Sentenza n.82 del 1973
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SENTENZA N. 82

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Francesco  PAOLO BONIFACIO  Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Dott. Giovanni  BATTISTA BENEDETTI

Dott. Luigi  OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo  VOLTERRA

Prof. Guido  ASTUTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale:

a) dell'art. 48, primo comma, del r.d. 26 febbraio 1928, n. 619 (approvazione del nuovo testo unico delle disposizioni legislative sull'Opera di previdenza dei personali civile e militare dello Stato e dei loro superstiti);

b) dell'art. 52 del predetto r.d. 26 febbraio 1928, numero 619, nel testo sostituito dall'art. 5 della legge 27 novembre 1956, n. 1407;

promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 20 ottobre 1970 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - sezione VI - sul ricorso di Lucin Luisa contro il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e l'Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti statali, iscritta al n. 413 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 323 del 22 dicembre 1971;

2) ordinanza emessa il 30 marzo 1971 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - sezione IV - sul ricorso di Napoli Alfonso ed altri contro il Ministero di grazia e giustizia e l'Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti statali, iscritta al n. 422 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 323 del 22 dicembre 1971;

3) ordinanza emessa il 12 luglio 1971 dal tribunale di Padova nel procedimento civile vertente tra Bolletti Marcello, Rosetta e Marina e l'Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti statali, iscritta al n. 447 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16 del 19 gennaio 1972;

4) ordinanza emessa il 4 maggio 1971 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - sezione VI - sul ricorso di Mattone Grazia contro l'Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti statali, iscritta al n. 487 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37 del 9 febbraio 1972.

Visti gli atti di costituzione di Lucin Luisa, di Napoli Alfonso ed altri, di Mattone Grazia, di Bolletti Marcello, Rosetta e Marina, dell'ENPAS e del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni:

udito nell'udienza pubblica del 21 marzo 1973 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi;

uditi l'avv. Vitaliano Lorenzoni, per Lucin Luisa, gli avvocati Franco Salerno e Giuliana Fuà, per Napoli Alfonso ed altri, l'avv. Carlo Fornario, per Mattone Grazia, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Elio Vitucci, per l'ENPAS e per il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni.

Ritenuto in fatto

1. - A seguito della morte di Franca Francescon, insegnante di ruolo ed iscritta al fondo di previdenza dell'ENPAS da vari anni ed avente diritto all'indennità di buonuscita, il marito, Marcello Bolletti, e le figlie, Rosetta e Marina Bolletti, convenivano davanti al tribunale di Padova per sentirlo condannare al pagamento in loro favore della detta indennità. Ed avendo l'Ente opposto che, a sensi dell'art. 52 del r.d. 26 febbraio 1928, n. 619 (come risultante dall'art. 5 della legge 27 novembre 1956, n. 1047), la domanda non era fondata perché in fatto il coniuge superstite non aveva diritto a pensione indiretta e le figlie non erano minorenni o maggiorenni nubili, eccepivano l'illegittimità costituzionale del citato art. 52, in riferimento agli artt. 36 e 3 della Costituzione.

Il tribunale di Padova, con ordinanza del 12 luglio 1971, accoglieva l'eccezione e sollevava la relativa questione di legittimità costituzionale.

Osservato che, siccome avrebbe rilevato questa Corte con la sentenza n. 75 del 1968, l'indennità di buonuscita ha carattere retributivo e costituisce parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, e, pur essendone, per fini previdenziali, differita la corresponsione al momento della cessazione del rapporto, spetta al lavoratore appena questi abbia prestato la sua opera, riteneva che la norma denunciata fosse in contrasto con l'art. 36 della Costituzione quando prevede che l'indennità possa non essere corrisposta agli aventi causa del titolare che non versino in stato di bisogno (genitore inabile al lavoro ed a carico della defunta moglie, figlie maggiorenni nubili). Riteneva, altresì, riportandosi alla sentenza n. 135 del 1971 con cui questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 15 febbraio 1958, n. 46, in materia di pensioni ordinarie a carico dello Stato, che il ripetuto art. 52 violasse anche l'art. 3, comma primo, della Costituzione quando prevede che l'indennità possa essere corrisposta alle figlie maggiorenni solo se nubili.

2. - Davanti a questa Corte si costituivano soltanto i Bolletti, a mezzo degli avvocati Giuseppe Penasa e Carlo Iossa, i quali, con le deduzioni e con successiva memoria, chiedevano alla Corte di volere dichiarare fondata la questione.

Si riportavano ai motivi indicati dal tribunale di Padova; e rilevavano, contro la tesi difensiva svolta dall'ENPAS davanti al giudice del merito, secondo cui dalla contrapposizione delle due categorie di lavoratori (pubblico impiego e lavoro privato) si potesse trarre la giustificazione della differente disciplina in materia di indennità di buonuscita e di indennità in caso di morte, che invece da quella contrapposizione scaturisce il duplice vizio denunziato. La diversità di situazione delle due categorie di lavoratori é puramente formale e non sostanziale (e sul piano sociale) e per ciò non risulta ammissibile e ragionevole il detto diverso regolamento.

Dato che l'indennità di fine lavoro é parte del corrispettivo, il cui pagamento é differito per fini previdenziali al momento della cessazione del rapporto, il diritto a percepirla sorgerebbe appena il lavoratore ha prestato la sua attività e solo diventerebbe esigibile quando viene meno il rapporto.

Si tratterebbe, quindi, di un diritto sorto, la cui esecuzione sarebbe sottoposta a termine.

E quindi, se l'ENPAS non adempie il correlativo obbligo ed incamera il corrispettivo dovuto al lavoratore, si ha praticamente un'espropriazione senza corrispettivo e per ciò illegittima.

3. - La causa veniva trattata all'udienza del 22 novembre 1972.

La Corte costituzionale, con ordinanza n. 181 del 1972, non avendo potuto decidere la causa prima della cessazione dalle funzioni di uno dei giudici, disponeva la restituzione alla cancelleria del relativo fascicolo.

4 - Luisa Lucin, vedova di Guido Migneco, dipendente del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni, che a seguito di condanna penale era stato destituito dall'impiego, e non aveva maturato il diritto a pensione, chiedeva al competente Ministero la corresponsione in suo favore dell'indennità di buonuscita spettante al marito.

Contro la nota ministeriale, con cui la domanda veniva respinta, perché il Migneco non aveva maturato il diritto a pensione, la Lucin ricorreva davanti al Consiglio di Stato,

deducendo tra l'altro che la norma invocata dal Ministero (art. 48 del r.d. 26 febbraio 1928, n. 619) fosse in contrasto con gli artt. 36 e 3 della Costituzione.

Il Ministero e l'ENPAS, sul punto, si pronunciavano in senso contrario.

Il Consiglio di Stato, con ordinanza del 20 ottobre 1970, riteneva rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 48, comma primo, del citato t.u. "nella parte in cui subordina il diritto all'indennità di buonuscita al conseguimento del diritto a pensione dell'impiegato o, gradatamente, quando, ponendo l'anzidetta subordinazione, non fa salvo il diritto all'indennità di buonuscita nell'ipotesi in cui all'impiegato (e per lui alla moglie o ai suoi congiunti) cessato comunque dal servizio non competa "l'assegno vitalizio di cui all'art. 12 della legge 19 gennaio 1942, n. 22.

Premetteva il Consiglio di Stato che al Migneco, all'atto in cui era cessato il rapporto, era stata liquidata l'indennità una volta tanto in luogo della normale pensione vitalizia per non avere esso dipendente raggiunto il numero minimo di anni di servizio per ottenere la pensione e che la maggior parte della somma dovutagli a quel titolo era stata versata all'INPS per la costituzione della posizione assicurativa nell'assicurazione per l'invalidità la vecchiaia ed i superstiti; e che la indennità di buonuscita fosse cosa diversa da quella una tantum, e corrispondesse, a prescindere dal particolare sistema adottato per farsi luogo alla sua corresponsione, all'indennità di anzianità, di cui all'art. 2120 del codice civile e ora prevista dall'art. 9 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Osservava che l'indennità di anzianità avesse carattere retributivo, costituendo parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, che il relativo diritto discendesse dall'art. 36 e che la corresponsione di essa non incidesse sul diritto al conseguimento delle diverse prestazioni di carattere previdenziale, invocabili, ricorrendone i presupposti, secondo le norme dell'art. 38 (sentenze nn. 75 e 112 del 1968); e che sulla base di questi principi, "ancorché all'indennità di anzianità o buonuscita sia da riconoscersi anche una finalità di carattere previdenziale", non fosse manifestamente infondato il dubbio di incostituzionalità della norma denunciata, atteso che, con il primo comma, si subordina il diritto all'indennità di buonuscita al conseguimento del diritto alla normale pensione vitalizia.

Non verificandosi codesta condizione, l'impiegato verrebbe ad esser privato, in violazione dell'art. 36, di una parte dello stipendio, di cui solo il pagamento é differito.

Ricorrerebbe anche il contrasto con l'art. 3. Si avrebbe una ingiustificata disparità di trattamento degli impiegati dello Stato rispetto ai dipendenti di datori privati e a quelli di enti pubblici non economici, e agli impiegati dello Stato non di ruolo, per ciò che a tutte queste categorie di dipendenti l'indennità di anzianità o buonuscita viene corrisposta in ragione della durata del servizio prestato, a prescindere dal raggiungimento di una determinata anzianità di servizio superiore al semestre e comunque dal raggiungimento del diritto a pensione, e qualora si tenga presente la finalità che l'indennità di buonuscita assolve al momento della cessazione del rapporto di impiego. Ed un ulteriore profilo di disparità si potrebbe rinvenire, mettendo a raffronto le situazioni omogenee degli impiegati di ruolo che cessino dal servizio dopo aver maturato il diritto a pensione e di quelli che, cessando dal servizio, non abbiano raggiunto l'anzianità per ottenere la stessa pensione, perché i primi conseguono la pensione e l'indennità di buonuscita ed i secondi di norma ricevono l'indennità una tantum ed ottengono l'assegno vitalizio ex art. 12 della citata legge n. 22 del 1942 solo se dispensati dal servizio per infermità o età avanzata e non anche se siano stati destituiti (come il marito della Lucin) o si siano dimessi o comunque siano cessati dal servizio per cause diverse dall'infermità o dalla loro età avanzata.

5. - Davanti a questa Corte si costituivano Luisa Lucin, a mezzo degli avvocati Feliciano Benvenuti e Vitaliano Lorenzoni, e il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e l'ENPAS, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato.

La Lucin, con le deduzioni e con la memoria, chiedeva che fosse dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma denunciata.

Precisava che al di lei marito era stata erogata solo l'indennità una volta tanto e che tale indennità é cosa ben diversa da quella di buonuscita, la quale corrisponde, a prescindere dal presupposto che dovrebbe vincolare la corresponsione, all'indennità di anzianità disciplinata dall'art. 2120 del codice civile e dall'art. 9 della legge 15 luglio 1966, n. 604, con riferimento sia ai datori privati e sia agli enti pubblici.

Metteva in evidenza a proposito dell'indennità di anzianità la sua originaria funzione risarcitoria, il successivo affiorare della sua portata previdenziale e l'affermarsi infine della funzione retributiva, ammessa ormai dalla prevalente dottrina.

Rilevato che, quindi, l'indennità di anzianità costituisce la parte accantonata dello stipendio, che in ogni caso deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, secondo lo spirito dell'art. 36 della Costituzione, la Lucin osservava che "il subordinare la parte accantonata ad un fattore diverso dalla quiescenza (ed in particolare al conseguimento della pensione) significhi privare il lavoratore del giusto stipendio e quindi violare, in definitiva, il dettato costituzionale (articolo 36)".

Secondo la Lucin la norma denunciata sarebbe altresì incostituzionale per violazione dell'art. 3.

Non esiste sostanziale diversità tra il rapporto di pubblico impiego e quello privato, né tanto meno nell'ambito dello stesso rapporto pubblico tra gli impiegati di ruolo e quelli non di ruolo. In tutti questi casi vi é una uniforme situazione di bisogno in cui si trova il lavoratore, ed appare quindi inconcepibile che in un caso (impiego privato e impiego pubblico non di ruolo) si abbia diritto all'indennità di anzianità e al trattamento pensionistico previdenziale, e nell'altro (impiego pubblico di ruolo) l'erogazione dell'indennità una tantum sia sufficiente ad escludere il diritto all'indennità di anzianità. Il cumulo é negato proprio nell'ipotesi (di maggior bisogno) di erogazione dell'indennità una tantum, al posto della pensione, a causa della minore (e non sufficiente) anzianità di servizio.

L'Avvocatura generale dello Stato sosteneva la tesi della non fondatezza della questione.

Contestava in riferimento all'art. 36 della Costituzione, che l'indennità di buonuscita costituisca una (residua) parte dello stipendio, la cui corresponsione sia differita nel tempo rilevando che solo la pensione può considerarsi come pagamento differito di una parte dello stipendio che viene detratta durante la sussistenza del rapporto d'impiego, proprio per consentirne il protrarsi del pagamento dopo avvenuta la cessazione del rapporto.

Riteneva poi, da un canto, eccessivo ricondurre qualsiasi indennità ad una finalità retributiva, e dall'altro, necessario tener presente che caratteristicamente il sistema previdenziale é basato sul principio mutualistico della partecipazione del lavoratore alla formazione dei fondi previdenziali, anche se di essi egli non venga a beneficiare.

Non ci sarebbe, infine, alcun contrasto con l'art. 3, che va inteso nel senso che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che sotto il profilo soggettivo od oggettivo si presentino identiche.

6. - Alfonso, Liliana e Domenico Napoli, eredi legittimi del magistrato Enrico Napoli, deceduto in servizio, non avendo ottenuto dall'ENPAS la liquidazione dell'indennità di buonuscita a seguito della cessazione del rapporto di impiego del loro dante causa, proponevano ricorso giurisdizionale al Consiglio di Stato, deducendo, tra gli altri motivi, il contrasto con gli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione, degli artt. 5 della legge 27 novembre 1956, n. 1407; 48 del t.u. 26 febbraio 1928, n. 619, e 12 della legge 25 novembre 1957, numero 1139, in relazione agli artt. 2120 e 2122 del codice civile e all'art. 9 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Il Consiglio di Stato, con ordinanza del 30 marzo 1971, riteneva rilevante solo la questione relativa all'art. 5, comma secondo, della legge n. 1407 del 1956 (che aveva sostituito l'art. 52 del t.u. del 1928), e la considerava non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Ad avviso del Consiglio di Stato, l'indennità di buonuscita si presterebbe ad essere qualificata come una forma previdenziale: essa, infatti, prende origine e sostanza da un contributo, che é a carico in parte del dipendente ed in parte dell'amministrazione, ed é ragguagliato nella prevista misura sullo stipendio, paga o retribuzione del dipendente stesso, e che rappresenta una decurtazione della retribuzione spettategli, che si distacca dal di lui patrimonio sino al giorno della cessazione del rapporto; e l'indennità di buonuscita, in questo ultimo momento, viene liquidata a favore del lavoratore e così "l'entità corrispondente ai contributi, commisurati sulla retribuzione durante l'attività lavorativa, rientra nella disponibilità del dipendente sotto forma di indennità". Ma l'indennità di buonuscita presenterebbe altresì caratteristiche per cui potrebbe essere avvicinata all'indennità di anzianità di cui all'art. 2120 del codice civile (commisurazione all'ultima retribuzione e alla durata del rapporto; limitata correlazione fra i contributi versati dal dipendente e l'entità dell'indennità).

Stante ciò, il Consiglio di Stato si prospettava due ipotesi:

che l'indennità di buonuscita avesse il contenuto e lo scopo proprio dell'indennità di anzianità ovvero che con quest'ultima indennità non presentasse alcuna analogia.

Nel primo caso, in cui nell'indennità di buonuscita sarebbe identificabile una di quelle forme di previdenza che l'ultimo comma dell'art. 2120 del codice civile contempla, risulterebbe una disparità di trattamento attraverso la messa a raffronto delle discipline dettate dal citato art. 5 e dall'art. 2122 del codice civile, e dalle limitazioni previste dalla prima norma in ordine ai destinatari della indennità e non esistenti per i legittimati a riscuotere l'indennità in caso di morte.

In violazione dell'art. 3 della Costituzione, tale restrittivo trattamento sarebbe riservato ai soli dipendenti dello Stato (e non anche ai dipendenti degli altri enti pubblici che conseguono il trattamento pensionistico e godono di regola di indennità di anzianità in base alle norme previste dall'articolo 2122 del codice civile).

Sarebbe altresì violato l'art. 36, applicabile secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato al rapporto di pubblico impiego, che non "consente di collegare allo status pubblico del datore di lavoro particolari restrizioni ai diritti generalmente riconosciuti ai lavoratori in relazione alla quantità e qualità del loro lavoro".

Nel secondo caso (e cioè qualora si debba negare all'indennità di buonuscita ogni analogia con l'indennità di anzianità) una ben più grave disparità di trattamento si avrebbe in relazione al profilo economico del rapporto di lavoro con lo Stato.

Questo rapporto, infatti, sarebbe privo di quelle indennità di anzianità che ormai, insieme con il trattamento di pensione, costituiscono una forma di retribuzione differita, con carattere di generalità per tutti i lavoratori (compresi quelli dipendenti da enti pubblici).

Il trattamento de quo sarebbe iniquo in riferimento all'art. 3 della Costituzione, e ciò rileverebbe in particolare a causa dell'esclusione dei figli dell'impiegato "perfino dal beneficio di conseguire le quote versate, nel corso del servizio, dal lavoratore".

Il Consiglio di Stato, quindi, sottoponeva a questa Corte, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma secondo, della legge 27 novembre 1956, n. 1407 "limitatamente alla parte in cui esclude la spettanza dell'indennità di buonuscita alle figlie coniugate nonché ai figli maggiorenni del pubblico dipendente deceduto prima del collocamento a riposo".

7. - Davanti a questa Corte si costituivano soltanto i Napoli, a mezzo degli avvocati Franco Salerno, Giuliana Fuà e Ferdinando Di Stefano, i quali, con le deduzioni e con la memoria, chiedevano che fosse dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma denunciata.

A loro avviso l'indennità di buonuscita dei dipendenti statali avrebbe funzione non esclusivamente ma prevalentemente retributiva: nel suo complesso infatti é assimilabile all'indennità di anzianità di cui all'art. 2120 del codice civile e quindi verrebbe ad avere anche funzione previdenziale.

Tali caratteristiche sarebbero date dalla commisurazione della indennità di buonuscita all'ultima retribuzione percepita dall'impiegato statale e alla durata del rapporto di lavoro; e dalla limitata correlazione tra i contributi di modesto importo versati dal dipendente durante il corso del rapporto di impiego e l'entità assai più rilevante dell'indennità dovutagli.

Ad ogni modo, si acceda alla tesi del carattere retributivo o a quella del carattere previdenziale, é certo - dicevano i Napoli - che l'indennità di buonuscita é l'unica indennità dovuta all'atto della cessazione del rapporto.

Da ciò solo discenderebbe una inammissibile, macroscopica disparità tra il trattamento degli impiegati statali e quello di cui godono gli impiegati privati o dipendenti da altri enti pubblici, in relazione all'art. 36 della Costituzione: a carico dei primi, infatti, si hanno varie esclusioni che non ricorrono per gli altri dipendenti.

Nella specie la disparità di trattamento sarebbe duplice e risulterebbe dalla semplice messa a raffronto dell'art. 2122 del codice civile e delle norme del t.u. del 1928 e della legge del 1956 che rispettivamente prevedono da un lato, il diritto all'indennità in caso di morte, per i figli ed invece il diritto all'indennità di buonuscita soltanto per i figli minori e per quelli che abbiano raggiunto la maggiore età e siano inabili a proficuo lavoro; e dall'altro (giusta il disposto del terzo comma dell'art. 2122), l'attribuzione dell'indennità in caso di morte secondo le norme della successione legittima e quindi senza alcuna limitazione, ed invece la non applicabilità di tali norme per l'indennità di buonuscita e per gli eredi legittimi dell'impiegato pubblico.

E tale disparità di trattamento sarebbe inammissibile perché in contrasto con la Costituzione (artt. 3, 4 e 36).

8. - Grazia Mattone, sorella di Vincenzo Mattone, impiegato presso l'amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni, non essendo riuscita ad ottenere dall'ENPAS la liquidazione dell'indennità di buonuscita spettante al fratello deceduto in attività di servizio, ricorreva davanti al Consiglio di Stato, deducendo, tra l'altro, l'illegittimità costituzionale dell'art. 48 (recte 52) del t.u. del 1928, modificato con l'art. 5 della legge n. 1407 del 1956, e degli artt. 12 e 14 della legge 25 novembre 1957, n. 1139, con cui é negato il diritto all'indennità di buonuscita alle sorelle (e ai fratelli) dell'impiegato deceduto prima del collocamento a riposo, inabili permanentemente a qualsiasi proficuo lavoro, conviventi a carico dell'impiegato stesso.

Il Consiglio di Stato, con ordinanza del 4 maggio 1971, sottoponeva la norma dell'art. 5 della legge n. 1407 del 1956 al controllo di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione.

La questione sarebbe rilevante perché la norma denunciata conterrebbe l'esclusione delle sorelle e dei fratelli dell'impiegato dalla categoria dei superstiti aventi diritto all'indennità di buonuscita.

Considerato poi che la ricorrente aveva fatto valere la propria pretesa iure proprio dopo avere conseguito, ai sensi della legge 15 febbraio 1958, n. 46, il diritto a pensione, in quanto nubile maggiorenne, nullatenente, inabile a proficuo lavoro e già convivente a carico dell'impiegato, la questione, secondo il Consiglio di Stato, non sarebbe manifestamente infondata, perché non sarebbe razionalmente giustificato il fatto che la legge del 1958 estende la spettanza del diritto alla pensione di riversibilità ai fratelli maggiori che si trovino nelle dette condizioni e che a costoro non spetti l'indennità di buonuscita, la quale é riconosciuta dalla legge del 1956 a superstiti trovatisi in eguale relazione assistenziale con defunto e in eguale stato di bisogno.

L'art. 5 della legge n. 1407 del 1956, in quanto limitativo della categoria degli aventi diritto iure proprio, sarebbe in contrasto con l'art. 3 e con l'art. 38 della Costituzione.

Un ulteriore contrasto ricorrerebbe. con l'art. 36 della Costituzione, per ciò che dai principi ivi consacrati discende il diritto all'indennità di buonuscita, quale indennità di anzianità.

E si ha che la pubblica Amministrazione, se non la corrisponde, consegue un ingiustificato arricchimento, a danno di una categoria di superstiti a cui viene riconosciuto il diritto a pensione di riversibilità.

Il Consiglio di Stato concludeva sottoponendo al controllo di questa Corte la norma de qua, in quanto avente carattere limitativo di diritti.

9. - Davanti a questa Corte si costituivano Grazia Mattone, a mezzo dell'avv. Carlo Fornario, e l'ENPAS, difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

La difesa della Mattone, con le deduzioni e con le note aggiuntive, insisteva perché la Corte dichiarasse fondata la sollevata questione di legittimità costituzionale, richiamandosi alle ragioni svolte dal Consiglio di Stato nell'ordinanza di rimessione.

Ammetteva che l'art. 52 del t.u. 26 febbraio 1928, n. 619, che, nel caso di morte del dipendente statale, riconosceva il diritto all'indennità di buonuscita solo alla vedova non separata legalmente, era stato modificato dall'art. 5 della legge 27 novembre 1956, n. 1407, nel senso che la detta indennità dovesse essere corrisposta al coniuge superstite avente diritto a pensione indiretta e, in mancanza, alla prole minore ed ai figli maggiorenni inabili a proficuo lavoro. Ma rilevava che, pur in presenza di codesta normativa, l'esclusione dal diritto alla indennità di buonuscita di una categoria di soggetti - sorelle e fratelli del dipendente inabili a proficuo lavoro e conviventi a carico di esso - non poteva sottrarsi alla censura di illegittimità costituzionale. In realtà la mancata estensione in favore di questi soggetti, anche del diritto alla indennità di buonuscita é una evidente lacuna; infatti, secondo il complessivo sistema risultante dalla indicata normativa, condizione per ottenere l'indennità di buonuscita deve considerarsi il diritto alla pensione indiretta.

D'altra parte non vi é alcuna ragione logico- giuridica che possa giustificare razionalmente l'esclusione dei fratelli e delle sorelle, quando ad essi é riconosciuto il diritto alla pensione indiretta.

Infine, la riprova che l'esclusione dei fratelli e delle sorelle dal diritto all'indennità di cui si tratta é dovuta ad una evidente lacuna legislativa può essere facilmente colta ove si consideri l'art. 18 della legge 25 novembre 1957, n. 1139; questa norma, infatti, modificando il sistema di conferimento degli assegni vitalizi, include tra gli aventi diritto anche i fratelli e le sorelle inabili, ed é così dimostrato un preciso intento del legislatore di porre sullo stesso piano - concorrendo le medesime condizioni obiettive - tali soggetti e tutti gli altri parenti.

Sotto il profilo, poi, della natura dell'indennità di buonuscita, la difesa della Mattone poneva in evidenza il carattere retributivo di essa e quindi la illegittimità in relazione agli artt 36 e 38 della Costituzione, della norma denunciata, in quanto limita i diritti della famiglia del lavoratore - nella specie, della sorella inabile convivente a carico - alla vita libera e dignitosa, ed esclude l'attuazione di un sistema di assistenza e previdenza nei confronti di soggetti considerati dal legislatore meritevoli di tutela.

L'assunto difensivo prospettato troverebbe conferma nella giurisprudenza di questa Corte, che ha considerato l'indennità dovuta per la cessazione del rapporto di impiego come parte integrante del complessivo trattamento retributivo ed illegittima la discriminazione tra orfane e orfani maggiorenni riguardo al trattamento pensionistico di cui alla legge 26 luglio 1965, n. 965, ritenendo che l'indennità di anzianità attesa la sua funzione anche previdenziale, debba essere devoluta in modo che le persone che fanno parte del nucleo familiare del lavoratore, possano con la riscossione di detta indennità far fronte ai disagi derivanti dalla perdita del congiunto.

L'ENPAS, con le deduzioni e con la memoria, concludeva per l'infondatezza della sollevata questione.

Osservava preliminarmente che la norma denunziata indica in modo tassativo i soggetti aventi diritto all'indennità di buonuscita e che, se tra questi dovessero essere inclusi componenti della famiglia originaria, ad esso Ente mancherebbero i fondi necessari per far fronte alla maggiore spesa.

Riteneva che, intervenuta la legge del 1958 che ha esteso il diritto alla pensione ai fratelli e alle sorelle del defunto, il legislatore, di fronte all'alternativa di aumentare le contribuzioni ed estendere così a quei soggetti il diritto all'indennità di buonuscita ovvero di escluderli da codesta spettanza, aveva scelto la seconda soluzione, con un atto posto in essere nell'esercizio di un potere discrezionale e quindi non sindacabile in sede di controllo di legittimità costituzionale.

Ciò, secondo l'ENPAS, troverebbe riscontro nella circostanza che la pensione viene erogata direttamente dallo Stato e questo, attraverso l'imposizione tributaria, é in grado di reperire i mezzi necessari per poter affrontare le nuove spese, e l'indennità di buonuscita, invece, pur essendo retribuzione differita, é corrisposta da un ente diverso dallo Stato che può giovarsi dei contributi versati coattivamente da dati soggetti e perciò l'individuazione degli aventi diritto all'indennità di buonuscita viene effettuata anche nella considerazione del relativo onere.

Deduceva, infine, l'ENPAS che non era prospettabile alcun arricchimento senza causa dello Stato per il fatto che in determinate situazioni l'indennità di buonuscita non viene erogata ad alcuno. Non é infatti ingiustificato che un diritto (come quello in oggetto) possa essere concretamente esercitato solo nella ricorrenza delle condizioni di legge. D'altra parte, ciò é dato rilevare anche in materia di pensioni. E comunque di siffatte evenienze si tiene il dovuto conto in sede di previsione delle spese per l'erogazione dell'indennità di buonuscita.

10. - Le cause di cui alle tre ordinanze sopraindicate del Consiglio di Stato venivano discusse all'udienza del 6 dicembre 1972.

La Corte costituzionale, con ordinanza n. 222 del 1972, riuniti i tre procedimenti e rilevato che le questioni erano identiche o strettamente connesse a quella oggetto dell'altro procedimento in cui era intervenuta la ricordata ordinanza numero 181 dello stesso anno, disponeva la restituzione dei fascicoli alla cancelleria.

11. - Fissata nuovamente l'udienza per la discussione delle quattro cause, i Napoli e l'ENPAS hanno depositato memorie illustrative.

All'udienza (del 21 marzo 1973) hanno svolto le rispettive difese o insistito nelle richieste gli avvocati Giuliana Fuà e Franco Salerno per i Napoli, l'avv. Vitaliano Lorenzoni per la Lucin, l'avv. Carlo Fornario per la Mattone e l'avvocato dello Stato Elio Vitucci per l'ENPAS e il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni.

Considerato in diritto

1. - Con le ordinanze indicate in epigrafe il Consiglio di Stato ed il tribunale di Padova sottopongono all'esame della Corte varie questioni relative a norme del r.d. 26 febbraio 1928, n. 619 (con cui é stato approvato il nuovo testo unico delle disposizioni legislative sull'Opera di previdenza dei personali civile e militare dello Stato e dei loro superstiti, amministrata dalla direzione generale della Cassa depositi e prestiti e degli istituti di previdenza) e precisamente avanzano dubbi circa la legittimità costituzionale dell'art. 48 di detto regio decreto per contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione, e del successivo art. 52 (nel testo risultante dall'art. 5, della legge 27 novembre 1956, n. 1407) per violazione delle dette disposizioni, nonché dell'art. 38 della Costituzione.

Stante l'identità o la stretta connessione delle questioni, i procedimenti sono riuniti e vengono decisi con una stessa sentenza.

2. - Le norme che costituiscono oggetto delle presenti denunce di illegittimità costituzionale si riferiscono all'indennità di buonuscita che spetta al personale civile e militare dello Stato, iscritto da almeno un biennio (all'Opera di previdenza, e ora) al fondo di previdenza gestito dall'ENPAS, il quale abbia diritto alla pensione; ed in caso di morte dell'iscritto, al coniuge avente diritto a pensione indiretta, e in mancanza o se questi non ne abbia diritto, alla prole minore e alle figlie nubili maggiorenni nonché ai figli maggiorenni inabili a proficuo lavoro.

L'indennità di buonuscita, come già detto da questa Corte in altra occasione (sentenza n. 19 del 1970), fa parte del trattamento di quiescenza: si pone cioè accanto alla pensione e ad altre indennità o prestazioni, per fini previdenziali o assistenziali, nell'ambito del trattamento previsto in favore del personale collocato a riposo o comunque cessato dal servizio, e di dati superstiti.

Ha in comune con la pensione un'importante caratteristica: di diventare oggetto di un diritto attuale e concreto solo dopo che la prestazione del servizio da parte del dipendente si sia protratta per un certo periodo, abbia cioè una certa durata.

Per tale sua caratteristica, essa differisce da ogni altra indennità, ed in particolare da quella di anzianità (e ciò a prescindere dalle conseguenze connesse alle diversità riscontrabili tra il rapporto di pubblico impiego e quello di lavoro subordinato privato), la quale invece sia collegata alla semplice prestazione del lavoro sia pure dopo un termine minimo variamente considerato sufficiente ad evidenziarne la continuità. Il che comporta che, secondo la normativa vigente, mentre per l'indennità di anzianità si può correttamente parlare di parte differita della retribuzione, intendendosi con questa espressione dire che il diritto relativo si matura mano a mano che la prestazione di lavoro abbia luogo e che dell'indennità, stante il concorrente carattere previdenziale di essa, é solo differita la corresponsione, a proposito dell'indennità di buonuscita, essendo necessaria una certa durata della prestazione di servizio, la cui specifica determinazione, se effettuata dal legislatore, rientra nei suoi poteri discrezionali, deve riconoscersi che essa, per quanto faccia parte del complessivo trattamento economico spettante al personale dipendente dallo Stato, a rigore non si presti ad essere intesa come parte differita della retribuzione o retribuzione differita, ma vada piuttosto qualificata come prestazione dell'Ente collegata alla prestazione di lavoro (in quanto questa si sia) protratta per tutto il tempo richiesto dalla legge.

Di conseguenza, l'indennità di buonuscita non é retribuzione in senso stretto, ed invece assolve precipuamente una funzione previdenziale ed assistenziale nei confronti dell'iscritto al fondo di previdenza gestito dall'ENPAS o di dati superstiti dello stesso.

Tale indennità infine, trova una più compiuta e qualificante caratterizzazione se viene valutata nell'ambito del sistema normativamente predisposto per la sua erogazione. Giova a tal riguardo tener presente che, allo stato, l'indennità di buonuscita é dovuta ai sopraddetti aventi diritto dall'ENPAS, che gestisce, con strutture e criteri mutualistico - assicurativi, il fondo di previdenza e che a fronte dell'erogazione al singolo avente diritto non sta la massa dei contributi versati dallo stesso o a suo favore ed integranti un suo conto personale (di modo che la corresponsione dell'indennità possa derivare dalla liquidazione di quel conto), sibbene un fondo formato dai contributi di tutti gli iscritti ma anche e soprattutto da quelli del datore di lavoro, nonché da altri proventi. E poi non va trascurato che con il fondo di previdenza si provvede da parte dell'ENPAS a varie prestazioni assistenziali, previdenziali e creditizie, aventi, complessivamente considerate, un notevole rilievo sul terreno della solidarietà sociale; e che per ciò ha una sua razionale giustificazione che il singolo iscritto sia tenuto a versare i contributi e che lo stesso, per avventura, possa non essere beneficiario di date prestazioni (e tra le altre, dell'indennità di buonuscita).

3. - Esaminate le questioni alla luce delle considerazioni che precedono, non può, anzitutto, dirsi fondato il dubbio che l'art. 48 del citato t.u. urti contro il disposto degli artt. 36 e 3 della Costituzione.

Posto che l'indennità di buonuscita é dovuta solo per quelle prestazioni di servizio, la cui durata superi il periodo minimo utile a pensione, manca il valido presupposto perché l'art. 36 possa essere invocato come norma di raffronto. É il caso di precisare, a tal riguardo, che nella tutela costituzionale apprestata con l'art. 36, non si é voluto e non si può comprendere il diritto ad ogni e qualsiasi controprestazione a fronte di ogni e qualsiasi prestazione di lavoro, sibbene solo quelle controprestazioni che sinallagmaticamente collegate alle prestazioni servano nell'economia del rapporto, proporzionate alla quantità e qualità del lavoro prestato, ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa. L'art. 36 non copre, pertanto, tutto il terreno del trattamento economico del dipendente; e quindi al legislatore ordinario é rilasciato, nella pratica configurazione dei vari rapporti di lavoro o di impiego, di prevedere al di fuori di quella normativa controprestazioni (e nella specie, indennità), che, pur essendo lato sensu retributive, in effetti e a rigore non presentino tale carattere.

É del pari non fondata la questione in esame, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

L'assenta ingiustificata disparità di trattamento, infatti, non ricorre.

Anzitutto, non può dirsi che sia irragionevolmente posta la differenza di trattamento tra gli impiegati statali di ruolo, da una parte, ed i dipendenti da datori privati o da enti pubblici non economici dall'altra e gli impiegati dello Stato non di ruolo, e ciò perché, a parte il fatto che la categoria degli impiegati dello Stato non di ruolo fruenti di un trattamento differenziato, si é notevolmente ristretta a seguito della legge 6 dicembre 1966, n. 1077, e in sostanza (anche in forza della sentenza n. 40 del 1973) é precipuamente costituita dai dipendenti (compresi gli insegnanti medi) assunti per un periodo inferiore ad un anno, sono innegabili non solo le differenze tra l'indennità di buonuscita e l'indennità di anzianità sopra rilevate, ma anche e soprattutto quelle riferibili ai presupposti e alle strutture organizzatorie proprie dell'impiego statale, di ruolo e non di ruolo, e del lavoro subordinato dai datori privati o da enti pubblici non economici. A quest'ultimo riguardo si deve porre mente al fatto che, se é vero che i rapporti ora ricordati presentano punti di identità o di contatto, per cui é ragionevole ritenere che a tutti, ed entro questi limiti ed ai fini sopraddetti, sia applicabile la tutela costituzionale ex art. 36, le differenze per altro riscontrabili non possono non giustificare razionalmente che per dati rapporti sia dovuta un'indennità come l'indennità di buonuscita ancorata alla prestazione del servizio per un dato - sia pure lungo - periodo e che per altri rapporti siano previste diverse o concorrenti forme di trattamento economico e specificamente diverse o concorrenti prestazioni previdenziali.

Né sussiste la lamentata disparità di trattamento nell'ambito della categoria degli impiegati di ruolo, tra quelli cessati dal servizio dopo aver maturato il diritto a pensione e quelli cessati prima, perché per i due gruppi é evidente la differenza di situazioni nonostante che le stesse (come dice il Consiglio di Stato) siano omogenee, e perché rientra nei poteri discrezionali del legislatore distinguere le due situazioni con riferimento alla durata del servizio. Che per i secondi si abbia un trattamento di quiescenza che dal punto di vista economico, possa essere inferiore a quello previsto per i primi, é questa una circostanza non irrazionale, atteso che nei due casi il servizio presenta una differente durata e sottostà quindi ad una diversa disciplina.

Dovrebbe ad ogni modo aver rilievo - secondo il Consiglio di Stato - che per i secondi l'assegno vitalizio sarebbe dovuto solo nei casi di cessazione dal servizio per infermità o per età avanzata. Ma ciò, anche se dovesse mettere in evidenza una ingiusta sperequazione di trattamento con riferimento ai rapporti tra pensione e assegno vitalizio, non può refluire sulla valutazione della questione de qua, dato che la denuncia attiene alle norme relative alla spettanza dell'indennità di buonuscita.

4 - Venendo a dire delle questioni sollevate a proposito dell'art. 52 del citato t.u. del 1928 come risultante dall'art. 5 della legge n. 1407 del 1956, deve escludersi l'assenta illegittimità costituzionale della norma, in riferimento all'art. 36 della Costituzione, nella parte in cui prevede che l'indennità di buonuscita possa non essere corrisposta agli aventi causa del titolare che non versino in stato di bisogno e specificamente al coniuge non avente diritto alla pensione di riversibilità e alle figlie maggiorenni coniugate. La non fondatezza di detta questione infatti emerge da quanto sopra detto e precisamente dalla negazione all'indennità di buonuscita della natura di retribuzione in senso stretto. Va solo aggiunto che il riferimento sul punto in esame allo stato di bisogno sembra ultroneo, in considerazione del fatto che l'art. 36 non é violato non perché l'indennità di buonuscita é dovuta solo a coloro che versano in stato di bisogno, sibbene perché detta indennità non soggiace, siccome si é detto, alla disciplina di quella disposizione costituzionale.

In secondo luogo, e sempre in riferimento all'art. 36, le considerazioni e conclusioni che precedono non possono non valere egualmente per la denuncia di illegittimità costituzionale della norma sopra richiamata per quanto attiene alla disciplina prevista per le figlie maggiorenni coniugate e per i figli maggiorenni non inabili a proficuo lavoro.

5 - Deve del pari escludersi che la norma denunciata, in parte qua, vada contro l'art. 3 della Costituzione.

Il riferimento alla sentenza n. 135 del 1971 di questa Corte, contenuto nell'ordinanza emessa dal tribunale di Padova, non é pertinente e quindi l'argomento che se ne vuole trarre, non é valido. Con la richiamata decisione, infatti, questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 15 febbraio 1958, n. 46, nella parte in cui disponeva che le orfane avevano diritto alla pensione solo se nubili, avendo constatato che il trattamento differenziato previsto per le figlie dell'impiegato o del pensionato e di sfavore per quelle non nubili, riposava esclusivamente sulla diversità di sesso dato che solo per le figlie poste in quell'occasione a raffronto con i figli, dovevano ricorrere particolari condizioni e requisiti (condizione di nubile o di vedova, e per le vedove una qualificata convivenza). La norma oggetto della attuale denuncia, invece, prevede che hanno diritto all'indennità di buonuscita, le figlie minorenni o, se maggiorenni, nubili, e lo nega alle maggiorenni non nubili, ma non ricollega la spettanza del diritto (alla minore età o) allo stato di nubilato della superstite. Dall'esame dell'intera norma é consentito dedurre che la relativa disciplina si riporti, come a suo fondamento, allo stato di bisogno, ancorché ragionevolmente presunto, dei superstiti: ed infatti, ove si tengano presenti le situazioni del coniuge (il quale deve avere diritto alla pensione indiretta) e dei figli maggiorenni (i quali devono essere inabili a proficuo lavoro), é lo stato di bisogno, reale o probabile, dei superstiti a giustificare la spettanza a loro favore del diritto all'indennità. E perciò é da escludersi che, nell'ipotesi considerata, ci sia una disparità di trattamento basata unicamente sullo stato di nubile.

Va ancora rilevato che la norma denunciata, a proposito del trattamento previsto per i figli maggiorenni non inabili a proficuo lavoro e per le figlie maggiorenni coniugate, non é in contrasto con il principio di eguaglianza.

La Corte, a tal riguardo, ritiene di non poter condividere i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal Consiglio di Stato con l'ordinanza sul ricorso di Alfonso Napoli ed altri contro l'ENPAS ed il Ministero di grazia e giustizia.

Anzitutto, non é dell'avviso che sia quanto meno incerta la natura dell'indennità di buonuscita reputando per le ragioni sopra indicate che ai fini della valutazione della dedotta illegittimità costituzionale non possano essere utilmente prospettate, come fa il giudice a quo, le due ipotesi che tale indennità acquisti il contenuto e lo scopo proprio dell'indennità di anzianità ovvero che tra le due indennità non ci sia alcuna analogia, e che si debba procedere dalla premessa che l'indennità di buonuscita, anche se presenta dei punti di contatto con quella di anzianità e con altre indennità dovute alla fine del rapporto di lavoro in generale, ha proprie caratteristiche che valgono a diversificarla da ogni altra.

Stante ciò, ritiene, di conseguenza, la Corte che non ricorre la disparità di trattamento che secondo il giudice a quo invece si avrebbe nell'ipotesi in cui all'indennità di buonuscita si dovesse disconoscere ogni analogia con l'indennità di anzianità, e che sarebbe determinata dal fatto che "il rapporto di lavorò con lo Stato" messo a raffronto con tutti gli altri rapporti di lavoro a tempo indeterminato, compreso quello proprio dei lavoratori dipendenti da enti pubblici, appare privo dell'indennità di anzianità, che invece, con carattere di generalità, si ha negli altri rapporti.

Per giudicare circa la violazione o no del principio di eguaglianza, le singole situazioni messe a raffronto vanno considerate non analiticamente o atomisticamente ma ciascuna nel suo insieme, e per ciò nulla può dedursi, a proposito di quelle in esame, dalla circostanza che solo in una mancherebbe l'indennità di anzianità in quanto tale. Deve invece dirsi che rientri nei poteri discrezionali del legislatore quello di dettare, per rapporti di lavoro non identici, discipline complessivamente diverse, e che non sia ragione di illegittimità costituzionale la mancata previsione del diritto all'indennità di anzianità in quanto tale in una normativa che per il caso di cessazione del rapporto preveda (non ricorrendo le condizioni per l'acquisto del diritto a pensione e di quello all'indennità di buonuscita) la spettanza al lavoratore o ai superstiti dell'indennità una tantum e, nelle più comuni ipotesi di cessazione del rapporto per età avanzata o per infermità, anche dell'assegno vitalizio. A quest'ultimo riguardo, oltre tutto, non va trascurato che l'indennità una tantum in quanto spetta al dipendente statale che abbia prestato un anno di servizio effettivo e va ragguagliata ad una mensilità per ogni anno di servizio, fa fronte in maniera decisa a quelle esigenze previdenziali alle quali é riportata sul piano funzionale, anche se in modo concorrente, l'indennità di anzianità.

Potrebbe avere rilievo, come fa da ultimo osservare il Consiglio di Stato, e come ragione di iniquità del denunciato trattamento economico, la circostanza che, non ricorrendo date condizioni, siano esclusi "i figli dell'impiegato perfino dal beneficio di conseguire le quote versate, nel corso del servizio, dal lavoratore"; ma ciò varrebbe, ad avviso della Corte, ove si accedesse alla tesi della stretta correlazione tra contribuzione e spettanza dell'indennità di buonuscita. Sennonché tale correlazione, nel sistema attuale (del quale, per altro, sono sollecitate modifiche migliorative e comunque rivolte ad eliminare o contenere eventuali situazioni di svantaggio) non sussiste, e sono invece ragionevolmente operanti le notate esigenze mutualistico- assicurative.

6. - La norma in esame (art. 5 della legge n. 1407 del 1956) é da ultimo denunciata per contrasto con gli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione, nella parte in cui esclude dal diritto all'indennità di buonuscita le sorelle ed i fratelli inabili permanentemente a proficuo lavoro conviventi a carico dell'impiegato.

Si assume al riguardo che da tale norma, messa in relazione con l'ultimo comma dell'art. 12 della legge 15 febbraio 1958, n. 46 (con cui é riconosciuta la spettanza della pensione ordinaria a carico dello Stato, in mancanza di altri aventi diritto, alle sorelle ed ai fratelli trovatisi nelle dette condizioni), risulterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra tale categoria di superstiti e altre categorie, "trovatisi in uguale relazione assistenziale col defunto e in uguale stato di bisogno" e però considerate favorevolmente dalla stessa norma.

La doglianza, così prospettata, appare fondata. In effetti, le situazioni messe a raffronto sono omogenee e presentano sostanzialmente le stesse note caratterizzanti e meritavano, non ricorrendo in contrario valide ragioni, lo stesso trattamento giuridico. L'art. 5 della legge n. 1407 del 1956, per ciò, sul punto in esame, si é trovato in contrasto con l'art. 3 della Costituzione; e lo é più sicuramente ora dopo che con il citato art. 12, ultimo comma, della legge n. 46 del 1958, come si é sopra ricordato, é stato esteso il trattamento pensionistico alle sorelle ed ai fratelli nella ricorrenza delle condizioni ivi previste.

In conseguenza di ciò, considerato assorbito l'esame dei profili prospettati in riferimento agli artt. 36 e 38 della Costituzione, deve dichiararsi l'illegittimità costituzionale del detto art. 5 nella parte in cui nega l'indennità di buonuscita alle sorelle ed ai fratelli inabili permanentemente a qualsiasi proficuo lavoro e conviventi a carico dell'impiegato.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 27 novembre 1956, n. 1407 (modifiche alle disposizioni del testo unico sull'Opera di previdenza per i personali civile e militare dello Stato, approvato con r.d. 26 febbraio 1928, n. 619), che ha sostituito l'art. 52 di detto testo unico, nella parte in cui esclude che l'indennità di buonuscita spetti alle sorelle ed ai fratelli inabili permanentemente a qualsiasi proficuo lavoro conviventi a carico dell'impiegato;

2) dichiara non fondate:

a) la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 48, comma primo, del r.d. 26 febbraio 1928, n. 619 (approvazione del nuovo testo unico delle disposizioni legislative sull'Opera di previdenza dei personali civile e militare dello Stato e dei loro superstiti, amministrata dalla direzione generale della Cassa depositi e prestiti e degli istituti di previdenza) nella parte in cui subordina il diritto all'indennità di buonuscita al conseguimento del diritto alla normale pensione vitalizia, questione sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l'ordinanza indicata in epigrafe;

b) le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 52 del detto r.d. 26 febbraio 1928, n. 619, come sostituito dal detto art. 5 della legge 27 novembre 1956, n. 1407, nella parte in cui é esclusa la spettanza dell'indennità di buonuscita al coniuge del pubblico dipendente deceduto in servizio, che non sia inabile a proficuo lavoro e non versi in stato di bisogno, alle figlie maggiorenni che non versino in questo stato e non siano nubili ovvero siano coniugate ed ai figli maggiorenni non inabili a proficuo lavoro, questioni sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dal Consiglio di Stato e dal tribunale di Padova con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 giugno 1973.

Francesco  PAOLO BONIFACIO – Giuseppe  VERZÌ – Giovanni  BATTISTA BENEDETTI – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo  ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio  GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino  SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 19 giugno 1973.