Sentenza n.20 del 1973
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SENTENZA N. 20

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Giuseppe  CHIARELLI, Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Prof. Francesco  PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi  OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola  REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo  VOLTERRA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 9 della legge 24 dicembre 1969, n. 991 (adeguamento delle pensioni degli avvocati e dei procuratori), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 18 dicembre 1970 dal pretore di Brescia su ricorso di Avanzini Arnaldo, iscritta al n. 61 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 99 del 21 aprile 1971;

2) ordinanza emessa il 4 aprile 1972 dal pretore di Sampierdarena su ricorso di Bottini Alfredo, iscritta al n. 327 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 296 del 15 novembre 1972;

3) ordinanza emessa il 20 settembre 1972 dal pretore di Enna su ricorso di Caggegi Maria, iscritta al n. 348 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 317 del 6 dicembre 1972.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e di costituzione del Ministero dell'interno;

udito nell'udienza pubblica del 7 febbraio 1973 il Giudice relatore Angelo De Marco;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei ministri e per il Ministero dell'interno.

Ritenuto in fatto

Con l'art. 9 della legge 24 dicembre 1969, n. 991, si é disposto che é dovuto un contributo di L.2.000 sui decreti con i quali i Prefetti, i Presidenti delle Giunte provinciali o i Sindaci, ai sensi della legge 3 maggio 1967, n. 317, sulla cosiddetta depenalizzazione, infliggono sanzioni pecuniarie amministrative per talune infrazioni di norme sulla circolazione stradale e di norme di regolamenti locali.

Della legittimità costituzionale dell'imposizione di tale contributo dubitano i pretori di Brescia, di Sampierdarena e di Enna, i quali, rispettivamente, con ordinanze in data 18 dicembre 1970, 4 aprile 1972 e 20 settembre 1972, nei giudizi davanti ad essi promossi per opposizione a decreti dei Prefetti, rispettivamente di Brescia, di Genova e di Enna, con i quali erano state comminate sanzioni pecuniarie amministrative per violazione a norme sulla circolazione stradale, motivatane la rilevanza con la considerazione che, in caso di rigetto dell'opposizione, avrebbero dovuto confermare l'obbligo del pagamento di quel contributo, hanno ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9 della legge n. 991 del 1969, in riferimento, secondo i pretori di Brescia e di Sampierdarena, agli artt. 3 e 53 della Costituzione e, secondo il pretore di Enna, anche in riferimento agli artt. 23 e 38, comma quarto, oltre agli artt. 3 e 53.

In sostanza, poi, la non manifesta infondatezza in tutte e tre le ordinanze viene così motivata:

La Corte costituzionale, con le sentenze 17 aprile 1968, n. 23 e 17 aprile 1969, n. 85, ha affermato che le prestazioni a favore della Cassa di previdenza per gli avvocati hanno carattere lato senso di tributi giudiziari e che, quindi, legittimamente possono essere imposti a quanti (si avvalgano o no dell'opera di un legale) si giovano divisibilmente del servizio giudiziario.

Nella ipotesi in esame del servizio giudiziario si giovano soltanto coloro che propongono opposizione, dato che i decreti che infliggono le sanzioni amministrative hanno, alla loro volta, carattere esclusivamente amministrativo, cosicché il contributo alla Cassa può essere imposto soltanto in caso di opposizione e non anche sul decreto non opposto.

Di qui la conseguenza che l'imposizione sul decreto non opposto, per la mancanza di ogni connessione, anche indiretta, del decreto stesso con il servizio giudiziario, viola tanto gli artt. 3 e 53 della Costituzione, secondo i pretori di Brescia e di Sampierdarena, quanto anche gli artt. 23 e 38, comma quarto, secondo il pretore di Enna.

Dopo gli adempimenti di legge, i giudizi così promossi. vengono ora alla cognizione della Corte.

Nessuna delle parti private si é costituita.

Nei giudizi Promossi con le ordinanze dei Pretori di Brescia e di Sampierdarena sono, invece, intervenuti la Presidenza del Consiglio dei ministri ed il Ministero dell'interno, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, che, con gli atti d'intervento, chiede che le questioni sollevate vengano dichiarate infondate, in quanto, a parte il rilievo che, anche nella fase meramente amministrativa, non può escludersi che l'interessato si avvalga, quanto meno, della consulenza di un legale, é da rilevare che la stessa legge sulla depenalizzazione prevede una fase giudiziaria, nella quale, innegabilmente, l'interessato si giova del servizio giudiziario, cosicché, secondo la giurisprudenza della Corte citata dalle ordinanze di rinvio, l'imposizione del contestato contributo deve riconoscersi sotto ogni aspetto costituzionalmente legittima.  

Considerato in diritto

1. - I tre giudizi, come sopra promossi, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza, avendo per oggetto la contestazione della legittimità costituzionale, sia pure sotto profili in parte diversi, della stessa norma, precisamente dell'art. 9 della legge 24 dicembre 1969, n. 991, sull'adeguamento delle pensioni degli avvocati e procuratori.

2. - Con la norma impugnata viene imposto un contributo di lire 2.000 alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore degli avvocati e dei procuratori legali sulle ordinanze emesse, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 9 della legge 3 maggio 1967, n. 317 (sulla cosiddetta depenalizzazione di talune infrazioni delle norme in tema di circolazione stradale e di regolamenti locali), dalle autorità indicate nell'art. 8 della legge stessa (prefetti, presidenti di giunte provinciali, sindaci) e viene altresì disposto che la riscossione del contributo é demandata alle stesse autorità ed uffici cui é demandata, in via normale o in via coattiva, la riscossione della sanzione amministrativa.

La illegittimità costituzionale di tale norma viene prospettata sotto i seguenti profili:

a) violazione dell'art. 3, comma primo, della Costituzione, in quanto assoggetta il contravventore che non paghi tempestivamente la sanzione amministrativa ad un onere contributivo che non grava su chi la paga tempestivamente, impone contributi a favore degli avvocati e procuratori a persone che non si avvalgono delle loro prestazioni, discriminandole dalla collettività per il solo fatto di essere passibili di sanzioni meramente amministrative, pone in essere un trattamento di privilegio all'Ente previdenziale degli avvocati e procuratori;

b) violazione dell'art. 23 della Costituzione "per non essere stato legittimamente determinato il presupposto d'imposta";

c) violazione dell'art. 38, comma quarto, della Costituzione; nell'ordinanza del pretore di Enna, che ne contiene la denunzia, tale violazione non é in alcun modo motivata;

d) violazione dell'art. 53 della Costituzione, in quanto il contributo é imposto senza alcuna relazione con la capacità contributiva di chi é tenuto a corrisponderlo.

Chiariti, così, i termini delle questioni proposte, si rileva:

3. - La legittimità costituzionale di alcuni contributi alla Cassa di previdenza degli avvocati e procuratori é già venuta all'esame di questa Corte, in relazione, peraltro, non alla legge n. 991 del 1969, ma in relazione alla legge 5 luglio 1965, n. 798, e precisamente:

a) in riferimento all'art. 3, comma primo, lett. b. che impone un contributo di lire 2.000 sui decreti penali di condanna non opposti;

b) in riferimento all'art. 3, lett. b ed i, che impongono un contributo oggettivo sui decreti di svincolo della indennità di espropriazione spettante al proprietario espropriato;

c) in riferimento all'art. 4, lett. a, b e c. che impongono i contributi definiti oggettivi, rispettivamente, di lire 400 per ogni certificato penale rilasciato in bollo dagli uffici del casellario giudiziario, di lire 400 per ogni atto notorio in bollo di competenza dei cancellieri giudiziari, di lire 3.200 per ogni certificato rilasciato dalla cancelleria dei tribunali, relativo alle imprese indicate dall'art. 2195 del codice civile.

Le relative ordinanze di rinvio, partendo dal presupposto che tali contributi non trovano giustificazione in prestazioni professionali degli avvocati e procuratori dirette o indirette a favore di coloro che sono tenuti a corrisponderli, ne denunziavano la illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 23, 24, 38, 42, 53 e perfino 98 della Costituzione.

Con le sentenze nn. 23 del 1968 e 85 del 1969, la Corte ha ritenuto che tali contributi debbono ricondursi sotto il concetto, in senso lato, di tributi giudiziari, legittimamente posti a carico di coloro che, con o senza l'ausilio di un professionista legale, si giovano del servizio giudiziario, del quale gli esercenti la professione forense sono indispensabili collaboratori, dovendosi in tale collegamento ravvisarsi anche una esigenza di interesse pubblico che giustifica l'imposizione.

Partendo da questa premessa la Corte, ha, poi, conseguentemente ed agevolmente dimostrata la infondatezza delle proposte questioni, in riferimento a tutte le norme della Costituzione delle quali, come sopra si é esposto, si prospettava la violazione.

4. - Poiché nessun nuovo argomento é stato addotto che possa indurre a discostarsene, la giurisprudenza formata con le citate sentenze deve essere mantenuta ferma.

Pertanto, posto il principio che il contestato contributo va ricondotto nel concetto di tributo giudiziario in senso lato, ai fini del decidere deve accertarsi se nella ordinanza contemplata nell'art. 9 della legge 3 maggio 1967, n. 317, finché non vi sia stata opposizione, possano ravvisarsi elementi tali da far ritenere esistente un collegamento, anche indiretto, col servizio giudiziario.

Al riguardo si rileva:

Come questa Corte ha dimostrato con la sentenza n. 32 del 1970, la natura oggettivamente ed esclusivamente amministrativa di tale ordinanza non può contestarsi.

Del resto ne dà conferma la ormai costante giurisprudenza dell'Autorità giudiziaria ordinaria che, uniformandosi ai principi affermati con la sopra citata sentenza di questa Corte, giudica sulle Opposizioni alle ordinanze in sede civile e non in sede penale.

Non solo, ma, come si desume dal secondo comma, proprio dell'impugnato art. 9 della legge n. 991 del 1969, anche in caso di rigetto dell'opposizione all'ordinanza, la riscossione del contributo é demandata alle stesse autorità ed uffici cui anche é demandata in via normale o in via coattiva la riscossione della sanzione amministrativa e non alla cancelleria del giudice dell'opposizione.

Ciò é in perfetta coerenza con la natura di giudizio di legittimità su un atto amministrativo che pone in essere l'opposizione, rigettata la quale, la sanzione amministrativa resta comminata dall'ordinanza riconosciuta legittima e non viene fatta propria dalla sentenza di rigetto.

Resta, così, confutata anche l'eccezione dell'Avvocatura dello Stato, secondo la quale l'attività devoluta all'autorità amministrativa dalla legge n. 317 del 1967 sarebbe amministrativa solo formalmente, essendo pur essa diretta a reintegrare l'ordine giuridico mediante applicazione di sanzioni ed essendo intimamente collegata con la fase strettamente giurisdizionale.

Che, poi, anche in sede amministrativa si possa aver bisogno della consulenza o dell'assistenza di un esercente la professione legale, non ha rilevanza, in quanto, ove tali ipotesi si verifichino, sono dovuti gli altri contributi che la legge prevede e non quello oggetto della contestazione in esame.

Tanto stabilito, risulta in modo evidente che soltanto in caso di opposizione chi sia stato colpito da un'ordinanza di comminazione di sanzione amministrativa "si giova del servizio giudiziario" ed é tenuto, in conseguenza, al pagamento dei contributi alla Cassa di previdenza degli avvocati e procuratori preveduti dalla legge per i giudizi davanti al giudice adito, ancorché, avvalendosi della facoltà accordatagli dal comma sesto dell'art. 9 della legge n. 317 del 1967, preferisca stare in giudizio senza ministero del difensore.

Ma, se non vi é stata opposizione, il "giovamento del servizio giudiziario" rimane nel campo di una mera possibilità astratta comune ad ogni atto amministrativo, che può essere impugnato davanti alla giurisdizione ordinaria o amministrativa o, addirittura ad ogni contratto di diritto privato che, potenzialmente, può condurre davanti ad un giudice o in veste di attore o in veste di convenuto.

Viene così a mancare il presupposto, che secondo la giurisprudenza di questa Corte, può giustificare l'imposizione del contributo in esame, considerato tributo giudiziario, in senso lato, ossia il godimento in modo divisibile del servizio giudiziario col relativo collegamento alla esigenza di interesse pubblico che si riconosce alla professione forense nella sua funzione di collaborazione del servizio giudiziario.

Ciò posto, senza che occorra passare all'esame degli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati con le ordinanze di rinvio, é assorbente e sicuramente fondato quello con il quale si prospetta la violazione del principio di eguaglianza: nessuna razionale giustificazione infatti ha la differenziata disciplina, rispetto all'obbligo del pagamento del contributo in questione, che colpisca coloro nei confronti dei quali sia stata emessa un'ordinanza di comminazione di sanzione amministrativa, opponibile in sede giudiziaria, di fronte a quella riguardante tutti coloro ai quali sia stato notificato un qualsiasi atto amministrativo, impugnabile sia davanti agli organi di giurisdizione ordinaria sia davanti agli organi di giurisdizione amministrativa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 della legge 24 dicembre 1969, n. 991, recante "adeguamento delle pensioni degli avvocati e procuratori".

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 febbraio 1973.

Giuseppe  CHIARELLI – Giuseppe  VERZÌ – Francesco  PAOLO BONIFACIO – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE -  Paolo  ROSSI – Giulio  GIONFRIDA – Leonetto AMADEI – Edoardo VOLTERRA

         Arduino Salustri – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 27 febbraio 1973.