Sentenza n.157 del 1973
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SENTENZA N. 157

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Dott. Giovanni  BATTISTA BENEDETTI

Dott. Luigi  OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola  REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto  AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido  ASTUTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 16 della legge 4 marzo 1877, n. 3706 (legge sulla pesca), e degli artt. 26, 27 e 33 del r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604 (testo unico delle leggi sulla pesca), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 4 marzo 1971 dal tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Comerio Alfredo e Torno Giuseppe ed altri, iscritta al n. 378 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 297 del 24 novembre 1971;

2) ordinanza emessa il 14 novembre 1972 dal pretore di Montefiascone nel procedimento penale a carico di Marinacci Cariddi ed altri, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 102 del 18 aprile 1973.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 ottobre 1973 il Giudice relatore Guido Astuti;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un procedimento civile vertente tra Alfredo Comerio e Felice e Giuseppe Torno, avente ad oggetto lo scioglimento della comunione di alcuni diritti esclusivi di pesca su di un tratto del fiume Ticino, il tribunale di Milano ha, di ufficio, sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 della legge 4 marzo 1877, n. 3706, e dell'art. 26 del t.u. 8 ottobre 1931, n. 1604, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

Ha osservato il tribunale che i diritti esclusivi di pesca nascenti da antichi privilegi , da possesso immemorabile e da usucapione, in quanto cadono su beni del demanio pubblico quali i fiumi, i laghi ed i torrenti, destinati a soddisfare immediatamente i bisogni della collettività e ad essere utilizzati indistintamente da tutti i cittadini, riservando la possibilità di pescare solo ad alcuni di essi, violerebbero il principio di uguaglianza. Ciò sia per la disparità di trattamento che il riconoscimento dei diritti esclusivi di pesca introdurrebbe tra i cittadini e sia per la mancanza di un ragionevole fondamento della disciplina. In particolare, sotto questo ultimo aspetto, i diritti esclusivi di pesca non potrebbero più trovare giustificazione, considerato l'intervenuto mutamento delle condizioni e delle strutture economiche della società, né sarebbero legittimati da una finalità di ripopolamento, non esistendo in tale senso alcun vincolo per il titolare, che, inoltre, non derivando i suoi diritti da concessione amministrativa, non é soggetto a revoca, ma solo a decadenza nelle ipotesi di non uso e di violazioni generali delle leggi sulla pesca.

Non vi é stata Costituzione delle parti private mentre é intervenuto, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha escluso la illegittimità costituzionale della normativa impugnata. Premesso che ai sensi dell'art. 823 del codice civile anche i beni demaniali possono formare oggetto di diritti a favore dei terzi, ha osservato l'Avvocatura generale dello Stato che laddove i diritti esclusivi di pesca derivano da concessione amministrativa, questa può essere rilasciata soltanto a coloro che intendano intraprendere l'allevamento dei pesci e di altri animali acquatici, é sempre subordinata alle condizioni richieste dall'interesse generale ed a quelle necessarie per assicurare l'effettivo e costante esercizio della pesca, ed é sempre revocabile. Laddove poi, i diritti esclusivi di pesca sono basati su titoli anteriori, riconosciuti dalla vigente legislazione italiana, vi é egualmente una rigida subordinazione all'interesse pubblico, sino a giungere all'obbligo del ripopolamento ittico. Nell'uno e nell'altro caso, pertanto, l'esistenza dei diritti esclusivi di pesca si giustificherebbe con il perseguimento di finalità anche di interesse generale, da parte dei privati che ne sono titolari.

Identica questione di legittimità costituzionale é stata proposta in un procedimento penale a carico di Cariddi Marinacci, Andrea Prugnoli, Guglielmo Natali, Gino Natali, Benito Natali, Pierino Rocchi e Biagio Pesei, imputati di aver esercitato la pesca nel lago di Bolsena in acque soggette a diritti esclusivi di pesca senza autorizzazione del concessionario, dal pretore di Montefiascone, il quale, accogliendo un'eccezione sollevata dal difensore degli imputati, ha impugnato, per contrasto con gli artt. 3 e 4 della Costituzione, gli artt. 26, 27 e 33 del r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604.

Non vi é stata Costituzione delle parti private, né intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - Con l'ordinanza del tribunale di Milano viene sollevata d'ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 16 della legge 4 marzo 1877, n. 3706, e dell'art. 26 del r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604, in riferimento all'art. 3 della Costituzione; con l'ordinanza del pretore di Montefiascone viene sollevata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 26, 27 e 33 del r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604, in riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione. Poiché entrambe le ordinanze di rimessione propongono la stessa questione, ossia la costituzionalità del vigente regime degli antichi diritti esclusivi di pesca nelle acque pubbliche interne, oggetto di riconoscimento, i giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - Si osserva che le acque pubbliche, beni demaniali destinati alla soddisfazione dei bisogni della collettività, debbono essere aperte all'uso di tutti i cittadini, con le autorizzazioni eventualmente necessarie; che i diritti esclusivi di pesca hanno nella maggior parte dei casi origine da privilegi feudali, ormai privi di ragionevole giustificazione, e perpetuano ingiuste disparità di trattamento tra i cittadini, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, che garantisce a tutti pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge.

La questione non é fondata. I beni appartenenti al pubblico demanio sono nel nostro ordinamento oggetto di diverse forme di uso: vi sono usi normali, comuni o speciali, e usi eccezionali, caratterizzati dalla parziale sottrazione di beni demaniali all'uso generale, collettivo o individuale, e dalla correlativa attribuzione di diritti di godimento esclusivo a determinati soggetti, espressamente prevista anche dall'art. 823 del codice civile. Per quanto concerne il demanio idrico, accanto agli usi comuni o civici, alcuni dei quali soggetti a regime di autorizzazioni o licenze amministrative, v'é una molteplicità di utilizzazioni a fini civili, agricoli, industriali, che non sono aperte alla generalità dei cittadini, ma limitate a speciali categorie di utenti, in regime di concessione amministrativa; così, le derivazioni di acqua pubblica, per uso di forza motrice, potabile, irriguo, industriale sono oggi consentite (salvo il riconoscimento dei diritti d'uso anteriormente acquistati), solo a coloro che ne ottengano regolare concessione, la quale comporta l'attribuzione di un diritto personale ed esclusivo, di natura patrimoniale.

Per la pesca nelle acque interne, é previsto un duplice regime, caratterizzato dalla libertà di esercizio, variamente condizionata e limitata, per i pescatori di mestiere e dilettanti, nella generalità delle acque pubbliche, ad eccezione di quelle soggette a diritti esclusivi di pesca, e riservate o concesse a scopo di ripopolamento e piscicoltura; e dalla riserva dell'esercizio, con interdizione ai terzi, nelle acque sulle quali siano stati riconosciuti o concessi diritti esclusivi a soggetti privati, a cooperative, a consorzi, o altri enti pubblici. Lo Stato moderno, nell'istituire un regime di concessioni amministrative temporanee, ha tuttavia ritenuto di riconoscere i preesistenti diritti esclusivi di pesca, legittimamente acquistati secondo il diritto anteriore, sotto determinate condizioni, tanto nelle acque del demanio marittimo e lagunare e nel mare territoriale, quanto nei laghi, fiumi, torrenti, canali, e in genere in ogni acqua pertinente al demanio idrico interno. Questo riconoscimento, implicito nella normativa dell'art. 16 della legge 4 marzo 1877, n. 3706, é stato oggetto di precisa disciplina nella successiva legislazione dello Stato unitario: con r.d. 15 maggio 1884, n. 2503, fu regolata la procedura di riconoscimento, determinando i limiti tra la competenza amministrativa e la giudiziaria; con la legge sulla pesca del 24 marzo 1921, n. 312, largamente recepita nel t.u. approvato con r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604, fu fatto obbligo di chiedere il riconoscimento entro brevi termini, sotto comminatoria di estinzione di questi diritti. In ordine alle acque interne, l'art. 26 del vigente t.u. conferma l'estinzione di tutti i diritti esclusivi di pesca risalenti a data anteriore all'entrata in vigore della legge del 1877, che non siano stati effettivamente esercitati nel trentennio anteriore al 24 marzo 1921, nonché dei diritti il cui possesso non sia stato riconosciuto a mente del r.d. 15 maggio 1884, n. 2503, o per i quali gli aventi diritto non abbiano presentato documentata domanda di riconoscimento entro il 31 dicembre 1921; e prevede altresì la revisione dei decreti di riconoscimento, conferendo facoltà al Ministro per l'agricoltura di provvedere con decreto, sentito il Consiglio di Stato, alla revoca e declaratoria di estinzione, ovvero alla conferma, determinando l'oggetto specifico di ogni diritto e il suo modo di esercizio, in conformità ai titoli di acquisto ed al possesso goduto nel trentennio anteriore all'entrata in vigore della legge 24 marzo 1921, n. 312.

Non occorre sottolineare il parallelismo tra questa disciplina e quella analoga dettata per le derivazioni ed utilizzazioni di acqua pubblica, che il legislatore moderno ha del pari sottoposto ad un generale regime di concessioni, ammettendo tuttavia, entro termini perentori, il riconoscimento dei diritti d'uso preesistenti, acquistati in base a titolo legittimo ovvero a possesso trentennale anteriore alla legge 10 agosto 1884, n. 2644 (art. 2 del t.u. approvato con r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775).

3. - É evidente che la esistenza di diritti esclusivi di pesca non comporta alcuna disparità di trattamento nei confronti della generalità dei cittadini, in rapporto al jus proibenti e al correlativo divieto di esercizio della pesca entro limitate zone dei pubblici corsi o specchi d'acqua dolce, divieto che sussiste in egual misura tanto nel caso di riconoscimento di antichi diritti, quanto in quello di concessione amministrativa, la cui piena legittimità non é contestata da alcuno. Occorre altresì non dimenticare che oltre ai diritti esclusivi vi sono anche, su certe acque, diritti d'uso civico di pesca, riservati ai soli abitanti di un comune o di una frazione, con analogo regime di esclusione di tutti gli altri soggetti, privati o pubblici.

Non si può nemmeno asserire che l'istituto del riconoscimento integri di per sé una violazione del principio di eguaglianza, quasi strumento di conservazione di residui privilegi feudali, incompatibili con l'odierna Costituzione dello Stato, e privi di obbiettiva giustificazione. É, in primo luogo, inesatto, sotto il profilo storico-giuridico, attribuire genericamente a questi antichi diritti origine feudale. L'art. 2 del r.d. 15 maggio 1884, n. 2503, dichiarava che, agli effetti del riconoscimento "si presume legittimo il possesso tanto nel caso che siasi acquistato con atto traslativo di proprietà, o per sovrana concessione, quanto nel caso che siasi continuato per tempo utile a compiere la prescrizione", salvo il definitivo giudizio dell'autorità giudiziaria sulla validità dell'acquisto, della concessione o della prescrizione. A prescindere dai diritti acquistati in base ad atti di disposizione privata, ovvero in base ad usucapione, nei limiti in cui gli ordinamenti anteriori ne avessero ammesso la validità anche rispetto ad acque pertinenti al pubblico demanio o patrimonio, o ad acque già considerate private e successivamente dichiarate pubbliche, si deve ricordare che i diritti acquistati per concessione sovrana, o posseduti ab immemorabili con la conseguente presunzione di esistenza di pubblico titolo legittimo, non possono essere qualificati come "privilegi feudali", anche quando l'atto di concessione abbia la forma della investitura feudale, poiché, come é noto, questa fu largamente usata anche per costituire rapporti aventi oggetto e contenuto analogo a quello delle odierne concessioni amministrative.

Non occorre affrontare qui una indagine sul regime dei diritti di pesca nelle acque pubbliche secondo le legislazioni dei diversi Stati preunitari: basterà ricordare che essi furono generalmente conservati - semprechè ne fosse riconosciuto legittimo l'acquisto secondo la legislazione del tempo -, anche nel periodo successivo all'applicazione delle leggi abolitive della feudalità. Di fronte a questa complessa e varia realtà storico-giuridica, lo Stato nazionale unitario, pur dichiarando estinti i diritti esclusivi di pesca non più in esercizio, ha tuttavia ritenuto di consentirne, entro termini perentori ormai da lungo tempo scaduti, il riconoscimento, con le stesse leggi nelle quali si riservava e regolava la facoltà di costituirne dei nuovi, mediante atti di concessione. Questi diritti hanno carattere di perpetuità e di esclusività; senza approfondirne qui la natura giuridica, discussa in dottrina, basterà ricordare che la nostra giurisprudenza li ha costantemente qualificati come diritti reali, e che la vigente legislazione definisce i loro titolari come "proprietari di diritti esclusivi di pesca", talché certamente trattasi di diritti soggettivi perfetti, di carattere patrimoniale.

4. - Nell'ordinanza del tribunale di Milano si osserva che questi diritti non sono soggetti a revoca, a differenza dalle concessioni, potendo lo Stato ricorrere solo all'esproprio per restituire le acque al libero godimento della collettività, e che inoltre essi non rispondono nemmeno ad esigenze di conservazione ed incremento del patrimonio ittico, in quanto "se é vero che in alcuni casi il titolare si occupa del ripopolamento, ciò egli fa spontaneamente senza alcun obbligo o vincolo, e i diritti non sono soggetti a revoca qualora invece non vi provveda, potendosi solo dichiarare la decadenza da essi nelle ipotesi di non uso o di violazioni generali delle leggi sulla pesca".

La circostanza che i diritti riconosciuti non siano soggetti a revoca é conseguente alla natura dell'atto di riconoscimento, concernente diritti preesistenti legittimamente acquisiti, e quindi diversi da quelli attribuiti temporaneamente dallo Stato in base a rapporto di concessione: ma questa differenza di regime non integra certo violazione del principio di eguaglianza o di altro principio costituzionale. É, d'altra parte, inesatto asserire che i titolari dei diritti esclusivi di pesca in base a riconoscimento abbiano facoltà di esercizio indiscriminato senza obblighi né sanzioni. Parallelamente alle disposizioni per favorire l'industria della pesca e della acquacoltura, emanate con d.m. 12 ottobre 1926, in rapporto al regime delle nuove concessioni per tratti di corsi o bacini pubblici d'acqua dolce, privi o poveri di pesci d'importanza economica, il r.d.l. 27 febbraio 1936, "Razionale esercizio dei diritti esclusivi di pesca nelle acque interne", ritenuta la necessità urgente ed assoluta di sottoporre a maggiori controlli l'esercizio di questi diritti, stabilì che il razionale esercizio della pesca, e la esecuzione delle opere di miglioramento delle acque dal punto di vista ittico, richieste dal Ministero dell'agricoltura, "costituiscono un obbligo per i proprietari di diritti esclusivi di pesca" (art. 1), e disciplinò puntualmente la presentazione dei programmi di pesca e, ove necessario, di opere ittiogeniche dirette ad aumentare la pescosità, nonché l'esecuzione delle opere approvate, disponendo altresì che ai titolari di questi diritti per zone facenti parte di maggiori superfici acquee, sulle quali la pesca é esercitata in forma pubblica, possa essere imposto il concorso nelle spese per opere ittiogeniche e di vigilanza compiute dai consorzi per la tutela della pesca nelle acque stesse, in quote proporzionali all'ampiezza delle zone soggette a diritti esclusivi. Il Ministero dell'agricoltura ha facoltà di ispezioni ed accertamenti circa l'esercizio della pesca nelle zone di diritto esclusivo (art. 6), e i titolari di questi diritti, soggetti alla osservanza delle norme speciali come di quelle generali regolanti la polizia delle acque e della pesca, anche rispetto agli interessi dei terzi e agli altri interessi pubblici, in base alla espressa disposizione dell'art. 28, primo comma, del vigente testo unico, "decadono dal loro diritto per non uso, o per cattivo uso, in relazione ai fini delle leggi sulla pesca, durante tre anni consecutivi, o per abituale inosservanza delle disposizioni legislative o regolamentari attinenti alla pesca".

Anche sotto questo profilo, la dedotta questione di costituzionalità appare dunque infondata. Certamente si tratta di situazioni giuridiche risalenti al passato, in larga misura già estinte, o in via di estinzione; ma non si può, solo per questo, ritenere che esse siano prive di presupposti obbiettivi, idonei a giustificarne razionalmente la conservazione. Nel vigente ordinamento, oltre alla facoltà dell'amministrazione di procedere alla revisione ed eventuale revoca dei provvedimenti di riconoscimento, e di controllare l'effettivo esercizio dei diritti di pesca, imponendo obblighi di conservazione e miglioramento della fauna ittica, sotto sanzione di decadenza per non uso o cattivo uso, é anche prevista l'eventuale espropriazione di questi diritti per causa di pubblica utilità, secondo l'espressa norma dell'art. 29 del vigente testo unico, quando essi non siano esercitati in rapporto alla loro potenzialità, ovvero il loro esercizio sia riconosciuto contrario ad esigenze di interesse generale. La Sardegna, con la legge regionale 2 marzo 1956, n. 39, e il Friuli-Venezia Giulia, con la legge regionale 12 maggio 1971, n. 19, hanno dichiarato estinti i diritti esclusivi di pesca, mediante indennizzo. Ma, allo stato, non sussiste motivo per una declaratoria di incostituzionalità delle norme della legislazione statale concernenti il riconoscimento dei diritti esclusivi di pesca, e le conseguenti sanzioni a carico di chi peschi nelle acque soggette a questi diritti, senza il consenso del proprietario, possessore o concessionario.

5. - Nell'ordinanza del pretore di Montefiascone la questione é sollevata anche con riferimento all'art. 4 della Costituzione, osservando che, oltre alla pari dignità sociale di tutti i cittadini sancita dall'art. 3, il riconoscimento del diritto al lavoro e la promozione delle condizioni che rendano effettivo questo diritto "sembrano palesemente contrastare con situazioni di privilegio come quelle costituite dal caso di specie".

A prescindere dalla eguale dignità sociale dei cittadini, che ovviamente non viene qui in considerazione, si deve rilevare che, pur costituendo tuttora la pesca non soltanto un esercizio di diporto o svago per dilettanti, ma anche l'attività professionale dei pescatori di mestiere, non si può tuttavia solo per questo ritenere che l'esistenza di diritti esclusivi, limitati a zone circoscritte dei corsi o bacini d'acqua pubblica, possa costituire, di massima, effettivo limite od ostacolo all'esercizio della pesca da parte dei terzi, anche pescatori di mestiere, i quali hanno ogni possibilità di svolgere liberamente la loro attività sulla generalità delle acque pubbliche aperte all'uso comune o civico della pesca. Qualora, in determinate circostanze, la presenza di diritti esclusivi dovesse praticamente impedire ai pescatori di mestiere lo svolgimento della loro attività, potrebbe prospettarsi la esigenza di provvedimenti, legislativi o amministrativi, di abolizione o di espropriazione, in vista dell'interesse generale di questa categoria professionale: ma é ovvio che trattasi di problemi particolari, la cui soluzione potrà essere oggetto di valutazioni discrezionali di politica legislativa o di azione amministrativa, non già di una decisione di questa Corte, in rapporto alla denunziata illegittimità costituzionale che, in linea di principio e con riguardo alla generalità delle situazioni, sicuramente non sussiste, secondo l'interpretazione che i principi sanciti dall'art. 4 della Costituzione hanno finora costantemente avuto. Anche sotto quest'ultimo profilo la questione deve ritenersi infondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 della legge 4 marzo 1877, n. 3706 (legge sulla pesca), e degli artt. 26, 27 e 33 del r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604 (testo unico delle leggi sulla pesca), sollevata con le ordinanze di cui in epigrafe in riferimento agli artt. 3 e 4, primo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 novembre 1973.

Francesco  PAOLO BONIFACIO – Giuseppe  VERZÌ – Giovanni  BATTISTA BENEDETTI – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo  ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio  GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino  SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 21 novembre 1973.