Sentenza n.48 del 1973
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SENTENZA N. 48

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Dott. Giovanni  BATTISTA BENEDETTI

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola  REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto  AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo  VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 24 giugno 1970 dal pretore di Barcellona Pozzo di Gotto nel procedimento penale a carico di Barone Pietro, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49 del 24 febbraio 1971.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 1973 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

A seguito di una denunzia per falsa testimonianza, sporta da Rosalia Alpedone contro Pietro Barone, e di altra, per calunnia, sporta dal Barone contro la Alpedone, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Messina, ai sensi dell'art. 18 del codice di procedura penale, riservando ogni determinazione in ordine al secondo reato, rimetteva il primo alla cognizione del pretore di Barcellona Pozzo di Gotto. Il quale, con ordinanza del 24 giugno 1970, emessa in sede dibattimentale, su istanza della difesa, riteneva rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale della norma sopra citata, in riferimento all'art. 25 della Costituzione.

Premesso che, nella fase iniziale dell'istruzione, la riunione dei procedimenti connessi, secondo la dottrina e la giurisprudenza, sarebbe obbligatoria, il pretore afferma che il potere di differire un procedimento fino all'esito di altro connesso potrebbe tradursi in una facoltà di deroga alla competenza precostituita dagli artt. 45 e 46 cod. proc. pen., e consentirebbe di rompere il relativo vincolo di connessione, in contrasto con l'art. 25, primo comma, Cost., analogamente a quanto ritenuto dalla Corte costituzionale in altre ipotesi di rimessione del processo penale (artt. 30, secondo e terzo comma, 31, secondo comma, cod. proc. pen.; art. 10 r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404).

Nel giudizio innanzi a questa Corte non si é costituita la parte privata.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto con atto depositato il 1 ottobre 1970, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Per contestare l'assunto del pretore sull'obbligatorietà della riunione dei procedimenti connessi, l'Avvocatura si richiama all'attuale orientamento giurisprudenziale. Sostiene, poi, che, a differenza di tutti i casi in cui sono state dichiarate illegittime norme del codice di procedura penale o di altre leggi per violazione dell'art. 25 della Costituzione, in quello in esame la vis actractiva della competenza per connessione non opera ex lege, bensì solo in forza di un provvedimento discrezionale. Dal che deriverebbe che gli effetti della connessione sulla competenza non siano da considerare come una precostituzione in astratto del giudice; ciò risulterebbe anche dall'art. 46, secondo comma, cod. proc. pen., che, anche dopo la riunione dei procedimenti, ne consente la separazione. E questa, nei procedimenti previsti dalla norma denunziata, non farebbe che riportare il procedimento nel suo alveo naturale.

Considerato in diritto

1. - É stata sottoposta alla Corte la seguente questione: se l'art. 18 del codice di procedura penale, consentendo, al giudice investito di un procedimento la cui definizione dipenda da quella di altro procedimento, di non disporre la riunione dei medesimi, nel caso in cui questa, pur essendo possibile, non si ritenga opportuna (con il conseguente rinvio del primo procedimento sino a che non sia pronunciata la sentenza istruttoria di proscioglimento non più soggetta a impugnazione o, nel giudizio, sentenza irrevocabile o sia diventato esecutivo il decreto penale di condanna, alla stregua dell'art. 3, secondo comma, cod. proc. pen.), determini una deroga alle regole sulla connessione dettate dagli artt. 45 e 46 cod. proc. pen. e violi l'art. 25, primo comma, della Costituzione, per il quale "nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge".

2. - La questione non é fondata.

Anzitutto va rilevato che é fuori di luogo il richiamo al problema relativo alla rimessione (discrezionale) dei procedimenti ad un giudice diverso da quello originariamente competente (artt. 30, secondo e terzo comma, 31, secondo comma, cod. proc. pen.; 10 r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404), la quale é stata dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte (sentenza n. 88 del 1962), giacché qui non si tratta, come nelle predette ipotesi di cui agli articoli testé citati, della facoltà discrezionale di rimettere la cognizione del reato ad un giudice diverso da quello competente secondo le regole generali o da quello che risulti competente in base ai principi della connessione, sibbene della facoltà di mantenere ferma, per i due procedimenti che si trovano in relazione di dipendenza, la trattazione separata innanzi ai rispettivi giudici: il che non importa alcuna deroga al precetto sulla precostituzione per legge del giudice naturale.

La riunione dei procedimenti é dalla legge prevista per mere ragioni di economia processuale; e anche quando ricorrano casi di connessione, con possibile spostamento di competenza, detta riunione risponde ad un criterio che non ha carattere assoluto, tanto che l'art. 50 cod. proc. pen. stabilisce che la inosservanza delle regole relative alla connessione non produce nullità, salvo alcune ipotesi espressamente ivi previste; e, pur se siasi fatto luogo allo spostamento di competenza per connessione, si può procedere alla separazione dei procedimenti, non solo in sede di dibattimento (art. 414 cod. proc. pen.), ma anche in sede istruttoria mediante il cosiddetto stralcio ex art. 46, secondo comma. Questo prevede, appunto, la separazione di procedimenti connessi se nell'istruzione "si manifesta per alcuni imputati o per qualche reato la necessità di indagini per le quali non si possa procedere prontamente alla chiusura dell'istruzione o sussistono particolari motivi perché questa sia ritardata" (a proposito di che questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 25, primo comma, Cost., con sentenza n. 139 del 1971).

A prescindere dalla problematica relativa alla precostituzione del giudice e dalla risposta che, quanto alla connessione, ha dato la Corte con la mentovata sentenza n. 139 del 1971, per cui "la nozione di giudice naturale non si cristallizza nella determinazione legislativa di una competenza generale, ma si forma anche di tutte quelle disposizioni le quali derogano a tale competenza sulla base di criteri che razionalmente valutano i disparati interessi posti in gioco dal processo" e per cui, altresì, lo stralcio di un procedimento da altro obiettivamente connesso (art. 45 cod. proc. pen.) "si innesta nel sistema della competenza per connessione, portandovi non eccezione, ma contenuto"; a prescindere da tutto ciò, quel che rileva si é che, nella questione concernente l'art. 18, non dell'istituto della connessione si tratta, bensì del diverso istituto della pregiudizialità, che resiste o può resistere, per imprescindibili ragioni logiche, alla riunione dei procedimenti: orbene, nella fattispecie, l'azione penale esercitata (per la falsa testimonianza) ha dato luogo ad un procedimento penale dalla cui definizione certamente dipende - almeno sul piano della materialità e, ovviamente, con pieno disimpegno circa l'elemento psicologico - la definizione dell'altro procedimento (per calunnia).

Del resto, il dubbio di costituzionalità in altra occasione sorto - e già disatteso dalla Corte: sentenza n. 130 del 1963 - atteneva allo spostamento della competenza per la vis actractiva (artt. 45 e 46, primo comma, cod. proc. pen.), e non come nella specie, alla permanenza del procedimento dinanzi al giudice che le norme più generali (artt. 29-44 cod. proc. pen.) rendono competente.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 25, primo comma, della Costituzione dal pretore di Barcellona Pozzo di Gotto con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 1973.

Francesco  PAOLO BONIFACIO – Giuseppe  VERZÌ – Giovanni  BATTISTA BENEDETTI – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE - Paolo  ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio  GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino  SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 30 aprile 1973.