Sentenza n.47 del 1972

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 SENTENZA N. 47

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici.

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 4, primo comma, del d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 17, e 14, primo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), promossi con ordinanze emesse il 30 gennaio 1971 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - sezione IV - sui ricorsi riuniti di Dragone Luigi, Tufi Aldo ed altri contro il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e di Fabbri Giosafat ed altri contro il Ministero dei trasporti e dell'aviazione civile - Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato -, iscritte ai nn. 237 e 238 del registro ordinanze 1971 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 184 del 21 luglio 1971.

Visti gli atti di costituzione di Tufi Aldo ed altri e di Fabbri Giosafat ed altri;

udito nell'udienza pubblica del 26 gennaio 1972 il Giudice relatore Francesco Paolo Bonifacio;

uditi l'avv. Pasquale D'Abbiero, per Tufi ed altri, e l'avv. Giuseppe Adami, per Fabbri ed altri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con due ordinanze del 30 gennaio 1971, emesse in giudizio nei quali si controverte intorno al diritto vantato da alcuni dipendenti dello Stato, impiegati presso uffici della Capitale, in ordine alla retribuzione, come straordinario, del lavoro prestato per una durata superiore alle sei ore giornaliere, il Consiglio di Stato ha sollevato di ufficio, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma primo, del d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 17, e dell'art. 14, comma primo, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nella parte in cui tali disposizioni recepiscono e fanno proprio, per i pubblici uffici della Capitale, l'orario differenziato di servizio già stabilito dal decreto 17 settembre 1939 dell'allora Capo del Governo.

Nei provvedimenti di rimessione il Consiglio di Stato perviene, anzitutto, alla conclusione che per gli uffici statali operanti in Roma vige tuttora l'orario giornaliero di sei ore continuative di lavoro, così come esso era stato stabilito da un decreto del Capo del Governo del 17 settembre 1939: il cui contenuto, a suo avviso, sarebbe stato recepito dall'art. 4 del d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 17, relativo allo statuto degli impiegati civili dello Stato, e dall'art. 14 del testo unico approvato con il d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. Ciò posto - e rilevato che a seguito di siffatta ricezione la norma de qua trova oramai la sua fonte in testi legislativi, sicché superflua apparirebbe ogni indagine diretta ad accertare se il decreto del 1939 avesse forza di legge -, il Consiglio dubita della legittimità costituzionale di una disciplina che si riferisce solo agli uffici di Roma, laddove per quelli situati in ogni altra parte del territorio nazionale é stabilito il più gravoso orario di sette ore giornaliere previsto dal r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960. Nel delibare la non manifesta infondatezza della questione il Consiglio osserva che, anche ad ammettere che nel 1939, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, sussistessero ragioni di pubblico interesse idonee a giustificare una disciplina differenziata per gli impiegati in servizio a Roma, non si può rinvenire una valida ragione di carattere obiettivo per la perpetuazione, operata dalle citate leggi, di un siffatto regime privilegiato. Le due ordinanze non escludono che per le diverse categorie di pubblici dipendenti possano legittimamente esser disposte discipline differenziate in relazione ad oggettive diversità di esigenze, ma ritengono che la differenziazione basata, come nella specie, "sulla mera localizzazione in questo o in quell'altro centro cittadino degli uffici e servizi pubblici" sia fonte di un’ingiustificata disparità di trattamento tra i pubblici dipendenti, tale da violare l'art. 3 della Costituzione.

2. - Innanzi a questa Corte non é intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

Nel giudizio promosso con l'ordinanza n. 237 del 1971 si sono costituiti i signori Aldo Tufi ed altri (atto di costituzione del 22 giugno 1971, memoria depositata il 4 gennaio 1972); nel giudizio promosso con l'ordinanza n. 238 del 1971 si sono costituiti i signori Giosafat Fabbri ed altri (atto di costituzione del 1 luglio 1971, memoria depositata l'11 gennaio 1972).

3. - La difesa del Tufi ed altri eccepisce, in via preliminare, l'irrilevanza della questione, facendo osservare che nel giudizio innanzi al Consiglio di Stato si controverte unicamente intorno al diritto dei ricorrenti al pagamento, come straordinario, del lavoro giornaliero relativo alla settima ora, diritto contestato dall'Amministrazione non già per la pretesa illegittimità della normativa differenziata per gli uffici della Capitale, ma in considerazione di modifiche ad essa apportate da un ordine di servizio del 1946: l'irrilevanza risulterebbe, altresì, dalla constatazione che gli impiegati di altre città nessun giovamento trarrebbero dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disciplina de qua.

Nel merito la difesa sostiene l'infondatezza della questione.

Dal momento che, come ammette lo stesso Consiglio di Stato, si deve riconoscere una discrezionalità del legislatore in ordine alla valutazione di ragioni di opportunità e di convenienza per una normativa differenziata dell'orario di lavoro giornaliero, non può nel caso in esame ravvisarsi una violazione dell'art. 3 della Costituzione, e questa conclusione é rafforzata dalla considerazione che, costituendo la città di Roma un centro non paragonabile ad altre città, rientra indubbiamente nei poteri del legislatore il valutare le esigenze degli uffici della Capitale diversamente da quelle degli uffici operanti in altra parte del territorio nazionale.

4. - La difesa del Fabbri ed altri, collegando il decreto del 1939 al decreto di delegazione n. 2320 del 1935, ritiene che assolutamente legittima sia l'introduzione dell'orario continuato per gli uffici di Roma e che tale disciplina risponda ad indubbie ragioni di pubblico interesse. A suo avviso la disparità di trattamento denunziata dal Consiglio di Stato sarebbe insussistente: con disposizioni amministrative l'orario continuato venne esteso a tutti gli uffici che fossero in grado di attuarlo e la disciplina del 1939 é coerente col decreto 30 ottobre 1935 e col successivo decreto 5 novembre dello stesso anno, giacché dalle norme di quest'ultimo si ricava che l'orario non continuato doveva essere espressamente autorizzato, siccome in deroga a quello continuato. Il decreto del 1939 - così prosegue la difesa - provvide, con statuizione unitaria, a confermare quanto già era stabilito dai decreti del 1935, fissando per la Capitale un orario di sei ore continuative senza con ciò escludere l'adozione di un'analoga disciplina per gli uffici periferici, in applicazione del disposto dell'art. 4 del decreto del 1935. Non sussisterebbe, dunque, alcuna disparità di trattamento che possa violare l'art. 3 della Costituzione.

5. - Nell'udienza pubblica le parti costituite hanno ulteriormente illustrato le riferite tesi e conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due ordinanze del Consiglio di Stato sollevano un'identica questione di legittimità costituzionale e pertanto i relativi giudizi, congiuntamente discussi nell'udienza, vengono riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - La questione riguarda la disciplina dell'orario di lavoro (sei ore giornaliere senza interruzione) degli addetti ai pubblici uffici di Roma, introdotta dal decreto del Capo del Governo del 17 settembre 1939. Ad avviso del Consiglio di Stato, l'eccezionalità di siffatta disciplina rispetto alla regola generale, che per gli uffici pubblici operanti in ogni parte del restante territorio nazionale fissa l'orario giornaliero di lavoro in sette ore divise in due periodi (art. 106 r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960), in quanto non sorretta da ragioni idonee a giustificarla, determinerebbe una disparità di trattamento in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

Nel proporre la descritta questione il Consiglio di Stato, partendo dal presupposto che tutta la normativa inerente all'orario di lavoro nei pubblici uffici (e, quindi, anche il contenuto del citato decreto del 1939) sia stata recepita e fatta propria dall'art. 4, primo comma, del d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 17, e dall'art. 14, primo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, denuncia, nella parte de qua, l'illegittimità costituzionale di queste due disposizioni.

3. - La questione, valutata nei termini in cui essa é stata precisata dal Consiglio di Stato, é inammissibile per difetto assoluto di rilevanza.

I due testi legislativi, ai quali la denuncia si riferisce e si limita, statuiscono che "l'orario giornaliero di servizio rimane regolato dalle norme in vigore": ma siffatta formula non può essere interpretata, come assumono le ordinanze di rimessione, nel senso che il legislatore "abbia inteso far propria, con un rinvio avente natura ricettizia, la precedente disciplina differenziata, omettendo di riprodurla letteralmente solo per ragioni di comodità ed economia legislativa". Ed invero nessun argomento viene addotto e nessun argomento sussiste per far ritenere fondata tale tesi.

In via di principio é ammissibile, certo, che una legge possa assumere a proprio contenuto, per relationem, il contenuto di precedenti atti normativi, legislativi e non. Ma ciò - segnatamente nelle materie, quale é quella di cui si discute, che sono oggetto di riserva di legge - deve risultare da univoci e significativi elementi, idonei a dimostrare l'avvenuta recezione ed il conseguente (sotto vari aspetti assai rilevante) effetto novativo della fonte di produzione del precetto: in mancanza di quegli elementi l'interprete deve esser indotto a ritenere che il richiamo di precedenti norme non valga a staccare la disciplina dalle fonti originarie.

Ciò posto, nel caso oggetto del presente esame la formula adoperata nei due testi legislativi impugnati lascia intendere, con la sua struttura estremamente generica, che il legislatore non si é prefisso altro scopo che quello di non modificare in alcun modo la disciplina dell'orario di lavoro così come essa risultava statuita dalle norme (legislative o, in ipotesi, anche sublegislative) in vigore: ché, infatti, la proposizione "l'orario giornaliero di servizio rimane regolato dalle norme in vigore" si risolve agevolmente nell'affermazione che nulla é innovato in materia. Questa conclusione, oltre che non esser contrastata da alcun valido argomento a favore dell'opposta tesi della ricezione, é suffragata da un esplicito dato testuale: l'art. 385 del testo unico del 1957, infatti, nel momento stesso in cui dichiara abrogato il r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960, espressamente esclude dall'abrogazione l'art. 106, primo comma (relativo, come si é detto, all'orario di lavoro), e ciò é chiaramente incompatibile con l'ipotesi che l'art. 14 di quel testo unico abbia recepito il contenuto dei precedenti atti normativi (compreso, dunque, il citato art. 106) e ne abbia in tal modo novato la fonte.

4. - Da quanto innanzi si é detto risulta che nelle controversie sottoposte al suo esame il Consiglio di Stato non deve applicare l'art. 4 del d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 17, e l'art. 14 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, e che di conseguenza la questione sollevata nei confronti di quei testi deve essere dichiarata inammissibile.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma primo, del d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 17 ("statuto degli impiegati civili dello Stato"), e dell'art. 14, comma primo, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 ("testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato"), sollevata, dalle ordinanze indicate in epigrafe, nella parte concernente l'orario giornaliero di lavoro negli uffici di Roma ed in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 1972.

Giuseppe CHIARELLI – Francesco Paolo BONIFACIO

Depositata in cancelleria il 15 marzo 1972.