Sentenza n. 142 del 1971
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SENTENZA N. 142

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 22 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 1 agosto 1970 dal tribunale di Massa sull'istanza di fallimento proposta dall'Istituto nazionale della previdenza sociale nei confronti di Lazzini Sandrino, iscritta al n. 276 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 267 del 21 ottobre 1970;

2) ordinanza emessa il 21 ottobre 1970 dal tribunale di Napoli sull'istanza di fallimento proposta da Belli Vincenzo nei confronti di Montano Armando, iscritta al n. 358 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 329 del 30 dicembre 1970.

Visti gli atti di costituzione dell'INPS e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 18 maggio 1971 il Giudice relatore Nicola Reale;

uditi l'avv. Antonio Giorgi, per l'INPS, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

Con decreto 28 aprile 1970 il tribunale di Massa respingeva l'istanza di fallimento proposta dall'Istituto nazionale della previdenza sociale nei confronti di Lazzini Sandrino, affermando essere il debitore insolvente piccolo imprenditore non soggetto a procedura fallimentare.

Contro tale pronunzia l'Istituto nazionale della previdenza sociale interponeva reclamo, ai sensi dell'art. 22 della legge fallimentare, alla Corte di appello di Genova, la quale, con decreto 3 luglio 1970, accogliendo l'istanza, rimetteva gli atti al tribunale predetto per la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento.

Con ordinanza emessa il 1 agosto successivo, premesso che il debitore, successivamente al decreto della Corte d'appello, aveva chiesto di essere nuovamente sentito onde aver modo di provare con ulteriori mezzi la propria qualità di artigiano piccolo imprenditore, il tribunale ha sollevato di ufficio, in riferimento all'art. 24, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, ultimo comma, della ricordata legge fallimentare (approvata col r.d. 16 marzo 1942, n. 267).

Ritenuta la rilevanza della questione, il tribunale ha osservato che, a seguito della pronunzia della Corte di appello, esso resterebbe vincolato ad emanare la sentenza dichiarativa del fallimento, senza possibilità di procedere a nuova istruzione e prendere in esame le deduzioni del debitore, anche se volte a precisare modificazioni della situazione di fatto, successive al procedimento di reclamo ed incidenti sulla legalità della stessa dichiarazione di fallimento.

Da ciò il dubbio che l'art. 22, primo comma, della legge fallimentare, in quanto escluda nella fase di rinvio davanti al tribunale la difesa del debitore, non sia compatibile con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

In riferimento al principio della indipendenza del giudice, il tribunale ha motivato che la norma denunziata, in contrasto col principio della esclusività della competenza funzionale dello stesso tribunale in ordine alla dichiarazione di fallimento, precluderebbe in concreto la verifica delle condizioni per la pronunzia di tale provvedimento, al quale soltanto l'ordinamento attribuisce funzioni costitutive dello stato di fallimento. Il tribunale dovrebbe sottostare alla decisione della Corte di appello, subendo menomazione della sua indipendenza: tale decisione avrebbe infatti il contenuto di un ordine di procedere alla dichiarazione di fallimento, senza peraltro costituire giudicato sui punti di fatto e di diritto esaminati.

Costituitosi in giudizio, con deduzioni 30 ottobre 1970, l'Istituto nazionale della previdenza sociale ha concluso, in via preliminare, per l'inammissibilità della questione, in quanto sarebbe stata sollevata nel corso non di "un vero e proprio giudizio contenzioso", ma di "un procedimento che si svolge esclusivamente in camera di consiglio".

Nel merito ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

Non sussisterebbe, ha osservato, la violazione dell'art. 24, secondo comma della Costituzione, posto che il debitore, la cui difesa può subire limitazioni nell'ambito della procedura di fallimento, avrebbe in ogni caso il potere di impugnare la sentenza del tribunale onde ottenerne la revoca, adducendo la prova che, dopo la comparizione in camera di consiglio davanti alla Corte d'appello, il proprio stato di insolvenza é venuto meno.

Il fatto poi che la sentenza dichiarativa di fallimento venga emessa, nel caso di accoglimento del reclamo, non direttamente dalla Corte d'appello, ma ne sia demandata la pronunzia al tribunale, non importerebbe diminuzione di difesa del debitore; al contrario rappresenterebbe un'ulteriore misura a suo favore, dato che, in tal guisa, non gli sarebbe sottratto un grado di giurisdizione in caso di opposizione.

Circa il secondo profilo, la difesa dell'INPS ha contestato il fondamento della questione, rilevando che l'art. 22 della legge fallimentare, nella parte impugnata, non si discosterebbe sostanzialmente dallo schema legale della ripartizione delle competenze fra Corte di cassazione e giudice di rinvio (la cui costituzionalità é stata affermata nella sentenza n. 50/1970 di questa Corte) o da quello della rimessione della causa al giudice di primo grado da parte del giudice di appello, per ragioni di giurisdizione o di competenza (art. 353 c.p.c.) o negli altri casi indicati dall'art. 354 del codice di procedura civile.

Al decreto sopra ricordato, obietta la difesa dell'INPS, dovrebbe essere riconosciuta la peculiare funzione preclusiva delle contestazioni sui presupposti della dichiarazione di fallimento nell'ambito della fase di accertamento dello stato di insolvenza, in quanto rimedio contro la reiterazione di istanze di fallimento, cui facciano seguito altrettanti decreti negativi del tribunale.

Analoghe argomentazioni e conclusioni ha svolto anche l'Avvocatura generale dello Stato, con atto di intervento depositato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri.

L'Avvocatura ha dedotto, in particolare, che il procedimento di reclamo, di cui all'art. 22 legge fallimentare, é informato al rispetto della competenza funzionale del tribunale con il solo temperamento che la decisione della Corte d'appello, vincolando il primo giudice, elimina ogni possibilità di conflitto virtuale fra i due organi.

Il vincolo, che da tale sistema deriva, discenderebbe dal fatto che la dichiarazione di fallimento é configurata, nel caso in esame, come pronunzia soggettivamente complessa, nel cui ambito alla Corte d'appello, in sede di reclamo, spetta accertare il concorso dei presupposti di fatto e di diritto, al tribunale dichiarare con efficacia costitutiva il fallimento.

Tale configurazione escluderebbe, altresì, che dall'art. 22, ultimo comma, possa derivare lesione del diritto di difesa. Questo diritto può essere proficuamente esercitato con la comparizione del debitore, richiesta da detta norma anche nel procedimento di reclamo, e, esaurendosi in questo l'accertamento dei presupposti della dichiarazione di fallimento, non sarebbero giustificate ulteriori indagini da parte del tribunale mentre eventuali contrarie circostanze potrebbero essere dedotte nel giudizio di opposizione.

La stessa questione é stata sollevata di ufficio anche nel corso di un analogo procedimento fallimentare, con ordinanza 21 ottobre 1970 del tribunale di Napoli, in riferimento all'articolo 101, secondo comma, della Costituzione.

Lo stesso tribunale ha ritenuto, inoltre, che l'art. 22 della legge fallimentare contrasti anche con l'art. 3 della Costituzione. Nel caso preveduto dalla detta disposizione, il tempo intercorrente fra l'accertamento delle condizioni della dichiarazione di fallimento da parte della Corte d'appello e la successiva emanazione della sentenza ad opera del tribunale risulterebbe maggiore che non nell'ipotesi nella quale, in mancanza di reclamo, l'intero procedimento si concluda davanti allo stesso organo di primo grado. Il che importerebbe la possibilità, maggiore ovviamente nel primo caso che non nel secondo, che nelle more processuali si verifichino mutamenti della situazione patrimoniale del debitore ed anche la cessazione dello stato di insolvenza. Donde la disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente parallele e differenziate soltanto da circostanze formali inerenti alla particolare disciplina dettata dalla norma denunziata.

Nessuna delle parti si é costituita in questo giudizio né ha spiegato intervento l'Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri.  

Considerato in diritto 

1. - Le due cause, avendo ad oggetto questioni identiche o fra loro connesse, devono essere riunite ai fini di unica decisione.

2. - Con le ordinanze dei tribunali di Massa e Napoli é sollevata la questione di costituzionalità dell'art. 22 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare), per la parte (comma terzo) in cui dispone che se la Corte d'appello accoglie il ricorso per la dichiarazione di fallimento in riforma della decisione contraria del tribunale, rimette a quest'ultimo gli atti onde proceda alla dichiarazione di fallimento. Questa norma, si assume, vincolando il tribunale a pronunziare sentenza sulla base dei soli accertamenti e delle valutazioni compiute dalla Corte, importerebbe menomazione della indipendenza del giudice di primo grado nei confronti di quello di appello, e ciò in contrasto con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, per cui "i giudici sono soggetti soltanto alla legge".

Il tribunale di Massa ha, inoltre, sollevato il dubbio che la ricordata norma della legge fallimentare contrasti anche con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto, nel caso di accoglimento del reclamo da parte della Corte d'appello, il tribunale é tenuto a dichiarare il fallimento senza che al debitore sia data facoltà di essere nuovamente ascoltato in camera di consiglio e di dedurre nuove difese, anche in ordine a sopravvenute circostanze che modifichino la situazione considerata nelle precedenti fasi processuali e nei provvedimenti già ammessi.

In relazione all'accennata fattispecie, il tribunale di Napoli denunzia altresì la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), rilevando che a causa della diversità di svolgimento e durata della procedura fallimentare, e cioè a seconda che intervenga o meno la fase di reclamo davanti alla Corte d'appello, risulterebbero diverse, in concreto, e più ampie nella prima ipotesi, le possibilità per il debitore di far valere le proprie ragioni nel corso della procedura per la dichiarazione di fallimento.

3. - L'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), parte creditrice costituita nel presente giudizio, ha eccepito la inammissibilità delle questioni in quanto sollevate nel corso di procedimento in camera di consiglio e non in un procedimento contenzioso.

L'eccezione deve, però, essere disattesa.

Non occorre prendere in esame la vasta problematica prospettata dalla dottrina circa la natura del procedimento fallimentare e delle sue varie fasi, posto che, come ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte (da ultimo con la sentenza n. 53 del 1968), il termine "giudizio" di cui agli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, va inteso, ai fini dell'ammissibilità delle questioni, nel senso lato di ogni procedimento, anche di volontaria giurisdizione, che abbia corso davanti ad un giudice.

4. - Nel merito le questioni non sono fondate.

In riferimento all'art. 101, secondo comma, della Costituzione si deve ritenere, infatti, che il principio della indipendenza del giudice, ben lungi dall'escludere la pluralità di gradi di giurisdizione, preordinata, nel sistema processuale, ai fini di giustizia ed all'esigenza della esattezza delle decisioni, ne postula, anzi, il coordinamento.

D'altra parte, come questa Corte ha affermato nella sentenza n. 50 del 1970 con riferimento al giudizio di rinvio a seguito di pronunzia di cassazione, la sentenza del giudice si mantiene sotto l'imperio della legge anche se questa dispone che il giudice formi il suo convincimento avendo riguardo a ciò che ha deciso altra sentenza emessa nella stessa causa.

Per analoghe ragioni deve escludersi che contrasti col menzionato precetto costituzionale l'art. 22 della legge fallimentare nella parte in cui prevede che la pronunzia sul fallimento risulti costituita dalla decisione della Corte d'appello e da quella del tribunale fallimentare, quali organi aventi funzioni giurisdizionali di diverso grado, volte peraltro a momenti distinti della decisione: la prima in merito all'accertamento dei fatti e delle condizioni di legge, la seconda in ordine alla dichiarazione costitutiva dello stato di debitore fallito.

Senza che sia necessario entrare nel vivo delle critiche mosse in sede dottrinale alla scelta legislativa, l'attribuzione al tribunale della suddetta esclusiva funzione appare ispirata, come ha ricordato l'Avvocatura dello Stato, al rispetto della competenza funzionale di detto organo nella materia in esame e al proposito di armonizzare la competenza circa la dichiarazione di fallimento con il regime processuale della opposizione, che il debitore può proporre al fine di ottenerne la revoca.

5. - Né sussiste contrasto dell'art. 22 della legge citata con il principio della garanzia della difesa in giudizio (articolo 24, secondo comma, Cost.).

Al debitore é dato svolgere deduzioni a proprio vantaggio, sia di fatto che di ordine tecnico-giuridico, e a tal fine deve essere disposta la sua comparizione in camera di consiglio, cosi davanti al tribunale, in sede di esame dell'istanza di fallimento (art. 15 legge fallimentare, nel testo risultante dalla parziale dichiarazione di incostituzionalità di cui alla sentenza di questa Corte n. 141 del 1970), come davanti alla Corte d'appello a norma del secondo comma del predetto art. 22.

In considerazione della speditezza e celerità della procedura, rispondente all'interesse generale della tutela dei creditori nei confronti dell'imprenditore insolvente, non é sembrato al legislatore apprezzabile l'esigenza di nuove difese da parte di quest'ultimo: difese che ovviamente non potrebbero costituire reiterazione di deduzioni già svolte nelle precedenti sedi. Né può fondatamente osservarsi che il debitore resti in tal modo sfornito di tutela di fronte all'eccezionale evenienza (estranea peraltro ai giudizi di rilevanza enunciati nelle fattispecie in oggetto) di circostanze che ne modifichino sostanzialmente la situazione patrimoniale e ne escludano lo stato di insolvenza.

A prescindere dall'opinione autorevolmente espressa in dottrina che dà loro eccezionalmente rilievo anche in sede di rinvio degli atti al tribunale, tali circostanze, infatti, possono essere addotte nel giudizio di opposizione alla sentenza di fallimento, che può essere promosso, ai sensi dell'art. 18, dal debitore e da qualunque interessato e nel corso del quale, come hanno ritenuto la dottrina e la giurisprudenza, il provvedimento della Corte d'appello non costituisce vincolo di sorta alla piena cognizione del tribunale.

6. - Quanto all'ulteriore eventualità delineata dal tribunale di Napoli che un diverso trattamento possa verificarsi nei confronti dei debitori, in relazione al diverso concreto svolgersi delle procedure fallimentari, e cioè alla maggiore o minore durata di esse, la Corte ritiene che non sia configurabile, sul piano normativo, alcuna lesione del principio di uguaglianza.

Non possono, infatti, avere rilievo, ai fini del giudizio di costituzionalità, asserite divergenze riscontrabili in sede applicativa della norma impugnata quali conseguenze eventuali e di mero fatto di situazioni giuridiche per se stesse non suscettibili di censura, allorché tali divergenze non siano rapportabili a fattispecie normative incompatibili con l'ordinamento costituzionale.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 22 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (cosi detta legge fallimentare), sollevate, con le ordinanze di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale Palazzo della Consulta, il 16 giugno 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 22 giugno 1971.