Sentenza n. 93 del 1971
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SENTENZA N. 93

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 261, comma quarto, del testo unico delle leggi sulle imposte dirette, approvato con d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, promosso con ordinanza emessa il 19 aprile 1969 dalla Corte d'appello di Roma nel procedimento penale a carico di De Sica Vittorio, iscritta al n. 266 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 186 del 23 luglio 1969.

Visti gli atti di costituzione di Vittorio De Sica e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 marzo 1971 il Giudice relatore Angelo De Marco;

uditi l'avv. Ercole Graziadei, per il De Sica, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei ministri  

Ritenuto in fatto 

Nel corso del procedimento penale a carico di Vittorio De Sica, imputato del reato di cui all'art. 261, comma quarto, del testo unico delle leggi sulle imposte dirette, approvato con d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, la 1 Sezione penale della Corte d'appello di Roma, ritenuto che la diversa formulazione del citato quarto comma dell'art. 261 del t.u. rispetto a quella dell'originario articolo 30 del r.d. 17 settembre 1931, n. 1608, veniva a creare una nuova figura di reato nel senso di rendere punibili gli atti fraudolenti del contribuente, sui beni propri o altrui, per rendersi insolvibile, agli effetti della riscossione delle imposte dirette, anche se compiuti anteriormente alla morosità per sei rate consecutive di imposta, con ordinanza in data 19 aprile 1969 sollevava questione di illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, della ravvisata nuova figura di reato.

Dopo gli adempimenti di legge il giudizio, così promosso, viene oggi alla cognizione della Corte.

Si é costituito il De Sica, il di cui patrocinio, con memoria depositata il 5 agosto 1969:

a) in via principale sostiene, in conformità con la impugnata sentenza del tribunale di Roma, che con tale motivazione aveva assolto l'imputato perché il fatto non costituisce reato, che dal raffronto tra il primo e quarto comma dell'impugnato art. 261, chiaramente si evince che presupposto per l'esistenza del reato é la precedente morosità per sei rate consecutive di imposta;

b) in via subordinata, ove dovesse ritenersi sussistente l'innovazione ravvisata dalla Corte d'appello, chiede che venga dichiarata fondata la sollevata questione di illegittimità costituzionale.

É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, con l'atto d'intervento, depositato il 12 luglio 1969, sostenendo che l'art. 261, comma quarto, del t.u. non ha modificato la previsione dell'art. 30 del r.d. n. 1608 del 1931 e che, quindi, resta sempre ferma, come condizione di punibilità, la preesistente mora per sei rate successive di imposta, chiede che la proposta questione venga dichiarata non fondata.

Con due distinte memorie depositate rispettivamente l'8 e l'11 marzo 1971, l'Avvocatura generale dello Stato per il Presidente del Consiglio dei ministri ed il patrocinio del De Sica insistono nelle tesi sopra riassunte  

Considerato in diritto 

L'art. 30 del r.d. 17 settembre 1931, n. 1608 (approvazione del t.u. delle disposizioni riguardanti le dichiarazioni dei redditi e le sanzioni in materia di imposte dirette), prevedeva una particolare figura di reato (frode fiscale) riguardante il contribuente, moroso per sei rate successive d'imposta diretta, il quale, per sottrarsi al pagamento, "compie", sui propri e sugli altrui beni, atti fraudolenti, che rendano in tutto o in parte inefficace l'esecuzione forzata promossa dall'esattore.

Sembra pacifica, ed é presupposto logico dell'ordinanza di rinvio, l'opinione che per la sussistenza del reato, da quella norma preveduto, occorressero i due estremi della mora pro tratta per sei rate consecutive d'imposta ed il compimento di atti fraudolenti, posti in essere dopo il verificarsi di tale mora.

In attuazione della delega legislativa contenuta nell'art. 63 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, la sopra esaminata norma é stata trasfusa nell'art. 261 del t.u. approvato con d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, che al primo comma prevede, come reato punibile con l'ammenda da L. 1.000 a L. 200.000, il mancato pagamento di sei rate consecutive d'imposta per un ammontare complessivo non inferiore a L. 12.000 ed al quarto comma, come reato punibile con la reclusione fino a tre mesi, il fatto del contribuente "incorso in morosità" che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte dovute, "abbia compiuto", sui propri o sugli altrui beni, atti fraudolenti che rendano in tutto o in parte inefficace l'esecuzione esattoriale.

Argomentando dalla dizione "abbia compiuto" il giudice a quo ha ritenuto che nel testo unico sia stata introdotta una nuova figura di reato, per la quale il contribuente moroso viene colpito anche nel caso che gli atti fraudolenti siano stati posti in essere anteriormente al verificarsi della mora, con conseguente violazione dell'art. 76 della Costituzione, in quanto per il sopra citato art. 63 della legge di delega il Governo doveva limitarsi alle modifiche necessarie per l'attuazione dei seguenti criteri:

1) adattamento delle disposizioni alla esigenza di semplificazione nell'applicazione dei tributi ed a quella di una razionale organizzazione dei servizi;

2) perfezionamento delle norme concernenti l'attività dell'Amministrazione finanziaria ai fini dell'accertamento dei redditi.

Ma, come concordemente oppongono sia l'Avvocatura generale dello Stato nell'interesse del Presidente del Consiglio dei ministri, sia il patrocinio della parte privata, non può ritenersi che il legislatore delegato abbia preveduto una nuova figura di reato.

Presupposti comuni tanto all'art. 30 del t.u. del 1931, quanto all'art. 261 del t.u. del 1958 sono:

a) l'esistenza di uno stato di morosità, qualificato dall'omesso pagamento di sei rate consecutive d'imposta;

b) compimento di atti fraudolenti, diretti a rendere inefficace l'azione esecutiva dell'esattore.

Il raffronto tra l'art. 30 del t.u. del 1931 e l'art. 261 del t.u. del 1958 dimostra che i due presupposti sopra indicati esistono immutati nelle due norme.

In particolare il diverso uso del verbo "compiere" al presente nell'art. 30, al (congiuntivo) passato nell'art. 261, comma quarto, del t.u. del 1958, é conseguenza diretta della formalmente diversa espressione adoperata per indicare la condizione di morosità del debitore d'imposta: nell'art. 30 la morosità qualificata é definita direttamente; nell'art. 261 é definita nel primo comma agli effetti del più lieve reato contravvenzionale consistente nel solo fatto di tale mora e viene poi richiamata nel quarto comma con la dizione "incorso in morosità" agli effetti del più grave reato delittuoso commesso da chi voglia rendersi insolvibile ed eludere, così, il debito fiscale.

Di qui l'esclusione della volontà del legislatore delegato di innovare sulla previsione delittuosa già contemplata dall'art. 30 del t.u. del 1931 e, conseguentemente, la non violazione dell'art. 76 della Costituzione.

La sollevata questione deve, quindi, dichiararsi non fondata.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 261, comma quarto, del testo unico delle leggi sulle imposte dirette, approvato con d.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, con l'ordinanza di cui in epigrafe.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 aprile 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 29 aprile 1971.