Sentenza n. 55 del 1972

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 SENTENZA N. 55

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 391, primo e secondo comma, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 6 ed il 28 febbraio 1970 dal tribunale di Teramo nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Franceschini Antonio ed altro e di De Matteis Vitale ed altri, iscritte ai nn. 76 e 115 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 82 del 1 aprile 1970 e n. 102 del 22 aprile 1970.

Udito nella camera di consiglio del 13 gennaio 1972 il Giudice relatore Enzo Capalozza.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale davanti al tribunale di Teramo, per omicidio colposo, a carico di Donato Vadini e d’Antonio Franceschini, la difesa del primo imputato, all'udienza dibattimentale, faceva presente che, durante la sommaria istruzione, il pubblico ministero aveva incaricato il perito di redigere una relazione scritta, entro quaranta giorni, sull'epoca e sulle cause della morte; ed eccepiva la nullità dell'intera procedura istruttoria, sotto il profilo della violazione dell'art. 389, terzo comma, del codice di procedura penale, in relazione alla sentenza n. 117 del 1968 di questa Corte.

Il tribunale disattendeva tal eccezione, uniformandosi al principio, ripetutamente affermato dalla Cassazione, sulla non retroattività della dichiarazione d’illegittimità di una norma disciplinatrice d’atti processuali, allorché questi siano già esauriti. Per altro, sulla base d’argomenti analoghi a quelli della citata sentenza n. 117 del 1968, con ordinanza del 6 febbraio 1970, riteneva rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale - in riferimento all'art. 25, primo comma, della Costituzione - dell'art. 391, secondo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui esclude la sindacabilità, nel corso del processo, della valutazione compiuta dal procuratore della Repubblica, sulla facilità e sulla brevità dell'indagine peritale, che consenta la persistenza del rito istruttorio sommario".

Al riguardo, precisava che la suddetta valutazione sarebbe rimessa all'apprezzamento insindacabile dell'organo inquirente, svincolato da ogni successivo controllo e riesame; ed affermava che l'accennata violazione non sarebbe esclusa neppure dall'art. 1 della legge 7 novembre 1969, n. 780, sostitutivo del testo dell'art. 389 del codice di procedura penale, che non contempla il caso che la necessità della perizia sorga dopo l'esito negativo del nuovo rimedio istruttorio ovvero dopo la notifica di un atto da cui si ricavi la notizia certa di un altro procedimento a carico dell'imputato.

2. - Analoga questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione, oltre che del primo comma del citato art. 391 - "nella parte in cui esclude la sindacabilità nel corso del processo della valutazione compiuta dal procuratore della Repubblica in merito alla complessità e durata degli atti istruttori in vista della loro compatibilità con il rito sommario" - é stata sollevata, in riferimento al medesimo precetto costituzionale, con ordinanza del 28 febbraio 1970, dallo stesso tribunale, nel corso di un procedimento penale a carico di Maria Luisa Tudini ed altri, imputati del delitto di procurato aborto.

3. - Nei giudizi innanzi a questa Corte non vi é stata costituzione di parte né intervento della Presidenza del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

1. - Entrambe le questioni sottoposte a questa Corte sono strettamente connesse, avendo ad oggetto l'art. 391 del codice di procedura penale, sicché le relative cause possono essere riunite per essere decise con unica sentenza.

2. - Le questioni attengono, rispettivamente, al primo e al secondo comma del ridetto art. 391 cod. proc. pen.: al primo comma, in quanto non rende sindacabile, nel corso del processo, ai fini dell'eventuale mutamento del rito, la valutazione, compiuta dal procuratore della Repubblica, della complessità e durata degli atti istruttori, nell'ambito dell'istruzione sommaria; al secondo comma, in quanto non rende sindacabile, ai medesimi fini, la valutazione della facilità e brevità dell'indagine peritale.

3. - La Corte ritiene che i principi affermati nella sua sentenza n. 117 del 1968, ai quali le due ordinanze di rimessione si richiamano, non giustifichino l'accoglimento delle attuali questioni di legittimità costituzionale.

Nella predetta decisione, la Corte accertò che l'art. 389 cod. proc. pen. - successivamente modificato dalla legge 7 novembre 1969, n. 780 - confliggeva con l'art. 25, primo comma, della Costituzione, a causa dell'insindacabilità della valutazione, fatta dal pubblico ministero, in ordine all’evidenza della prova: vale a dire, in ordine all'effettiva sussistenza di una delle ipotesi nelle quali la legge prevede la competenza dell'organo requirente a procedere col rito sommario.

E però, nel caso che ora ne occupa, viene in considerazione una successiva vicenda processuale, afferente all'incidenza che sulla già (legittimamente) instaurata istruttoria sommaria la legge attribuisce alla necessità di procedere ad atti che, per complessità e durata, siano con quel rito incompatibili (art. 391, primo comma, cod. proc. pen.) e, per quanto più specificamente riguarda la perizia, ad indagini non facili e non brevi (art. 391, secondo comma).

Vero é che la legge prescrive che il procuratore della Repubblica, verificandosi tali eventualità, richieda l'istruttoria formale; ed é anche vero che nessun sindacato giurisdizionale é predisposto a presidio dell'effettiva osservanza dell'obbligo e dei limiti del potere di esso procuratore della Repubblica, qui pure indubitatamente discrezionale. Tuttavia, non sembra che ciò concreti una violazione del principio secondo cui il giudice deve essere precostituito per legge.

Questo principio investe, certo, anche la fase istruttoria del processo penale (e questa Corte lo ha più volte affermato e ribadito), ma non può riguardare che il solo momento iniziale di essa.

L'art. 295 cod. proc. pen. prevede che, per i delitti di competenza della Corte di assise o del tribunale, il dibattimento sia preceduto dall'istruttoria formale, affidata al giudice istruttore: alla quale regola l'art. 389 apporta tassative eccezioni (oltre a quelle riguardanti il giudizio direttissimo: articolo 502), statuendo in quali casi viene meno la competenza funzionale di quel giudice e viene legittimato il pubblico ministero a procedere in via sommaria ed a richiedere, a conclusione di questa, o il decreto di non promovimento dell'azione penale o il decreto di citazione a giudizio.

É evidente che, come é la legge a stabilire la competenza del giudice istruttore, così deve essere la legge ad indicare i presupposti in presenza dei quali a quella competenza si deroghi: e poiché la verifica della loro effettiva sussistenza é affidata all'organo che é titolare dell'azione penale, essa deve essere soggetta - ad evitare l'elusione della riserva di legge - al sindacato giurisdizionale, ora assicurato (a seguito della citata sentenza n. 117 del 1968 ed in armonia coi principi che questa ha posto) dalle innovazioni introdotte con la "novella" n. 780 del 1969.

Per ciò che attiene, invece, alle successive vicende della istruzione sommaria, il problema é ben diverso, dappoiché l'obbligo del pubblico ministero di investire il giudice istruttore, quando egli ravvisi la necessità di compiere atti complessi di lunga durata, é solo in funzione della loro coerenza con le caratteristiche del rito sommario: il che testualmente risulta dalla stessa dizione delle norme impugnate. Ne consegue che l'eventuale inosservanza di quest'obbligo non lede l'interesse sostanziale tutelato dal principio costituzionale di raffronto.

E giova aggiungere che l'estensione di detto principio alla valutazione della compatibilità dei singoli atti con la procedura sommaria, implicando la predisposizione della possibilità del sindacato giurisdizionale su ciascuno di essi, comprometterebbe in modo irrimediabile l'esigenza di un rapido corso dell'indagine - un'esigenza apprezzabile sul piano costituzionale e, oltre tutto, corrispondente allo stesso interesse dell'inquisito - senza che tale sacrificio sia richiesto dal bene che l'art. 25, primo comma, della Costituzione é diretto a proteggere.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 391, primo e secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 25, primo comma, della Costituzione, dal tribunale di Teramo con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 1972.

Giuseppe CHIARELLI - Enzo CAPALOZZA

Depositata in cancelleria il 29 marzo 1972.