Sentenza n. 32 del 1975
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SENTENZA N. 32

ANNO 1975

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott- Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 106 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 (Testo unico delle leggi sulle imposte dirette), promossi con ordinanze emesse il 27 aprile 1973 dal tribunale di Roma in quattro procedimenti civili vertenti tra gli ospizi Santa Maria in Aquiro e Santi Quattro Coronati e l'Amministrazione delle finanze dello Stato, iscritte ai nn. 442,443,444 e 445 del registro ordinanze 1973 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35 del 6 febbraio 1974.

Visti gli atti di costituzione degli ospizi Santa Maria in Aquiro e Santi Quattro Coronati e dell'Amministrazione delle finanze dello Stato, nonché l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 4 dicembre 1974 il Giudice relatore Angelo De Marco;

uditi l'avv. Arturo Carlo Jemolo, per gli ospizi Santa Maria in Aquiro e Santi Quattro Coronati, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri e per l'Amministrazione finanziaria.

Ritenuto in fatto

Con quattro distinte ordinanze di identico contenuto emesse dal tribunale di Roma in data 27 aprile 1973, nel corso di altrettante cause promosse dagli ospizi Santa Maria in Aquiro e Santi Quattro Coronati contro l'Amministrazione finanziaria, viene prospettata a questa Corte la questione di legittimità costituzionale, per eccesso di delega (art. 76 della Costituzione), dell'art. 106 del t.u. delle leggi sulle imposte dirette, approvato con d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, nella parte in cui assoggetta ad imposta di ricchezza mobile cat. B anche le plusvalenze dei beni appartenenti ad enti collettivi, tassabili in base a bilancio, ancorché non aventi scopo di lucro.

Secondo il tribunale, infatti, in sede di compilazione del t.u. si sarebbe apportata una innovazione sostanziale alla legislazione da coordinare, non preveduta e, quindi, non consentita dall'art. 63 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, contenente la delega relativa.

Dopo gli adempimenti di legge é intervenuto nei giudizi così promossi il Presidente del Consiglio dei ministri e si é costituita l'Amministrazione finanziaria, in persona del Ministro per le finanze pro-tempore rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato che, con l'atto d'intervento e con quello di costituzione chiede che la questione venga dichiarata infondata, in quanto l'impugnato art. 106 del t.u. riproduce l'art. 20 della legge 5 gennaio 1956, n. 1 (Norme integrative della legge 11 gennaio 1951, n. 25, sulla perequazione tributaria), che contiene la innovazione denunziata come illegittima, che, pertanto, era già acquisita alla legislazione da coordinare nel t.u. ed, in conseguenza, non può essere attribuita ad eccesso di delega.

Si sono costituiti in giudizio gli ospizi interessati il di cui patrocinio, con le memorie di costituzione insiste nel chiedere che la questione prospettata con le ordinanze di rinvio venga accolta ed, a confutazione della tesi dell'Avvocatura dello Stato, oppone che l'art. 20 della legge di delega non dispone affatto che siano assoggettate ad imposta di ricchezza mobile le plusvalenze di tutti gli Enti tassabili in base a bilancio, ma soltanto di quelli fra di essi esercenti attività imprenditoriali.

Con memorie depositate il 19 novembre 1974 l'Avvocatura e la parte privata insistevano ulteriormente nelle suddette deduzioni.

Considerato in diritto

1. - L'art. 106 del d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, con il quale é stato approvato il t.u. delle leggi sulle imposte dirette allora vigenti, dispone che le plusvalenze di tutti i beni appartenenti ai soggetti tassabili in base a bilancio concorrono a formare il reddito imponibile dell'esercizio nel quale sono realizzate, distribuite o iscritte in bilancio.

In precedenza era principio costantemente affermato dalla giurisprudenza delle commissioni tributarie e confermato dalla Corte di cassazione, ancorché contestato dagli uffici fiscali, quello secondo il quale le plusvalenze attive erano assoggettate all'imposta di ricchezza mobile, cat. B, soltanto ove fosse dimostrato l'intento speculativo del soggetto - sia individuale, sia collettivo - che le avesse realizzate.

Il tribunale di Roma, con le ordinanze di rimessione, argomentando da tale principio, ha ritenuto che la disposizione del citato art. 106 del t.u. fosse innovativa, rispetto alla legislazione da coordinare e che, in conseguenza, eccedesse dalla delega contenuta nell'art. 63 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, cosicché ne ha denunziato la illegittimità, in riferimento all'art. 76 della Costituzione.

L'Avvocatura generale dello Stato ha, peraltro, eccepito che l'art. 106 del t.u. riproduce, sostanzialmente, l'art. 20 della stessa legge di delegazione n. 1 del 1956, cosicché la tesi che l'art. 76 della Costituzione sia stato violato risulterebbe priva di giuridico fondamento.

Poiché tanto la legge 11 gennaio 1951, n. 25, quanto quella 5 gennaio 1956, n. 1, sono entrambe direttamente e compiutamente precettive ed in particolare l'art. 63 della legge n. 1 del 1956 contiene soltanto una autorizzazione al Governo ad emanare testi unici di mero coordinamento delle norme in dette leggi contenute - delle quali indubbiamente fa parte l'art. 20 richiamato dall'Avvocatura generale dello Stato - la materia del contendere si circoscrive all'accertamento dell'esattezza dell'assunto che l'impugnato art. 106 del t.u. n. 645 del 1958 riproduca, sostanzialmente, il detto art. 20.

A tal fine non possono essere trascurate le altre norme riguardanti la tassabilità delle plusvalenze e sopravvenienze attive, accolte e coordinate in detto t.u., in quanto concorrono a completare l'organico ordinamento che, con le due leggi n. 25 del 1951 e n. 1 del 1956, si é voluto adottare.

2. - Così precisati i termini della questione sottoposta al l'esame della Corte, si rileva:

Il più volte citato art. 20 della legge n. 1 del 1956, nei due primi commi, che sono quelli che interessano ai fini del decidere, dispone testualmente: "I maggiori valori delle attività delle imprese, in qualsiasi forma costituite, concorrono a formare il reddito imponibile nell'esercizio nel quale sono realizzati o distribuiti o iscritti in bilancio.

Per gli imprenditori diversi dalle società e dagli enti tassabili in base a bilancio e dalle altre società indicate nell'articolo 2200 del codice civile, la disposizione del comma precedente si applica soltanto alle attività comunque attinenti all'esercizio dell'impresa".

Come risulta chiaramente dal primo comma, la norma si riferisce all'attività di "imprese" e tale riferimento non é modificato e tanto meno smentito dal secondo comma, che pur statuendo che la disposizione del primo comma si applica soltanto alle attività comunque attinenti all'esercizio dell'impresa, limitatamente agli imprenditori diversi dalle società e dagli enti tassabili in base a bilancio, evidentemente anche queste società e questi enti, sia pure per implicito, prende in considerazione come imprenditori.

Ne consegue che il significato della differenza di trattamento fra l'una e l'altra categoria di soggetti tassabili preveduta dal secondo comma dell'articolo in esame, non può che essere il seguente:

Dalla stessa formulazione della norma, nonché dal complesso delle altre norme, raccolte nel testo unico, relative ai soggetti passivi, al presupposto dell'imposta, alla classificazione dei redditi ed ai criteri di accertamento dei medesimi, si può senz'altro trarre la conclusione che, di regola, per le imprese tassabili in base a bilancio si presume, senza che occorra la dimostrazione, l'intento speculativo di tutte le partite attive riportate in bilancio, anche se costituite da plusvalenze o sopravvenienze attive dei beni facenti parte del capitale dell'impresa stessa, mentre per le altre imprese, definite diverse dal secondo comma, tale presunzione é limitata alle attività afferenti all'esercizio dell'impresa stessa.

Ciò in quanto, come é chiarito:

a) nella relazione Tremelloni al Senato: "Trattandosi di soggetti creati a scopo di lucro, con precisa indicazione nella legge o nel loro statuto, di tale scopo e della relativa attività diretta a conseguirlo non é possibile distinguere tra le diverse operazioni da esse compiute, in quanto tutte vengono caratterizzate da quello scopo e rientrano in quella attività";

b) nella relazione Valsecchi alla Camera: "Per le società e per gli enti, tenuto presente lo scopo di lucro per il quale sono creati, tutte le plusvalenze concorrono indistintamente a formare il reddito imponibile mobiliare".

Ma, appunto da queste motivazioni emerge chiarissimo il concetto che il termine "imprenditori" usato nel secondo comma dell'art. 20 del t.u. si riferisce anche alle società ed enti tassabili in base a bilancio e che non questa forma di tassabilità, ma l'esercizio di una attività imprenditoriale - caratterizzata dallo scopo di lucro - costituisce il fondamento giuridico della presunzione che per esse le plusvalenze o le sopravvenienze attive vanno comprese nell'accertamento del reddito imponibile.

Il che, poi, trova conferma nell'art. 8 del t.u. che, dopo avere indicati i soggetti tassabili in base a bilancio e dopo avervi compresi - alla lettera c del terzo comma - "le altre persone giuridiche costituite nel territorio dello Stato tenute per legge o per statuto alla formazione del bilancio o del rendiconto", nell'ultimo comma chiarisce "ove non sia diversamente disposto, le norme del testo unico che fanno riferimento alle imprese commerciali si applicano anche ai soggetti indicati dai commi terzo e quarto che esercitano attività commerciali".

Ed alla stregua di queste considerazioni va interpretato l'art. 100 del t.u. al quale fa richiamo il secondo comma dell'art. 81 dello stesso t.u., che definisce i presupposti dell'imposta.

É vero che tale articolo fa anche richiamo all'art. 106, il che condurrebbe ad adottare, per quanto lo riguarda, lo stesso criterio interpretativo adottato per l'art. 100.

Ma non può non ammettersi che la formulazione del primo comma é tale da far ritenere che i compilatori del t.u. abbiano interpretato l'art. 20 della legge n. 1 del 1956 - nonostante le considerazioni che precedono - nel senso che qualunque sia la natura della società o ente tassabile in base a bilancio, si presume sempre che le plusvalenze o sopravvenienze attive, anche per il solo fatto che siano state iscritte in bilancio, debbano far parte del reddito imponibile.

Tutto ciò senza tener conto, tra l'altro, che l'imposta alla quale tale imponibile andava assoggettato era quella di ricchezza mobile, cat. B, che ai sensi dell'art. 85 del t.u. si applicava "ai redditi alla produzione dei quali concorrono insieme il capitale ed il lavoro, come quelli derivanti dall'esercizio di imprese commerciali ovvero da attività commerciali ai sensi dell'art. 2195 del codice civile o da operazioni speculative anche isolate".

Ed é naturale, poi, il considerare che, con palese contraddizione, nel secondo comma dello stesso art. 106, si disponga, É poi, che per i soggetti di cui all'art. 104 - ossia per i soggetti che pur non essendovi tenuti chiedono la tassazione in base a bilancio - la disposizione del primo comma "si applica soltanto alle plusvalenze dei beni relativi all'impresa ed alle sopravvenienze conseguite nell'esercizio di essa" ammettendo, così, che non l'assoggettamento alla tassazione in base a bilancio, ma la derivazione da attività imprenditoriali é il presupposto della imposizione.

Né si opponga il principio ubi voluit dixit, perché appunto nel non aver avvertito che l'art. 20, così com'é formulato, non può riferirsi a società ed enti che non esercitino attività imprenditoriali, sta l'errore che ha indotto i compilatori del testo unico ad una evidente innovazione, che esorbita dalla delega di cui all'art. 63 della legge n. 1 del 1956 e che incide in modo negativo su quell'armonico coordinamento delle norme preesistenti che con tale delega si voleva raggiungere.

Non può sfuggire, infatti, che nelle leggi n. 25 del 1951 e n. 1 del 1956 già si profila, sia pure in embrione, quel concetto di reddito di impresa che, in sostituzione dell'ormai soppresso reddito di ricchezza mobile di cat. B, é, secondo i decreti del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, nn. 597 e 598, presupposto, rispettivamente sia dell'imposta sui redditi delle persone fisiche sia di quella sul reddito delle persone giuridiche.

Ed é, al riguardo, assai significativo il fatto che l'art. 20 del d.P.R. n. 598 del 1973 esclude la tassabilità delle plusvalenze o sopravvenienze attive di enti che non esplichino attività imprenditoriale o commerciale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale, in riferimento all'articolo 76 della Costituzione, dell'art. 106, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 gennaio 1958, n. 645 (Testo unico delle leggi sulle imposte dirette), nella parte in cui prevede la tassabilità delle plusvalenze e sopravvenienze attive di enti tassabili in base a bilancio ma non esercenti attività commerciali, questione proposta dal tribunale di Roma con le ordinanze di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 1975.

Francesco Paolo BONIFACIO -  Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE -  Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO

Depositata in cancelleria il 25 febbraio 1975.