Sentenza n. 99 del 1971
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SENTENZA N. 99

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3 del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692 (limitazione dell'orario di lavoro nelle imprese industriali e commerciali), promosso con ordinanza emessa il 21 marzo 1969 dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel procedimento civile vertente tra De Lucia Fedele e Caturano Antonio, iscritta al n. 275 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 200 del 6 agosto 1969.

Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 1971 il Giudice relatore Giuseppe Chiarelli.  

Ritenuto in fatto 

Il signor Fedele De Lucia, con atto di citazione 5 aprile 1968, premesso di aver lavorato dal 1950 al 1966, con la qualifica di facchino, alle dipendenze dei signori Antonio Caturano fu Vincenzo e Antonio Caturano di Antonio, titolari di una ditta di cruscami e concimi, conveniva questi ultimi innanzi al tribunale di S. Maria Capua Vetere, per sentirli condannare al pagamento della somma di L. 4.070.120, comprensiva del corrispettivo del lavoro straordinario prestato negli ultimi cinque anni.

In relazione a quest'ultima richiesta, i convenuti eccepivano che, consistendo l'attività di facchino in una prestazione di lavoro discontinuo, non é ad esso applicabile, ai sensi delÌart. 3 del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692, la limitazione del l'orario (otto ore giornaliere) stabilita dall'art. 1 dello stesso decreto.

Il tribunale di S. Maria Capua Vetere, con ordinanza 21 marzo 1969, ha sollevato d'ufficio la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 3, in riferimento all'articolo 36, secondo comma, della Costituzione.

Non essendosi costituite le parti nel presente giudizio, la causa é stata decisa in camera di consiglio, a norma dell'articolo 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.  

                                                                         Considerato in diritto          

Si assume nell'ordinanza che l'art. 3 del decreto legge 15 marzo 1923, n. 692, nel sottrarre alla disciplina della durata massima della giornata lavorativa le occupazioni discontinue o di semplice attesa o custodia, elude il disposto costituzionale dell'art. 36, secondo comma, della Costituzione, che richiede che il limite di orario sia fissato dalla legge in via generale e inderogabile.

Ma la questione non é fondata.

É esatto che la citata norma costituzionale riconosce e garantisce il principio del limite legale della durata massima della giornata lavorativa. Tale principio trova rispondenza nell'art. 2107 del codice civile, il quale stabilisce che la durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti posti dalle leggi speciali, e nell'art. 2108 del codice civile, che prevede un aumento della retribuzione per il lavoro straordinario, la cui durata, insieme alla misura della maggiorazione, é fissata dalla legge.

Ma dall'art. 36, secondo comma, della Costituzione non discende che il limite della giornata lavorativa debba essere fissato dalla legge in modo uniforme per ogni tipo di lavoro. É conforme alla comune esperienza, e corrisponde a un criterio di razionalità, che la disciplina della durata giornaliera del lavoro subordinato applicabile alle prestazioni di lavoro continuo non può essere la stessa per quelle prestazioni che non si svolgono continuativamente nel tempo o che non si svolgono alle dipendenze di una impresa; né può aversi una disciplina unica e indifferenziata per le prestazioni di lavoro non continuativo, data la varietà dei modi in cui queste si esplicano.

Ciò premesso, va rilevato che l'art. 3 del decreto legge n. 692 del 1923 determina la sfera a cui é applicabile la disciplina del lavoro "continuo", contenuta nel medesimo decreto, relativo alle imprese industriali e commerciali; ma non esclude che, in attuazione del precetto costituzionale, altre leggi, in relazione ai vari tipi di rapporti di lavoro non compresi in quel decreto, regolino la durata o comunque il modo di prestazione nel tempo dell'attività lavorativa (es., l'art. 8 legge 2 aprile 1958, n. 339, SU1 lavoro domestico).

Né dall'esistenza di una regolamentazione dell'orario di lavoro continuativo, contenuta nel decreto n. 692 del 1923, discende che l'attività lavorativa di diverso tipo possa essere prestata senza alcun limite giornaliero di tempo. Ove manchi, infatti, una normazione speciale, la disciplina della durata delle prestazioni, in applicazione del principio costituzionale di tutela dell'integrità fisica del lavoratore, sarà sempre deducibile dall'ordinamento, secondo le disposizioni sulla legge in generale.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692 (limitazione dell'orario di lavoro nelle imprese industriali e commerciali), sollevata, dall'ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento all'art. 36, secondo comma, della Costituzione.  

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria l'11 maggio 1971.