario liquidatore, senza l'immediato intervento dell'autorità giudiziaria, diversamente da quanto previsto per l'ordinaria procedura fallimentare, né per le temporanee limitazioni imposte ai creditori per la tutela dei loro diritti, che essi possono far valere anche avanti l'autorità giudiziaria "nei modi e nei tempi prescritti dalla legge fallimentare, rimanendo comunque escluso, in virtù dei principi generali dell'ordinamento, che un temporaneo ma indeclinabile e tassativo impedimento all'esercizio dell'azione, disposto dalla legge, possa condurre alla perdita del diritto soggettivo".

L'innegabile carattere amministrativo della liquidazione e la prevalente considerazione degli interessi generali, nelle diverse fattispecie di liquidazione coatta amministrativa disciplinate dalla legge, non comportano una riduzione dei controlli giurisdizionali tale da abbandonare alla discrezionalità di apprezzamento del commissario liquidatore e dell'autorità amministrativa lo svolgimento della procedura, con ingiustificato sacrificio dei diritti dei creditori e con limitazione dei mezzi di tutela giuridica lesiva del precetto costituzionale. Al contrario, il legislatore si é preoccupato di assicurare adeguate forme di controllo giurisdizionale nelle diverse fasi del procedimento amministrativo, ed ha dettato, nella stessa legge fallimentare, a conclusione della disciplina generale delle procedure concorsuali, un complesso di norme comuni a tutte le specie di liquidazione coatta amministrativa, proprio per la tutela dei diritti individuali dei creditori. Come é stato autorevolmente osservato, queste norme comuni riguardano appunto il momento giurisdizionale della liquidazione, per il quale valgono precisamente i principi sistematici che regolano il fallimento e le procedure concorsuali in genere; talché si può fondatamente concludere che la liquidazione coatta realizza una forma di collaborazione tra l'autorità amministrativa e l'autorità giudiziaria, per la coordinata tutela dell'interesse pubblico e degli interessi privati, pienamente compatibile con il vigente ordinamento costituzionale.

 

3. - Le suesposte considerazioni valgono sicuramente anche in rapporto allo speciale regime sancito dall'art. 2540 del codice civile per il caso di insolvenza delle società cooperative aventi ad oggetto un'attività commerciale. Lo scopo mutualistico e le finalità sociali, che hanno indotto il legislatore a dettare per queste società una particolare disciplina normativa, diversa da quella comune alle altre imprese commerciali, agenti unicamente per scopo di lucro, giustificano anche l'adozione del regime di concorso tra liquidazione coatta amministrativa e fallimento, il quale pertanto non integra, di per sé, alcuna violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento rispetto alla generalità delle imprese soggette al regime ordinario del fallimento.

Per quanto concerne, in particolare, i poteri e mezzi di tutela riconosciuti dalla legge ai creditori delle imprese soggette tanto alla liquidazione quanto al fallimento, é vero che i creditori non possono chiedere il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, che questo provvedimento preclude la dichiarazione di fallimento (art. 196 r.d. 16 marzo 1942, numero 267), e che l'eventuale successivo accertamento dello stato di insolvenza può essere effettuato dal tribunale solo su ricorso del commissario liquidatore o su istanza del pubblico ministero (art. 202 del citato decreto). Ma occorre non dimenticare che i creditori di queste imprese possono chiedere la dichiarazione di fallimento a norma dell'art. 6 della legge fallimentare, e che tale dichiarazione preclude la liquidazione coatta amministrativa (art. 196 citato), sicché, nella carenza o inerzia dell'autorità amministrativa competente ad ordinare la liquidazione, hanno ogni libertà di iniziativa per promuovere l'inizio della ordinaria procedura concorsuale. Anche il regime di concorso elettivo tra le due procedure in base al criterio della prevenzione non può dirsi meramente casuale o arbitrario, poiché risponde, come unica soluzione tecnicamente possibile, alla duplice esigenza di consentire ad un tempo la tutela degli interessi generali, affidata alla pubblica amministrazione, e la tutela degli interessi particolari dei creditori, la cui iniziativa, se tempestivamente assunta, ed accolta dal tribunale, ha l'effetto di precludere la liquidazione.

D'altra parte, ben si comprende la diversa disciplina stabilita agli artt. 195 e 202, per cui, trattandosi di impresa soggetta solo a liquidazione coatta amministrativa, i creditori sono ammessi a chiedere al tribunale la dichiarazione dello stato di insolvenza, che verrà trasmessa all'autorità competente perché disponga la liquidazione; mentre dopo disposta la liquidazione, tanto se il fallimento sia escluso quanto se sia ammesso, il tribunale potrà procedere all'accertamento dello stato di insolvenza soltanto su ricorso del commissario liquidatore o su istanza del pubblico ministero. In entrambi i casi, i creditori che non abbiano ritenuto di avvalersi tempestivamente delle facoltà loro accordate dall'art. 195 e dall'art. 196 (in correlazione con l'art. 6), non possono dolersi per la successiva privazione dei mezzi di tutela ad essi offerti dalla legge in via preventiva; l'iniziativa del commissario liquidatore e del pubblico ministero subentra, infatti, solo quando, pur sussistendo lo stato di insolvenza al momento della disposta liquidazione, nessuno ne avesse chiesto la dichiarazione.

4. - Ai fini ed effetti dell'eventuale accertamento dello stato di insolvenza nel corso della liquidazione, si deve riconoscere che una sufficiente garanzia é fornita proprio dal potere di iniziativa del commissario liquidatore e del pubblico ministero, ai quali i creditori, e per essi anche il comitato di sorveglianza, hanno in ogni momento la possibilità di rappresentare le loro istanze. Giova ricordare che il liquidatore, al pari del curatore, per quanto attiene all'esercizio delle sue funzioni, é pubblico ufficiale, tenuto ad adempiere con diligenza ai doveri del proprio ufficio ed a svolgere tutte le operazioni del procedimento secondo le direttive dell'autorità che vigila sulla liquidazione e sotto il controllo del comitato di sorveglianza, e soggetto a revoca e ad azione di responsabilità (cfr. artt. 199, 204 e seguenti), nonché alle eventuali sanzioni penali richiamate dall'art. 237.

Anche sotto questo profilo, appare pertanto ingiustificato il dubbio che il procedimento di liquidazione coatta amministrativa, in quanto diretto al conseguimento di finalità pubblicistiche di interesse generale, comporti una menomazione della tutela giuridica dei diritti ed interessi dei creditori, con disparità di trattamento priva di ragionevole motivazione, sia per i creditori sia per le imprese che vi sono soggette, rispetto al normale regime delle procedure fallimentari. Proprio per quanto concerne la soddisfazione delle pretese creditorie, non sarà inutile ricordare che l'intervento della pubblica amministrazione, come esperienze notorie hanno dimostrato, si concreta non soltanto nel controllo delle operazioni di liquidazione per tutela di interessi generali, ma molto spesso anche mediante provvedimenti di carattere economico e finanziario, diretti, in varie forme, a circoscrivere i danni determinati dalla crisi delle imprese, sia nei confronti dei lavoratori dipendenti, sia nei confronti dei creditori.

Infine, anche in ordine alla posizione dei responsabili delle imprese sottoposte a liquidazione, non si può ravvisare alcuna apprezzabile disparità di trattamento, nemmeno sotto il profilo delle eventuali sanzioni penali, perché, quando sia stato giudizialmente accertato lo stato di insolvenza, trovano piena applicazione, con effetto dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione, oltre alle disposizioni della legge sul fallimento relative agli atti pregiudizievoli ai creditori e all'esercizio delle azioni revocatorie, anche nei riguardi dei soci a responsabilità illimitata, tutte le disposizioni penali degli artt. 216 e seguenti, nei confronti dei soci, amministratori, direttori generali, liquidatori e componenti degli organi di vigilanza delle imprese in questione (cfr. art. 203 legge fallimentare). Anche sotto questo ultimo profilo la dedotta questione di costituzionalità si rivela dunque priva di fondamento, tanto in rapporto all'art. 3 quanto all'art. 24 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 196 e 202 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nonché dell'art. 2540 del codice civile, sollevata dalle ordinanze di cui in epigrafe in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 1975.

D Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

Depositata in cancelleria il 19 giugno 1975.