Sentenza n. 160 del 1971
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SENTENZA N. 160

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 10 del decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia), convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 10 luglio 1969 dal tribunale di Potenza nel procedimento civile vertente tra Perrone Gerardo e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 410 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 311 del 10 dicembre 1969;

2) ordinanza emessa il 4 aprile 1970 dal tribunale di Pesaro nel procedimento civile vertente tra Turri Luigi e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 201 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 177 del 15 luglio 1970.

Visti gli atti di costituzione di Turri Luigi e dell'Istituto nazionale della previdenza sociale;

udito nell'udienza pubblica del 3 giugno 1971 il Giudice relatore Giuseppe Chiarelli;

uditi gli avvocati Benedetto Bussi, per il Turri, e Luigi Rizzuti, per l'INPS.  

Ritenuto in fatto 

1. - Il tribunale di Potenza, nel procedimento civile vertente tra Gerardo Perrone e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, con ordinanza 10 luglio 1969 ha proposto la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 del decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636, sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e vecchiaia (convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272), in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Si rileva nell'ordinanza che la norma impugnata, con lo stabilire che si considera invalido l'assicurato la cui capacità di normale guadagno sia ridotta a meno di 1/3 per gli operai e a meno della metà per gli impiegati, viola il principio di eguaglianza, in quanto opera un trattamento diverso tra operai e impiegati, che appare arbitrario e non giustificato.

Si é costituito in giudizio l'Istituto nazionale della previdenza sociale, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Cannella e Arturo Pittoni, con deduzioni depositate il 30 dicembre 1969.

Premessa una esposizione dello sviluppo storico attraverso il quale si giunse alla formula dell'art. 10 impugnato, in esse si sostiene che il diverso criterio di determinazione dello stato di invalidità pensionabile é giustificato perché per l'operaio é più facile utilizzare le energie che gli residuano, fino ai due terzi della propria capacità di guadagno, di quello che non sia per l'impiegato, per il quale pertanto il legislatore ha fissato alla metà il limite di riduzione della capacità di guadagno per la pensionabilità. Se oggi il legislatore non ritiene più aderente alla realtà sociale la diversa misura percentuale di riduzione della detta capacità di guadagno é problema di politica sociale e non questione di legittimità costituzionale.

2. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 del r.d. 14 aprile 1939, n. 636, é stata anche proposta dal tribunale di Pesaro, con ordinanza 4 aprile 1970, nel giudizio vertente tra Luigi Turri e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, con riferimento all'art. 3 e all'art. 38 della Costituzione.

Nell'ordinanza si deduce che la discriminazione tra impiegati e operai contrasta col precetto del secondo comma dell'art. 38 della Costituzione, secondo cui i lavoratori hanno diritto che siano assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di invalidità, oltre che col principio di eguaglianza di cui all'art. 3.

In questo giudizio si é costituito il sig. Turri, rappresentato e difeso dall'avv. Benedetto Bussi, con deduzioni depositate il 30 luglio 1970. In esse si osserva che la perdita di capacità di guadagno provoca l'insorgere degli stessi problemi e degli stessi bisogni sia per gli operai che per gli impiegati: onde il contrasto della norma impugnata con l'art. 3 della Costituzione. Sussiste anche la violazione dell'art. 38, perché la norma stessa stabilisce condizioni particolarmente onerose, che in sostanza annullano il diritto ai mezzi adeguati alle esigenze di vita, costituzionalmente garantito.

In entrambi i giudizi le difese delle parti hanno sviluppato i loro argomenti, che sono stati poi ribaditi nella discussione orale.  

Considerato in diritto 

L'art. 10 del decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636, sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia (convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272), stabilisce: "Si considera invalido l'assicurato la cui capacità di guadagno, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente, per infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo del suo guadagno normale, per gli operai, o a meno della metà, per gli impiegati".

É stata prospettata l'incostituzionalità della norma, con riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui richiede, per il conseguimento del diritto alla pensione, un maggiore grado di invalidità per gli operai rispetto agli impiegati.

La questione é fondata.

Secondo l'art. 38 della Costituzione i lavoratori "hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita" in caso di "invalidità e vecchiaia".

Si presenta pertanto come fondamentale, nell'attuale giudizio, l'indagine diretta a stabilire se il criterio, posto dalla norma impugnata nel determinare le condizioni per il conseguimento del diritto a pensione da parte degli operai e degli impiegati, sia conforme al precetto costituzionale, che richiede la corrispondenza del mezzo previdenziale - assicurativo alle esigenze di vita del lavoratore.

Ritiene la Corte che la risposta debba essere negativa.

Il presupposto su cui la norma si basa é che la qualità di operaio o di impiegato comporti, nel caso di parziale invalidità, una diversa possibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro e una maggiore capacità residua di guadagno per gli operai rispetto agli impiegati.

Se non che la distinzione tra "operai" e "impiegati", basata su criteri incerti e controversi fin da quando fu introdotta con la legge sull'impiego privato del lontano 1924, non é idonea, nell'attuale stato della disciplina dei rapporti di lavoro, a fornire un rigido criterio discriminatore di diverse capacità di guadagno in ordine al regime previdenziale.

É noto che le leggi speciali e i contratti collettivi, per adeguare la disciplina dei rapporti di lavoro agli sviluppi della vita economica e della struttura delle imprese, per alcuni settori della produzione hanno adottato un diverso sistema di valutazione della posizione di lavoro, per altri settori hanno sostituito o integrato quella distinzione con varie classificazioni di categorie e qualifiche, a ciascuna delle quali é attribuito un proprio trattamento normativo ed economico, frequentemente superiore, per alcuni casi di categorie operaie, a quello di altre categorie impiegatizie.

A questa varietà di classificazione, basata, per alcune categorie di operai, su una preparazione tecnica e su attitudini professionali che non si richiedono per altre categorie di impiegati, corrisponde, nel cosiddetto mercato del lavoro, una diversità di domanda, per cui si rivela infondata la previsione che l'operaio, ove si sia verificato un evento riduttivo della sua capacità di lavoro, abbia una maggiore possibilità dell'impiegato di utilizzare le proprie attitudini senza declassarsi; vale a dire, "in occupazioni confacenti alle sue attitudini", come vuole lo stesso art. 10 del decreto - legge. Né questa constatazione si basa su dati dell'esperienza la cui valutazione é riservata al legislatore, ma é la conseguenza del ricordato ordinamento attuale delle qualificazioni professionali e corrisponde a una situazione riconosciuta dallo stesso legislatore.

Con la legge 21 luglio 1965, n. 903, infatti, fu conferita al Governo la delega a rivedere la vigente disciplina sull'invalidità pensionabile, determinandone gli elementi costitutivi con maggiore aderenza alle "esigenze emerse nella pratica attuazione della disciplina medesima", e ad "abolire la differente valutazione attualmente esistente tra impiegati e operai"; delega confermata, negli stessi termini, con la successiva legge 30 aprile 1969, n. 153.

L'espressa delega ad abolire la detta differenza trova riscontro nella Raccomandazione approvata il 27 settembre 1966 dal Comitato economico e sociale della C.E.E., che comprende l'abolizione delle "disposizioni che prevedono un'applicazione differente della nozione di stato d'invalidità agli operai e agli impiegati".

Dalle esposte considerazioni deriva che il maggior grado di invalidità, richiesto dalla norma impugnata, per il conseguimento del diritto a pensione da parte dell'operaio non assicura la corrispondenza del mezzo previdenziale - assicurativo alle esigenze di vita del lavoratore, com'é richiesto dall'art. 38 della Costituzione.

É vero che, come si esprime l'ordinanza del tribunale di Pesaro, l'art. 38 non esclude che il diritto alle prestazioni assicurative e previdenziali sia subordinato a determinate condizioni e requisiti; ma esso richiede anche che la determinazione delle condizioni a cui é subordinato il sorgere di tale diritto e la valutazione della invalidità parziale non pensionabile sia sempre basata sulla sicura esistenza di mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore: corrisponda cioè a una situazione del lavoratore che escluda il bisogno della prestazione previdenziale.

Va pertanto riconosciuta la non conformità all'art. 38 della Costituzione dell'art. 10 del decreto-legge n. 636 del 1939, nella parte impugnata.

Il contrasto con l'art. 38 implica altresì il contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto il trattamento differenziato previsto dalla norma non assicura una eguale protezione dal rischio dell'invalidità parziale.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, primo comma, del decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazione delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia), convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, nella parte espressa con le parole: "a meno di un terzo del suo guadagno normale, per gli operai, o", e con le parole finali del comma: "per gli impiegati".  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 6 luglio 1971.