Sentenza n. 67 del 1972

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SENTENZA N. 67

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

 

composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 69, sesto comma, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 (disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 6 febbraio 1970 dalla Corte d'appello di Trieste nel procedimento civile vertente tra Tessari Lino e l'Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato, iscritta al n. 160 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 143 del 10 giugno 1970.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 marzo 1972 il Giudice relatore Nicola Reale;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Il signor Lino Tessari, vantando nei confronti dell'Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato un credito di lire 2.053.812, quale residuo corrispettivo a saldo per l'esecuzione di opere che gli erano state commesse con due contratti d’appalto in data 13 marzo 1961 e 12 luglio 1962, ed avvalendosi degli atti di collaudo e di liquidazione, ottenne dal Presidente del tribunale di Trieste decreto ingiuntivo, in data 28 settembre 1966, contro l'Azienda predetta.

Questa, con atto di citazione del 17 ottobre 1966, propose opposizione, eccependo l'inesigibilità del credito a seguito di fermo amministrativo. Fermo che era stato disposto dalla stessa Azienda, con provvedimento del 31 gennaio 1966, ai sensi dell'art. 69, ultimo comma, della legge sulla contabilità generale dello Stato (r.d. 18 novembre 1923, n. 2440) a garanzia del recupero di passività risultanti, a carico dello stesso appaltatore, dal collaudo di opere eseguite in forza di altro contratto, non definito contabilmente a causa del sequestro dei documenti relativi, ordinato dal giudice penale in un procedimento pendente contro il Tessari.

Il tribunale di Trieste, con sentenza 26 giugno 1967, ritenuto che in conseguenza del fermo i crediti dell'attore erano allo stato inesigibili, revocava la precedente ingiunzione.

In sede di impugnazione proposta dal Tessari, che assumeva l’inapplicabilità dell'art. 69, per l’impossibilità della compensazione di un credito liquido ed esigibile con altro (quello vantato dalla pubblica Amministrazione) privo di tali caratteri, la Corte d'appello di Trieste, con ordinanza 6 febbraio 1970, sollevava di ufficio la questione di legittimità costituzionale del citato art. 69, sesto comma, della legge generale di contabilità, ritenendone la pregiudizialità e la non manifesta infondatezza in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione.

Per detta norma "qualora un’Amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo, ragioni di credito verso aventi diritto a somme dovute da altra Amministrazione, richiede la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo".

Il che, assumeva la Corte, autorizzerebbe l'Amministrazione dello Stato a disporre a proprio favore ed a danno dei privati, una misura cautelare d'imperio, non revocabile o annullabile dal giudice ordinario, la quale paralizzerebbe il diritto del privato creditore all'esazione di un credito liquido ed esigibile; attribuirebbe all'Amministrazione predetta posizione di preminenza di fronte al privato in un rapporto di dare ed avere di natura privatistica ossia non strettamente attinente a quelle funzioni e finalità pubbliche le quali, sole, giustificano l'esercizio del potere discrezionale della Amministrazione.

Tale ingiustificata posizione di prevalenza contrasterebbe, ad avviso della Corte, con l'art. 3 della Costituzione, specie se si tien conto che il provvedimento cautelare in questione avrebbe portata di gran lunga più vasta di quelli che la legge ordinaria (ex artt. 670 e segg. e 700 e segg. cod. proc. civ.) accorda ai privati.

La norma in esame, poi, inciderebbe su diritti soggettivi; e poiché per la tutela di questi la legge stabilisce la competenza del giudice ordinario, la norma stessa, attribuendo all'Amministrazione dello Stato il potere di incidere, sia pure in via cautelare, sui diritti medesimi, sottrarrebbe la relativa pretesa e le conseguenti difese all'esame del giudice precostituito dalla legge e al giudice ordinario la funzione che gli appartiene. Donde il contrasto anche con gli artt. 25, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione.

Costituitasi in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura generale dello Stato ha dedotto che la questione in esame non avrebbe fondamento sotto alcuno dei profili sopra enunciati.

Il fermo amministrativo costituirebbe espressione di un potere di autotutela, volto, in via interinale e cautelare, a garantire l'effettiva operatività della compensazione nella particolare ipotesi in cui due rapporti obbligatori facciano capo da un lato al privato e, dall'altro a due diverse od alla stessa branca della pubblica Amministrazione.

Si assume, al riguardo, che la pronunzia del fermo non richiederebbe la certezza, liquidità ed esigibilità del credito dell'Amministrazione, ma sarebbe sufficiente che tali requisiti sussistano nel momento conclusivo del procedimento amministrativo cautelare, allorché cioé alla stessa Amministrazione spetta provvedere definitivamente alla compensazione ovvero alla revoca del fermo. Esso si configurerebbe, tuttavia, non come privilegio ingiusto, ma troverebbe specifica giustificazione nella esigenza di una più immediata e penetrante autotutela, affinché le entrate dello Stato siano realizzate secondo le indicazioni del bilancio e siano quindi devolute alle finalità prestabilite nel pubblico interesse.

A tale situazione non sarebbe perciò applicabile il principio di uguaglianza, non ricorrendo il presupposto della parità sostanziale del privato e della pubblica Amministrazione, pur come parti dei contratti di appalto di opere pubbliche.

In riferimento, poi, alle censure di incostituzionalità mosse nell'ordinanza in relazione agli artt. 25, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione, l'Avvocatura ha obiettato che l'attribuzione del potere di autotutela non costituirebbe invasione della sfera di competenza del giudice, al quale rimarrebbe comunque devoluto il controllo sugli atti medesimi, qualora fossero illegittimi, nei limiti consentiti dall'ordinamento ed in particolare ai fini della loro disapplicazione per la reintegrazione della sfera giuridica del privato.

L'Avvocatura ha concluso perché le questioni siano dichiarate non fondate.

 

Considerato in diritto

 

1. - Risulta dall'ordinanza della Corte d'appello di Trieste che nel giudizio promosso da un privato imprenditore contro l'Amministrazione delle Ferrovie dello Stato, per il pagamento di crediti, costituenti il corrispettivo per l'esecuzione di contratti d'appalto di opere pubbliche, dalla stessa Amministrazione veniva opposta l'inesigibilità del credito; inesigibilità derivante dal provvedimento di fermo adottato ai sensi dell'art. 69, sesto comma, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato) e volto, nella specie, a garantire il recupero di passività, in corso di accertamento giudiziale, risultanti a carico dello stesso privato dall'inadempimento di altro contratto di appalto.

Nel corso del giudizio la Corte ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità della norma suddetta, la quale dispone che, "qualora un’Amministrazione dello Stato, che abbia, a qualsiasi titolo, ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre Amministrazioni, richiede la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo".

Sotto il profilo dell'uguaglianza, la Corte ha rilevato che la prevista sospensione del pagamento si concreta in una misura cautelare, la quale può essere imposta discrezionalmente dalla stessa Amministrazione debitrice con proprio atto non revocabile né annullabile dal giudice ordinario e con l'effetto di impedire l'esercizio del diritto del privato all'esazione di un credito liquido ed esigibile. Dal che deriverebbe a favore dell'Amministrazione una posizione di supremazia in un rapporto di natura privatistica, non conseguente alla esplicazione di funzioni o al perseguimento di finalità pubbliche.

La misura cautelare in oggetto, risulterebbe, oltretutto, di portata più grave di quella che la legge ordinaria (artt. 670 e segg.; 700 e segg. c.p.c.) consente ai privati di ottenere.

Inoltre la norma stessa, attribuendo alla pubblica Amministrazione statale il potere di incidere su diritti soggettivi, sottoposti alla giurisdizione del giudice ordinario, sottrarrebbe le eventuali difese del privato al giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma) e al giudice ordinario le funzioni che gli spettano (art. 102, primo comma, Cost.).

Le questioni non sono fondate.

2. - La norma denunziata disciplina il cosiddetto fermo amministrativo diretto a legittimare la sospensione del pagamento di un debito liquido ed esigibile da parte di un'Amministrazione dello Stato, a salvaguardia della eventuale compensazione legale di esso con un credito, anche se non attualmente liquido ed esigibile, che la stessa od altra branca della Amministrazione statale, considerata nella unicità di soggetto di rapporti giuridici, pretenda di avere nei confronti del suo creditore. Il fermo é disposto in via cautelare e fino alla pronunzia di un successivo provvedimento con cui lo si revochi ovvero si disponga che la somma dovuta dallo Stato al creditore venga ritenuta, nei limiti in cui opera la compensazione legale, a soddisfazione del credito ercourier newe.

Va ricordato al riguardo che il fermo costituisce misura di autotutela della Amministrazione statale, avente lo scopo di assicurare la realizzazione dei fini cui é rivolto l'iter amministrativo procedimentale, necessariamente complesso e disciplinato da norme inderogabili e preordinate ad assicurare la regolarità contabile e la realizzazione delle entrate dello Stato, quali vengono definite nell'art. 219 r.d. 23 maggio 1924, n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato).

É evidente, quindi, che la norma in esame non configura un irrazionale privilegio, ma uno strumento necessario alla protezione del pubblico interesse connesso alle esigenze finanziarie dello Stato.

E se é vero che l'autotutela, nella generalità delle sue applicazioni, é connaturata all'attività della pubblica Amministrazione nei rapporti di diritto pubblico, non deve escludersi, in considerazione di quanto testé accennato, che speciali norme di legge ne consentano l'esercizio anche in rapporti di diritto privato, cui la pubblica Amministrazione partecipi per i fini che le sono propri.

Né vale obiettare, con riferimento a questi ultimi rapporti e in ispecie a quelli derivanti da contratti di appalto di opere pubbliche, che misure di autotutela, quale il fermo amministrativo, sarebbero incompatibili con il principio, che erroneamente, invece, é stato richiamato nell'ordinanza, della parità delle posizioni delle parti nei contratti di diritto privato, anche se conclusi dalla pubblica Amministrazione.

In particolare per i contratti di pubblico appalto (cui la dominante dottrina attribuisce natura privatistica) non può disconoscersi che sulla relativa disciplina incida la normativa di diritto pubblico concernente i procedimenti attraverso i quali, anche nella materia in esame, necessariamente si esplica l'attività della pubblica Amministrazione. Ed é noto che dal regime privatistico dei suddetti contratti si discosta, in special modo, la disciplina del processo formativo della volontà del soggetto pubblico, della scelta del privato contraente, della forma e della perfezione del contratto, dello svolgimento e della estinzione del rapporto che ne deriva.

Orbene, nel quadro di tale normativa, evidentemente preordinata ai fini perseguiti dallo Stato (ben diversi da quelli, normalmente di lucro, cui é volto l'interesse della parte privata), la misura cautelare del fermo amministrativo, anche se incidente sull'adempimento di obbligazioni pecuniarie, che derivano da contratti di pubblico appalto, non presenta natura eccezionale o di deroga ai principi fondamentali, ma ad essi si adegua, quale espressione di un potere di supremazia della pubblica Amministrazione.

E l'esercizio di questo potere, improntato a valutazioni discrezionali dell'interesse pubblico, non resta, peraltro, sottratto ai controlli che l'ordinamento prevede, anche in sede giurisdizionale, seppure con le modificazioni che conseguono alla dichiarata subordinazione del diritto soggettivo del privato contraente alle esigenze del pubblico interesse.

Da quanto sopra emerge che il principio di uguaglianza non può riguardare situazioni fra loro differenti, quali sono quelle, ricorrenti nella fattispecie, dell'Amministrazione e del privato, e cade, quindi, la censura svolta in riferimento all'articolo 3 della Costituzione.

3. - Non può ravvisarsi, infine, alcuna violazione dei precetti di cui agli artt. 25, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione, giacché la determinazione del giudice competente risulta, come sopra rilevato, precostituita dalla legge con specifico riguardo alle diverse situazioni, di diritto soggettivo perfetto od affievolito, quali si realizzano nel corso delle vicende dei contratti della pubblica Amministrazione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 69, sesto comma, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 (disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato), sollevate con l'ordinanza di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 aprile 1972.

Giuseppe CHIARELLI - Nicola REALE

Depositata in cancelleria il 19 aprile 1972.