Sentenza n.107 del 1973
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SENTENZA N. 107

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Dott. Giovanni  BATTISTA BENEDETTI

Dott. Luigi  OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola  REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto  AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido  ASTUTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge 14 luglio 1959, n. 741 (Norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori), e dell'art. 23 della legge 19 gennaio 1955, n. 25 (Disciplina dell'apprendistato), promossi con ordinanze emesse il 10 dicembre 1970 ed il 25 gennaio 1971 dal pretore di San Giovanni Rotondo nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Pirro Pasquale e Gennaro e di De Palma Antonio, iscritte ai nn. 77 e 78 del registro ordinanze 1971 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 106 del 28 aprile 1971 e n. 99 del 21 aprile 1971.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 30 maggio 1973 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

i. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Pasquale e Gennaro Pirro, contitolari della ditta omonima, imputati del reato di cui all'art. 8 della legge 14 luglio 1959, n. 741, per non aver corrisposto a tre loro dipendenti i minimi di trattamento economico, il pretore di San Giovanni Rotondo, con ordinanza 10 dicembre 1970, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della citata disposizione, per l'arbitraria discriminazione cui essa darebbe luogo rispetto ad ogni altro soggetto attivo, nell'ipotesi di reato continuato.

Ad avviso del pretore, la norma denunziata, nel prevedere a carico del datore di lavoro la pena dell'ammenda da lire 5.000 a lire 100.000 per ciascun lavoratore nei cui confronti si é verificata l'inadempienza, non consentirebbe, nell'ipotesi di unicità del disegno criminoso, di infliggere, ai sensi dell'art. 81, ultimo comma, del codice penale, la pena prevista per la più grave delle violazioni commesse, aumentabile fino al triplo, ma imporrebbe il cumulo materiale delle pene. Il che non sarebbe giustificabile, né ritenendo che l'unicità del disegno criminoso sia stata già tenuta presente dalla norma, nel fissare i limiti della pena, né considerando unica la violazione, con pluralità di atti omissivi, per i quali l'entità della pena dovrebbe, invece, essere determinata solo alla stregua dell'art. 133 del codice penale.

Nel giudizio dinanzi a questa Corte non si sono costituite le parti private.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto con atto depositato l'11 maggio 1971, nel quale chiede che la questione sia dichiarata non fondata, affermando, anzitutto, che la norma censurata non comminerebbe una pena proporzionale corrispondente al multiplo rigido di un dato coefficiente - riconosciuta da questa Corte del tutto legittima con sentenza n. 15 del 1962-, bensì una pena che, spaziando tra un minimo e un massimo, é graduabile alla stregua dei criteri dell'art. 133 del codice penale.

Sulla base di quella giurisprudenza che, per i reati commessi con una sola azione od omissione, ritiene configurabile la continuazione, l'Avvocatura non esclude la possibilità che quest'ultima sia configurabile anche per il reato in esame al di fuori di ogni profilo di illegittimità. E sostiene, infine, che, pur accogliendo sul piano esegetico la tesi opposta, la questione sarebbe del pari infondata, tenuto conto della particolare tutela costituzionale degli interessi dei lavoratori, alla cui protezione é preordinata la disposizione denunziata, la quale non consentirebbe il generico raffronto, proposto dal pretore, con altre categorie di imputati.

2. - Analoga questione di legittimità costituzionale, in riferimento al medesimo art. 3 della Costituzione, dell'art. 23 della legge 19 gennaio 1955, n. 25 - nella parte in cui statuisce a carico del datore di lavoro la pena dell'ammenda da lire 2.000 a lire 10.000 per ogni apprendista assunto senza il tramite dell'Ufficio di collocamento - é stata sollevata dallo stesso pretore con ordinanza 25 gennaio 1971.

Nel giudizio dinanzi a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato l'11 maggio 1971, nel quale, con argomentazioni sostanzialmente simili a quelle svolte per la prima ordinanza, chiede che la questione sia dichiarata non fondata.

Considerato in diritto

1. - Con le due ordinanze in epigrafe, il pretore di San Giovanni Rotondo ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge 14 luglio 1959, n. 741, nella parte in cui statuisce, a carico del datore di lavoro, la pena dell'ammenda da lire 5.000 a lire 100.000 per ogni lavoratore cui non siano stati corrisposti i minimi inderogabili di trattamento economico; e, rispettivamente, dell'art. 23 della legge 19 gennaio 1955, n. 25, nella parte in cui statuisce, a carico del datore di lavoro, la pena dell'ammenda da lire 2.000 a lire 10.000 per ogni apprendista assunto senza il tramite dell'ufficio di collocamento: e ciò perché dette norme non consentirebbero di applicare il disposto dell'art. 81, secondo e terzo comma, del codice penale nell'ipotesi che la condotta del datore di lavoro, posta in essere rispetto a una pluralità di dipendenti, rientri in un disegno criminoso unitario.

I due giudici si collocano in una medesima prospettazione di illegittimità, sicché possono essere riuniti per essere definiti con unica sentenza.

2. - La questione non é fondata.

La Corte osserva che la censurata normativa non é in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, perché il legislatore, nel suo apprezzamento, é libero di scegliere un sistema dissociato dall'istituto della continuazione, che renda più rigorosa la tutela e meglio raggiunga lo scopo che egli si prefigge.

E certamente non é irrazionale che all'importanza e alla specialità degli interessi individuali e sociali protetti corrisponda l'adozione di un meccanismo sanzionatorio che la stessa struttura delle norme svincola dalle regole comuni. É questo che sostanzia la ratio del sistema, non la (opinabile) circostanza - sottolineata dall'Avvocatura generale dello Stato - che "diretto soggetto passivo dell'azione od omissione colpevole del datore di lavoro" sia ciascun prestatore d'opera.

Irrazionale sarebbe, invece, che l'autore di una violazione di così notevole rilievo (e tuttavia qualificata contravvenzionale e sanzionata con pena pecuniaria relativamente modesta) potesse beneficiare del particolare favor rei, cui é ispirato l'istituto della continuazione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge 14 luglio 1959, n. 741 (Norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori), e dell'art. 23 della legge 19 gennaio 1955, n. 25 (Disciplina dell'apprendistato), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal pretore di San Giovanni Rotondo con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1973.

Francesco  PAOLO BONIFACIO – Giuseppe  VERZÌ – Giovanni  BATTISTA BENEDETTI – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo  ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio  GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino  SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 5 luglio 1973.