Sentenza n.91 del 1973
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SENTENZA N. 91

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Francesco  PAOLO BONIFACIO  Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Dott. Giovanni  BATTISTA BENEDETTI

Dott. Luigi  OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo  VOLTERRA

Prof. Guido  ASTUTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 781 del codice civile, promosso con ordinanza emessa il 4 maggio 1971 dal tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Bravo Bruno e David Eulalia, iscritta al n. 288 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 240 del 22 settembre 1971.

Visti gli atti di costituzione di Bravo Bruno e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 maggio 1973 il Giudice relatore Edoardo Volterra;

uditi l'avvocato Giorgio Menghini, per il Bravo, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso del procedimento civile promosso da Bruno Bravo nei confronti della moglie Eulalia David per ottenere dichiarazione di nullità di una donazione effettuata dall'attore a favore della convenuta, ai sensi dell'art. 781 del codice civile, il tribunale di Genova, con ordinanza emessa il 4 maggio 1971, ha sollevato questione di legittimità costituzionale di tale disposizione in riferimento agli artt. 3 e 29, secondo comma, della Costituzione.

L'ordinanza del tribunale di Genova osserva che il divieto delle donazioni tra coniugi, il quale trova la sua formulazione nell'art. 781 del codice civile, trae la sua origine dal diritto romano, ma che già in epoca imperiale una serie di benigne interpretazioni furono introdotte per opera della giurisprudenza e degli imperatori. Nella legislazione vigente, invece, il divieto é assoluto e drasticamente sanzionato con la nullità della donazione, anche se le condizioni sociali sono profondamente cambiate dal mondo tardo romano ad oggi e se la necessità di impedire sopraffazioni dell'un coniuge sull'altro, contrarie ai principi sui quali si fonda la famiglia, non dovrebbe più essere così fortemente sentita come duemila anni or sono.

L'ordinanza elenca quindi una serie di situazioni "inique" cui l'applicazione rigorosa del divieto può portare e pur riconoscendo che in taluni casi un coniuge profitti della soggezione morale in cui il proprio consorte può trovarsi a seguito o comunque in costanza di matrimonio per lucrare indebitamente ai danni dell'altro, danneggiandolo ingiustamente, rileva che il fatto - spiacevole quanto reale - non comporta necessariamente la conseguenza che tutte le donazioni, in via assoluta e preventiva, debbano venire vietate.

Aggiunge che il divieto, la cui ragione legislativa sembra risiedere nella presunzione della pericolosità in ogni caso delle donazioni e della difficoltà di fornire la prova dell'effettivo abuso dell'affetto coniugale da parte del coniuge malizioso nei confronti dell'altro, non appare ormai più giustificato alla luce delle moderne concezioni sociali e giuridiche.

La parità della posizione sociale, dei diritti e dei doveri dei coniugi come di tutti gli altri cittadini e la scomparsa di ogni traccia dell'inferiorità della moglie come attuazione dell'art. 3 della Costituzione ha fatto definitivamente cadere uno dei maggiori motivi deducibili a sostegno del divieto di donazioni fra coniugi, cioè le minori capacità sociali e forse anche intellettive della donna.

In tali condizioni, osserva ancora l'ordinanza, la disciplina particolare delle donazioni fra coniugi, diversa ed estremamente più rigorosa di ogni altro tipo di donazione, non trova alcuna giustificazione ed appare in contrasto con il principio di uguaglianza dei cittadini - senza distinzione di sesso e di condizione personale e famigliare - dato che la condizione di coniugato costituisce un elemento discriminatore rispetto al trattamento fatto al non coniugato in tema di libertà di donare e correlativamente di ricevere per donazione. Nei diritti della famiglia di cui all'art. 29 della Costituzione rientra certamente la tutela del coniuge ingannato dall'altro coniuge, ma non la presunzione assoluta che tutti i coniugi che ricevono una donazione devono avere circuito il coniuge donante. Secondo il giudice a quo l'enunciazione di una simile disuguaglianza presunta fra coniuge donante raggirato e donatario raggirante contrasta con l'uguaglianza giuridica dei coniugi affermata dallo stesso art. 29 della Costituzione. Non solo la tutela del coniuge effettivamente leso potrebbe essere attuata con mezzi diversi anche estendendo talune delle numerose norme dettate dalla legge a favore delle persone danneggiate dalla donazione, ma la nullità assoluta appare rimedio troppo drastico che per ovviare ad una ingiustizia meramente ipotetica giunge non di rado a porre in essere ingiustizie effettive di diverso contenuto, consentendo al coniuge troppo tutelato di usare l'art. 781 del codice civile come un, arma vessatoria. La possibilità di prevaricazione esiste anche in molti altri casi fuori del matrimonio ogni qualvolta una parte può approfittare di una posizione di preminenza rispetto all'altra per esercitare su questa un'indebita pressione e in vari casi la forza di pressione può essere anche maggiore di quella che un odierno coniuge può esercitare sull'altro (rapporto tra genitori e figli, datore di lavoro e lavoratore dipendente, tra superiore ed inferiore di una gerarchia e via dicendo). Eppure - osserva l'ordinanza - il divieto di donazione é previsto solo per i coniugi senza che si possa dare una giustificazione accettabile di tale stato di cose. Detto divieto assoluto di donazioni, pertanto, costituisce ormai un mero relitto storico, che pare sia tempo di accantonare. Solleva di conseguenza di ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'art. 781 del codice civile in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione.

2. - L'ordinanza regolarmente notificata e comunicata é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.

Si é costituito dinanzi alla Corte costituzionale il Bravo rappresentato e difeso dall'avv. Giorgio Menghini ed é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato.

Secondo il Bravo, in materia di donazione, i coniugi si trovano in una posizione di reciproca assoluta parità, laddove la distinzione effettuata dall'art. 781 del codice civile tra coniugati e non coniugati rifletterebbe un'evidente disparità di situazioni tra questi e quelli, esulando in ogni caso dal sindacato della Corte costituzionale ogni valutazione di natura politica e sindacato sull'uso dei poteri discrezionali del Parlamento.

Rileva inoltre che tutti i legislatori di tutte le epoche e di tutti gli Stati, hanno tenuto presente il pericolo che i coniugi mutuo amore spoliarentur e considerato immorale che concordia pretio conciliari videretur, richiamando in particolare il codice albertino, il codice estense ed il codice civile del 1865.

I rimedi possono essere vari, ma non spetterebbe al giudice ordinario né al giudice costituzionale stabilirli, bensì esclusivamente al Parlamento. Né la motivazione dell'ordinanza in esame direbbe qualcosa di più e di meglio di quanto é stato detto da tutti i cultori della materia pro o contro il sistema vigente: basti richiamare i progetti preliminari al codice del 1942 che avevano proposto l'abolizione del divieto ad imitazione del codice napoleonico, le varie relazioni delle Commissioni incaricate della predisposizione della riforma del codice del 1865, le discussioni che si sono avute in dottrina fra il 1939 ed il 1942, per convincersi che il parlare di "mero relitto storico" é proprio fuori luogo e frutto di scarsa ponderazione.

Conclude quindi per la dichiarazione di infondatezza della questione proposta.

3. - Ad analoga conclusione perviene l'Avvocatura dello Stato nel rilievo che la giurisprudenza costituzionale é costante nel ritenere che il principio di eguaglianza non vada inteso in senso assoluto, perché é doveroso disciplinare in modo diverso situazioni obbiettivamente diverse.

L'esistenza del divieto fra i coniugi di compiere fra di loro un atto giuridico che é, invece, consentito per la generalità dei cittadini, trova giustificazione nel loro particolare status che é fonte di diritti e doveri. Esclusa per tale considerazione la violazione del principio di eguaglianza rispetto ai soggetti che non hanno la qualità di coniugi, essa va esclusa anche con riferimento alla posizione del marito rispetto a quella della moglie, dato che il divieto sussiste nei confronti di entrambi. Il precetto costituzionale della parità giuridica e morale dei coniugi (art. 29 Cost.) risulterebbe, quindi, rispettato.

Considerato in diritto

1. - L'ordinanza del tribunale di Genova solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 781 del codice civile sotto il profilo del contrasto con l'art. 3 della Costituzione in quanto la norma denunziata - per la quale non si può dare una giustificazione accettabile - viola il principio di uguaglianza dei cittadini - senza distinzione di sesso e di condizione personale e familiare - considerando la condizione di coniugato come un elemento discriminante rispetto al trattamento fatto al non coniugato in tema di libertà di donare e correlativamente di ricevere per donazione, nonché sotto il profilo del contrasto con l'art. 29 capoverso della Costituzione in quanto la presunzione che tutti i coniugi che ricevono una donazione devono aver circuito il coniuge donante e pertanto la presunzione di una disuguaglianza fra coniuge donante raggirato e coniuge donatario raggirante contrasta con l'uguaglianza giuridica e morale dei coniugi affermata dallo stesso art. 29 capoverso.

2. - La questione é fondata.

La norma denunziata trae la sua lontana origine dalla persuasione, tramandata attraverso i secoli, che il divieto di atti di liberalità fra coniugi fosse un principio proprio dei Romani. Nel digesto e nel codice giustinianeo esistono infatti due titoli, contenenti numerosi frammenti di giuristi e di costituzioni imperiali, i quali decidono casi di donazioni fra coniugi, tenendo conto se le donazioni sono intervenute prima, durante o dopo l'esistenza giuridica del vincolo coniugale e applicando con ampia e benigna interpretazione un'attenuazione al divieto introdotta da Settimio Severo e Caracalla che stabiliva la convalida delle donazioni effettuate al coniuge quando il donante fosse premorto al donatario in costanza di matrimonio senza aver mutato la volontà di donare.

Va rilevato che già all'epoca romana appariva dubbio il fondamento del divieto, di cui non erano chiare le origini: le insufficienti, diverse e non sempre concordanti spiegazioni che si leggono nei testi testimoniano l'imbarazzo degli stessi giuristi antichi per rispondere al problema. L'infondatezza e l'irragionevolezza di questi tentativi (timore che un coniuge possa essere spogliato dall'altro per amore; timore che le donazioni possano distogliere i genitori dall'allevamento della prole; timore che il vincolo coniugale possa essere indebolito per il fatto che il coniuge avente la possibilità non effettui donazioni all'altro; timore che la reputazione dei coniugi possa essere compromessa in quanto l'unione appaia basata su un prezzo; timore che il coniuge più abbiente possa essere impoverito a favore del coniuge meno abbiente) risultano evidenti soprattutto se siffatte giustificazioni si vogliono invocare rispetto al matrimonio moderno.

Di fronte all'ampia trattazione dell'argomento nel corpus iuris civilis, fonte per essi di diritto scritto e applicabile, i giuristi medioevali e quelli dei secoli successivi erano indotti a dare al divieto valore di vero e proprio dogma giuridico senza però riuscire a fornire una spiegazione plausibile della sua funzione. La credenza, la quale esercitò una decisiva influenza in talune legislazioni europee, che si trattasse di una antichissima e fondamentale norma romana, doveva modificarsi assai più tardi a seguito della scoperta e della pubblicazione nel 1823 ad opera del cardinale Angelo Mai di una raccolta frammentaria di iura e di leges (designata convenzionalmente col nome di Fragmenta vaticana) contenente in un passo del giurista Paolo disposizioni della lex Cincia de donis et muneribus del 204 a.C., la quale, prescrivendo che le donazioni in genere non potessero superare un dato ammontare, escludeva dalla limitazione determinate persone unite da vincoli di agnazione, parentela o affinità e fra queste il marito e la moglie nei loro reciproci confronti.

3. - La difesa del Bravo a sostegno della propria tesi, oltre alle disposizioni del codice civile del 1865 e di quello attuale, cita anche quelle del codice albertino e del codice estense. Ma a questo argomento di natura storica può opporsi il richiamo alle molte altre legislazioni che non hanno accolto o che addirittura hanno revocato il divieto delle donazioni fra coniugi.

In Francia, anteriormente alla rivoluzione, il divieto era dichiarato in alcune Coutumes con numerose e diverse deviazioni dal diritto romano ed in altre invece non accolto, creando gravissimi inconvenienti per questa disparità nelle varie regioni del Regno. Durante la rivoluzione la legge del 17 nevoso dell'anno II, con gli artt. 14 e 61 riconosceva ai coniugi il pieno diritto di farsi donazioni fra loro. Pochi anni più tardi, il code civil napoleonico del 1803 con l'art. 1096 abbandonava decisamente il principio attribuito ai Romani, non stabilendo alcun divieto alle donazioni fra coniugi durante il matrimonio, dichiarando che non sono revocabili per sopravvenienza di figli e attribuendo ai donanti la facoltà di revocarle, la donna senza bisogno di autorizzazione maritale o giudiziaria.

Il sistema del code civil francese, applicato nel 1806 al Regno d'Italia e vigente nel Ducato di Lucca sino al 1865, venne accolto nel codice del Regno delle Due Sicilie del 1819 (art. 1050) e nel codice per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla del 1820 (art. 1945). Il codice estense del 26 aprile 1771 richiamato in vigore il 28 agosto 1814, al libro II, titolo XII, n. XVII, ripudiava il principio attribuito ai Romani, accolto invece nell'art. 1931 del successivo codice estense promulgato il 25 ottobre 1851. Il codice generale austriaco sia nel progetto del 1753, sia nella parte posta in vigore nel 1786, sia nella definitiva redazione del 7 luglio 1810 applicata nel Regno lombardo-veneto il 1 gennaio 1816, il codice prussiano del 1 agosto 1794, il codice belga del 3 settembre 1807, il codice svizzero del 10 dicembre 1907, entrato in vigore il 1 gennaio 1912, il codice civile tedesco, pubblicato il 18 agosto 1896, entrato in vigore il 1 gennaio 1900, il codigo civil messicano del 1928, entrato in vigore il 1 ottobre 1932, il codigo civil brasiliano del 1 gennaio 1916, entrato in vigore il 1 gennaio 1917, con modifiche del 15 gennaio 1919, non vietano le donazioni fra coniugi. Anche recentemente il codice civile ellenico del 1946, innovando il sistema seguito sino allora in Grecia, e il cedigo civil venezuelano del 1 ottobre 1942, ammettono la liceità delle donazioni fra coniugi durante il matrimonio.

I codici del XIX secolo nei quali é comminato il divieto sono invece il codice della Repubblica e Cantone del Ticino del 16 giugno 1837 il quale all'art. 1000, vietava fra i coniugi qualunque donazione durante il matrimonio, aggiungendo che poteva aver luogo a favore dei figli, il codigo civil argentino del 1869, il codigo civil spagnolo del 1888 (art. 1334) e il codice albertino del 1837, entrato in vigore il 1 gennaio 1838, il quale, a differenza di molte altre legislazioni dei secoli XVIII e XIX, e andando anche oltre lo stesso diritto giustinianeo, statuiva la nullità assoluta delle donazioni fra coniugi, stabilendo all'art. 1186 che "i coniugi non potranno durante il matrimonio farsi l'uno all'altro alcuna liberalità, salvo negli atti di ultima volontà nelle forme e secondo le regole stabilite per tali atti". Questa norma veniva riprodotta pedissequamente nel già citato art. 1931 del codice estense del 1851 e nell'art. 1054 del codice civile italiano del 1865.

4 - Più volte la dottrina italiana aveva posto in rilievo l'irrazionalità del divieto di cui al citato articolo 1054 del codice civile del 1865 e il suo contrasto con le moderne esigenze sociali ed economiche. Tale irrazionalità veniva apertamente denunziata dalla Commissione per la riforma del III libro del codice civile presieduta da Mariano d'Amelio nella sua Relazione al progetto 23 marzo 1936, la quale proponeva "l'abolizione del divieto che non é giustificato da alcuna plausibile ragione, poiché tutti quei motivi di natura morale che il diritto romano ci ha tramandati o sono da considerarsi inconsistenti o del tutto estranei all'ordinamento familiare moderno" e dopo avere aspramente criticato le argomentazioni addotte a giustificazione dell'art. 1054 del codice civile del 1865, aggiungeva: "Inoltre tal divieto é più di ogni altro soggetto a frode, poiché la coscienza pubblica reagisce contro tal rigore ricorrendo a simulate alienazioni a titolo oneroso. Il divieto é irritante anche dal punto di vista morale poiché il codice considera lecite le donazioni fra estranei concubini, e inoltre dal punto di vista logico, poiché lascia ampia libertà di donare ai fidanzati, favorendo anzi tali donazioni". Il progetto del 1936 proponeva pertanto all'art. 406 un testo che seguiva il principio del codice napoleonico, ammettendo la piena liceità delle donazioni fra coniugi durante il matrimonio con facoltà del donante di revocarle e stabilendo la revocabilità di diritto in caso di annullamento del matrimonio e la validità della donazione a favore del coniuge di buona fede nel caso di matrimonio putativo.

Malgrado che la Corte di cassazione, numerose Corti di appello, numerose facoltà giuridiche e numerosi giuristi, esaminando il citato progetto 23 marzo 1936, si fossero decisamente pronunziati per l'abolizione del divieto, ritenuto irrazionale, nel progetto definitivo e nel testo del codice all'articolo 781, in ossequio ad un principio che si riteneva fosse proprio dei Romani, si manteneva il divieto di qualsiasi liberalità fra coniugi, salvo quelle conformi agli usi, e si tentava di giustificarlo in base all'argomento (che generazioni di giuristi avevano da secoli criticato, dimostrandone l'infondatezza) che il trapasso dei beni da un coniuge all'altro potrebbe "turbare il regime delle loro relazioni che deve essere basato sul reciproco affetto e non su egoistici calcoli utilitari".

5. - I precedenti storici della norma denunziata e l'esame di altre legislazioni antiche e moderne consentono di valutare positivamente l'affermazione del giudice a quo che il divieto assoluto delle donazioni fra coniugi rappresenta alla nostra epoca "un mero relitto storico".

Anche contro l'art. 781 del codice del 1942 si é schierata decisamente la più autorevole dottrina, rilevando che il divieto si é perpetuato fino ai nostri giorni più per forza di tradizione che per un'intrinseca ragione di essere, e affermando che a suo favore nessuna plausibile considerazione si é invocata o si può invocare.

Se infatti non sono congruenti ed applicabili al matrimonio moderno le giustificazioni in precedenza elencate proposte dai giuristi romani per un divieto assai meno drastico di quello dell'art. 781 del codice civile, ancor meno fondata é quella psicologica addotta nei lavori preparatori del codice civile del 1942, in quanto il fondamento giuridico del matrimonio disciplinato dal codice vigente risiede in elementi del tutto diversi dal trapasso di beni da un coniuge all'altro. Né si comprende perché una donazione possa turbare le relazioni fra coniugi più che un qualsiasi altro rapporto patrimoniale. Non fondata é anche l'altra giustificazione, sollevata da taluni giuristi, decisamente confutata dalla ricordata Relazione 23 marzo 1936 al progetto del codice civile, che attraverso le donazioni reciproche i coniugi potrebbero ledere diritti di terzi, in quanto, per impedire il verificarsi di una siffatta ipotesi, il legislatore, a parte le norme, del resto applicabili anche alle donazioni fra coniugi, relative agli atti in frode dei terzi, avrebbe dovuto vietare ogni e qualunque negozio giuridico fra coniugi.

L'esame della recente giurisprudenza pone in luce i gravissimi inconvenienti cui dà luogo il divieto, il quale appare incompatibile con le attuali esigenze familiari e con la realtà sociale ed economica del nostro tempo, facendo fra l'altro sorgere situazioni palesemente ingiuste ed anche moralmente aberranti in contrasto con gli stessi principi cui si ispirano altre norme del vigente codice civile italiano. L'applicazione della norma denunziata porta fra l'altro necessariamente a considerare valide le donazioni fra coniugi fatte in pendenza di matrimonio putativo o di matrimonio successivamente annullato e nulle quelle fatte in pendenza di matrimonio sciolto in seguito a sentenza di divorzio anche se pronunziata da tribunali stranieri e delibata in Italia, mentre considera valide le donazioni compiute in Italia da un cittadino straniero al proprio coniuge.

6. - Evidente appare il contrasto della disposizione dell'art. 781 del codice civile con l'art. 3 della Costituzione. La norma denunziata viola infatti il principio di uguaglianza fra cittadini in quanto stabilisce che la condizione di coniugato con una data persona costituisce un elemento discriminante rispetto alla capacità del non coniugato o del coniugato con altra persona di donare e correlativamente di ricevere per donazione. La disposizione, che limita la capacità contrattuale dei cittadini coniugati nei loro reciproci confronti, riducendo la libertà della loro iniziativa economica garantita dall'art. 41 della Costituzione, non trova alcuna ragionevole giustificazione in motivi che attengano all'utilità sociale o alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana o che comunque possano identificarsi con i principi e i valori tutelati dalla Costituzione o che questa si propone di attuare.

Non solo riguardo al contenuto della norma manca pertanto ogni corrispondenza del fine legislativo con i diritti della persona tutelati dalla Costituzione e con i principi dichiarati nell'art. 3, ma non si rinviene lo scopo oggettivo del divieto né si ravvisa quali interessi esso protegga. Anche dai lavori preparatori del codice risulta che il legislatore nel formulare l'art. 781 non é stato mosso dall'intento di disciplinare in modo disuguale situazioni che ritenesse oggettivamente disuguali e dal perseguimento ragionevole di finalità apprezzabili costituzionalmente, onde la limitazione dell'attività negoziale imposta nei loro reciproci confronti ai coniugi legittimi solo perché hanno tale qualità giuridica é priva di ogni valida giustificazione.

Né é fondato l'argomento addotto dalla difesa del Bravo per escludere il contrasto della norma denunziata con l'art. 3 della Costituzione in quanto il divieto di cui all'art. 781 del codice civile si applica ad entrambi i coniugi, ponendoli in situazioni di parità reciproca. É chiaro, al contrario, che il divieto costituisce una palese ineguaglianza giuridica di coloro che sono uniti in matrimonio legittimo non solo rispetto alla generalità dei cittadini, riducendo, come si é detto, la loro iniziativa economica, ma anche rispetto ad altri casi di unioni e di convivenze, quali il matrimonio putativo, il matrimonio successivamente annullato, la convivenza more uxorio di cui all'art. 269 del codice civile, il concubinato ed altre. Ineguaglianza tanto più ingiustificata in quanto gli stessi pericoli, che si afferma di voler impedire mediante il divieto di donare imposto ai coniugi legittimi, possono incombere con assai maggiore frequenza e con conseguenze assai più gravi sulle persone che si trovano nei casi sopra menzionati e per le quali il divieto non é comminato.

L'irragionevolezza della limitazione ex art. 781 a carico dei coniugi legittimi si appalesa evidente anche nel fatto che il divieto non si applica ai fidanzati con l'assurda conseguenza che le medesime persone possono farsi fra loro donazioni sino al momento in cui contraggono matrimonio legittimo.

Pertanto, necessariamente, a base del divieto di cui all'articolo 781 del codice civile vi é la presunzione assoluta che il matrimonio legittimo crei fra i coniugi uno stato reciproco di ineguaglianza e di inferiorità per cui l'uno possa sempre essere circuito o costretto dall'altro a spogliarsi a favore di questo dei suoi beni, presunzione questa incompatibile con il disposto dell'art. 29, capoverso, della Costituzione che ordina il matrimonio sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e con la stessa concezione giuridica del matrimonio.

Tale presunzione é, del resto, contrastante con la stessa realtà giuridica in quanto la persona unita ad altra da vincolo coniugale legittimo é meno esposta a soggiacere a seduzioni e pressioni affettive da parte dell'altro coniuge dirette ad ottenere liberalità, le quali non possono in alcun modo incidere sulla condizione di coniuge legittimo, che non invece la persona non unita ad altra con siffatto vincolo, la quale più facilmente può essere indotta a cedere a ricatti affettivi e a compiere liberalità sotto la minaccia di non effettuare un matrimonio o di far cessare un'unione illegittima.

7. - Pertanto, seguendo i criteri enunciati dalla Corte, l'incostituzionalità della norma denunziata risulta non solo estrinsecamente in quanto, limitando l'attività negoziale dei coniugati legittimi, li pone, rispetto alla capacità di effettuare e di ricevere donazioni, in una condizione differenziata in confronto a quella degli altri cittadini, senza che la norma medesima risulti perseguire alcuna finalità apprezzabile, ma anche intrinsecamente in quanto il principio costituzionale di uguaglianza appare violato, mancando ogni ragionevole motivo per fare ai cittadini coniugati con il donante un trattamento diverso da quello dei cittadini non coniugati o non coniugati con il donante, creando situazioni di svantaggio in difetto di una fondata o almeno plausibile giustificazione del precetto o desumibile da effettive esigenze oggettive.

8. - La constatazione del contrasto dell'art. 781 del codice civile con l'art. 3 della Costituzione é assorbente dell'altra questione sollevata dal giudice a quo dell'illegittimità costituzionale del medesimo articolo in riferimento all'art. 29, capoverso, della Costituzione ed é superfluo attardarsi ulteriormente nell'esame anche di tale questione.

9. - Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 781 del codice civile in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 781 del codice civile.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 giugno 1973.

Francesco  PAOLO BONIFACIO – Giuseppe  VERZÌ – Giovanni  BATTISTA BENEDETTI – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo  ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio  GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino  SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 27 giugno 1973.