Sentenza n. 107 del 1971
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SENTENZA N. 107

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 23, secondo comma, della legge 5 gennaio 1956, n. 1, contenente norme integrative della legge 11 gennaio 1951, n. 25, sulla perequazione tributaria, promosso con ordinanza emessa il 21 marzo 1969 dal tribunale di Milano nei procedimenti civili riuniti vertenti tra l'Amministrazione finanziaria dello Stato e la Edison s.p.a., iscritta al n. 339 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 256 dell'8 ottobre 1969.

Visti gli atti di costituzione della società Edison e dell'Amministrazione finanziaria dello Stato e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 marzo 1971 il Giudice relatore Giovanni Battista Benedetti;

uditi l'avv. Victor Uckmar, per la società Edison, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei ministri e per l'Amministrazione finanziaria dello Stato.  

Ritenuto in fatto 

Con ordinanza 21 marzo 1969, emessa nel corso di tre procedimenti civili riuniti vertenti tra l'Amministrazione finanziaria dello Stato e la Edison s.p.a., il tribunale di Milano ha accolto l'eccezione proposta dalla società Edison circa la legittimità costituzionale dell'art. 23, comma secondo, della legge 5 gennaio 1956, n. 1, per contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione e, ritenuta non manifestamente infondata la questione stessa, ha disposto la trasmissione degli atti a questa Corte.

Rileva nella propria ordinanza il tribunale che la norma impugnata nello stabilire - agli effetti dell'imposta di R.M. di cat. B - che "nei confronti delle società e degli enti tassabili in base al bilancio e degli altri contribuenti che chiedono che il loro reddito imponibile sia accertato in base ai risultati delle scritture contabili, gli interessi passivi sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l'ammontare dei ricavi lordi che entrano a comporre il reddito assoggettabile a imposta di R.M. e l'ammontare complessivo di tutti i ricavi lordi del contribuente", sarebbe in contrasto con i principi dell'uguaglianza in generale e della capacità contributiva in particolare sanciti dalla Costituzione. Ed invero, mentre ai sensi del primo comma del citato art. 23 la base imponibile viene ad essere ragguagliata alla effettiva entità del reddito essendosi stabilito che "sono deducibili, nell'esercizio in cui sono state sostenute, esclusivamente le spese e le passività inerenti ai redditi assoggettabili all'imposta stessa (di R.M.), nonché la quota di spese generali imputabili a tali redditi"; alla stregua, invece, del secondo comma dello stesso articolo la base imponibile appare ragguagliata ad una entità fittizia, che non si identifica nell'effettivo reddito oggetto dell'imposta, bensì in una grandezza economica meramente ipotetica che non é idonea a rappresentare, sotto il profilo quantitativo, la capacità contributiva del singolo contribuente.

Vi é pertanto tra il primo e il secondo comma un regime differenziato tra i contribuenti, avente per presupposto la tassabilità o meno in base al bilancio, che non appare obiettivamente giustificato ed é comunque in contrasto coi richiamati precetti costituzionali.

Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Ministro delle finanze, entrambi rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, nonché la società Edison.

Nell'atto di intervento e deduzioni, depositato in cancelleria il 16 giugno 1969, l'Avvocatura rileva che con la disposizione di cui al secondo comma dell'art. 23 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, il legislatore ha inteso porre fine alle difficoltà pratiche di individuare nella massa delle passività quelle che effettivamente si riferiscono a cespiti esenti o diversamente tassati ed ha, pertanto, introdotto una presunzione di riparto proporzionale delle spese e delle passività ai vari cespiti. Con tale meccanismo si vuole evitare che vengano ad arte imputati a redditi, che non concorrano a formare l'imponibile dell'imposta di R.M., interessi passivi che non si trovano in stretto rapporto di inerenza alla produzione del reddito soggetto alla imposta anzidetta.

Considerato che nel bilancio dei soggetti tassabili in base al bilancio figurano tutti i ricavi, sia quelli che compongono il reddito soggetto a imposta di R.M., sia i ricavi di altra natura, e tenuto conto che tutti questi ricavi vengono a trovarsi tra loro in una determinata proporzione, é apparso logico e razionale prescrivere che in questa stessa proporzione siano detratti gli interessi passivi agli effetti dell'imposta di cui trattasi.

Contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale la presunzione in parola non poggia su base fittizia, ma ha come substrato fatti reali di difficile accertamento ed é stata adottata nel caso in esame per proteggere l'interesse generale alla riscossione dei tributi.

Rileva inoltre l'Avvocatura che la presunzione opera sia nei confronti del contribuente che del fisco. Devesi quindi ritenere che il sistema differenziato istituito dalle disposizioni dell'art. 23 per l'accertamento dei redditi di R.M., a seconda che si tratti di contribuenti tenuti o meno alla formazione del bilancio non é in contrasto con l'art. 3 della Costituzione perché giustificato dalla esistente differenza dei presupposti di fatto e di diritto tra le due categorie di contribuenti, in ordine sia ai criteri di determinazione della base imponibile, sia agli aspetti formali dell'accertamento tributario.

Nega inoltre l'Avvocatura l'asserita violazione del principio della capacità contributiva ricordando che la Corte ha già avuto occasione di affermare la compatibilità con l'art. 53 della Costituzione di talune ipotesi di presunzioni legali in materia tributaria (sentenze n. 50 del 1965 e 109 del 1967).

Nelle proprie deduzioni, depositate in cancelleria il 7 ottobre 1969, la difesa della Edison s.p.a. afferma che del tutto artificioso é il criterio stabilito dall'art. 23, comma secondo, della legge 5 gennaio 1956, n. 1.

La presunzione assoluta stabilita da tale disposizione viola i principi costituzionali in forza dei quali le imposte devono essere commisurate alla reale capacità contributiva dei soggetti (art. 53) rispettando il canone dell'uguaglianza (art. 3).

Il criterio dettato dalla norma impugnata non tiene conto che il reddito imponibile é quello che risulta dalla differenza fra l'ammontare dei ricavi lordi e le spese e passività ad essi inerenti giusta quanto stabilito dall'art. 23, comma primo, della stessa legge n. 1 del 1956, nonché dagli artt. 81 e 91 del t.u. delle imposte dirette n. 645 del 1958. La detrazione degli interessi mediante una forfettizzazione semplicistica ed arbitraria può condurre ad assurde conseguenze. Considerando ad esempio il caso di due imprese che dispongano di redditi in parte esenti da R.M. e in parte colpiti da tale imposta si verificherà che quella delle due che sopporta il peso degli interessi interamente per la produzione di redditi esenti da R.M. conseguirà un vantaggio, mentre l'altra, che per intero sostenesse il carico degli interessi ai fini della produzione di un reddito soggetto a R.M., verrebbe ingiustamente trattata. In tal modo alcuni costi diventerebbero reddito. Il criterio contestato non é quindi idoneo ad accertare la capacità contributiva dei soggetti: esso potrebbe al più essere accettato, in via di eccezione, nei casi in cui, per mancanza di dati, fosse impossibile procedere all'accertamento, ma non nelle ipotesi in cui l'impresa sia in grado di dimostrare l'effettivo impiego dei finanziamenti avuti. L'adozione, per contro, come regola del sistema presuntivo per la detrazione degli interessi, senza concedere alla parte interessata la possibilità di dimostrare il reale impiego, porta alla conseguenza di dar luogo a duplicazioni del tributo.

Rileva inoltre la difesa della società che la differenza fra i soggetti tassabili in base al bilancio, sottoposti alla ripetuta presunzione, e tutti gli altri contribuenti, non trova alcuna giustificazione specie se si considera che proprio per i primi e non per i secondi é possibile dimostrare con le risultanze contabili quale sia stato in concreto l'impiego dei capitali mutuati. Non sussiste perciò nessuna ragione tecnica che giustifichi la lamentata diversità di trattamento.  

Considerato in diritto 

1. - Il tribunale di Milano ha denunciato l'illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, della norma contenuta nell'art. 23, comma secondo, della legge 5 gennaio 1956, n. 1, la quale - ai fini della determinazione del reddito imponibile agli effetti della imposta di ricchezza mobile dei soggetti tassabili in base a bilancio - dispone che: "gli interessi passivi sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l'ammontare dei ricavi lordi che entrano a comporre il reddito assoggettabile a imposta di R.M., e l'ammontare complessivo di tutti i ricavi lordi del contribuente".

La questione non é fondata.

2. - In tema di detraibilità degli interessi passivi la norma impugnata - ora corrispondente all'art. 110 del testo unico delle leggi sulle imposte dirette approvato con d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 - detta, per la società ed enti tassabili in base a bilancio e per gli altri contribuenti che chiedano che il loro imponibile sia accertato in base ai risultati delle scritture contabili, un criterio diverso da quello previsto per i soggetti non tassati sul bilancio. Trattasi del criterio della proporzionalità in virtù del quale, nel caso in cui il contribuente tassabile in base al bilancio sia nello stesso tempo titolare di redditi assoggettabili e di redditi non assoggettabili all'imposta di ricchezza mobile, la determinazione degli interessi passivi detraibili viene effettuata nei limiti della quota percentuale corrispondente al rapporto fra l'ammontare dei ricavi lordi che compongono il reddito assoggettabile a tale imposta e l'ammontare complessivo di tutti i ricavi lordi del contribuente.

La nota differenziale di questo criterio rispetto a quello stabilito per i soggetti non tassati in base a bilancio - (per i quali, anche per la deducibilità degli interessi passivi si applica la regola generale sulla deduzione delle spese e passività di cui al primo comma dell'art. 23 della legge impugnata) - consiste nel fatto che col primo criterio l'accertamento degli interessi deducibili é presuntivamente effettuato sulla base di un calcolo proporzionale che non consente, né al contribuente, né all'Amministrazione finanziaria, di dimostrare che nel caso concreto gli interessi sono inerenti esclusivamente o in misura maggiore di quella risultante dall'anzidetta proporzione al reddito tassabile, o correlativamente, a redditi esenti o soggetti ad altri tributi; col secondo criterio, invece, la detrazione é subordinata alla dimostrazione specifica della inerenza degli interessi passivi al reddito assoggettabile al tributo mobiliare.

Ad avviso della Corte questa diversità di disciplina legislativa non é in contrasto con l'art. 3 della Costituzione sussistendo una diversità di situazioni tra le due categorie di contribuenti presi in considerazione.

La ragione giustificatrice della norma impugnata é esposta negli stessi lavori preparatori della legge 5 gennaio 1956, n. 1, nei quali é dato appunto leggere che il criterio della proporzionalità "corrisponde alle situazioni obbiettive e ad esigenze di equità ed eliminerà difficili accertamenti e numerose contestazioni"; che la sua introduzione é dettata dal fatto che "é impossibile spesso determinare quale sia l'incidenza degli interessi passivi ripartendoli in relazione alle somme spese per la produzione di redditi esenti e a quelli corrispondenti ad altri investimenti".

La norma si riferisce solo alle società e imprese tassabili in base a bilancio perché solo per esse si verifica la tassazione con unico procedimento di più redditi, eventualmente di diversa natura, che vengono ad essere in tal modo considerati quali componenti di un unico reddito imponibile. E non é quindi contestabile la grave difficoltà di stabilire e dimostrare il rapporto di inerenze tra gli interessi passivi e le varie parti del reddito complessivo di bilancio.

Del resto quello in esame non é l'unico esempio di trattamento differenziato tra i soggetti tassabili e quelli non tassabili in base al bilancio reso necessario dalla diversa situazione di fatto e di diritto nella quale si trovano i primi rispetto ai secondi (si confrontino, tra gli altri, gli artt. 7 e 8 della legge impugnata e 43, 44 e 109 del t.u. n. 645 del 1958).

3. - Del pari privo di fondamento é l'asserito contrasto con l'art. 53 della Costituzione.

Il calcolo proporzionale che il legislatore ha posto a base della determinazione degli interessi detraibili non può ritenersi privo di razionalità. Esso é peraltro valido e operante sia nei confronti dell'Amministrazione finanziaria che del contribuente, di tal che, se in taluni casi la sua applicazione può dar luogo a conseguenze positive o negative, queste possono indifferentemente interessare ciascuno dei due soggetti del rapporto tributario.

L'avere rimesso a un criterio presuntivo così congegnato l'accertamento del reddito imponibile e la conseguente determinazione del tributo non vulnera il principio della capacità contributiva giacché scopo della norma, come già posto in evidenza, é fondamentalmente quello di semplificare la procedura di accertamento, eliminare contestazioni, rendere agevole, rapida e precisa la rilevazione di un reddito spesso insuscettibile di effettiva stima evitando nel contempo il fenomeno della evasione. Sono tutte finalità che si connettono alla necessità della tutela dell'interesse generale alla riscossione dei tributi e che direttamente giustificano la norma impugnata.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23, comma secondo, della legge 5 gennaio 1956, n. 1, contenente norme integrative della legge 11 gennaio 1951, n. 25, sulla perequazione tributaria, sollevata con l'ordinanza indicata in epigrafe in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 26 maggio 1971.