Sentenza n. 178 del 1970
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SENTENZA N. 178

ANNO 1970

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 301, terzo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 27 gennaio 1969 dal pretore di Pietrasanta nel procedimento civile vertente tra Pellegrini Pellegrino e Ciambelli Guido, iscritta al n. 186 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 145 dell'11 giugno 1969.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'11 novembre 1970 il Giudice relatore Costantino Mortati;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

Nel corso di un giudizio civile promosso da Pellegrini Pellegrino contro Ciambelli Guido e nel quale si era avuta la rinuncia al mandato da parte del procuratore del convenuto senza che questi avesse provveduto alla sostituzione e senza che risultasse in modo certo che dell'avvenuta rinuncia era stata data comunicazione alla parte, il pretore di Pietrasanta ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 301, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude come causa d'interruzione del processo la rinuncia al mandato alla lite, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

Nell'ordinanza, pronunciata il 27 gennaio 1969, il pretore osserva che tale disciplina appare in contrasto col precetto costituzionale poiché consente che la parte rinunciata dal suo difensore possa rimanere nella pratica impossibilità di esercitare il suo diritto di difesa, in quanto nessun obbligo vi é per il giudice di assicurarsi, prima di procedere oltre nella causa, che la parte medesima sia stata posta in grado di procurarsene un altro.

Ricordata la sentenza di questa Corte n. 46 del 1957, per la quale il diritto alla difesa deve essere inteso come potestà effettiva di assistenza tecnica e professionale nello svolgimento di qualsiasi procedimento, in modo che venga assicurato il contraddittorio e venga rimosso qualsiasi ostacolo a far valere le ragioni delle parti, il pretore rileva che l'eventuale dichiarazione d'illegittimità costituzionale della norma denunciata determinerebbe l'effetto di riportare il caso in esame al trattamento generale, previsto per le altre ipotesi di perdita del difensore nel primo comma dell'art. 301 del codice, e concretantesi nell'obbligo del giudice di dichiarare l'interruzione del processo. Dandosi carico dell'obiezione che tale regolamentazione procedurale potrebbe prestarsi ad un illecito giuoco delle parti (specie se convenute) per rendere possibile il rinnovarsi indefinito di rinunce di successivi difensori, onde paralizzare praticamente l'attività delle altre parti, il pretore afferma che, a tacere la considerazione che anche altre norme procedurali si prestano ad attività dilatorie delle parti, questa eventuale conseguenza negativa non regge al paragone con il superiore precetto costituzionale della inviolabilità del diritto alla difesa e che, comunque, all'inconveniente può sempre ovviarsi con diversa regolamentazione legislativa del caso in esame.

Dopo che l'ordinanza é stata a sensi di legge comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 145 dell'11 giugno 1969, é intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale conclude perché la questione sia dichiarata infondata.

Ricordata la distinzione fra le cause involontarie di estinzione del rapporto di mandato alle liti e quelle volontarie, tra le quali rientra la rinuncia, l'Avvocatura osserva che la diversa disciplina in base alla quale le prime determinano interruzione del processo e le altre no trova la sua giustificazione nell'esigenza di non accordare alla parte o al suo procuratore uno strumento mediante il quale creare con le proprie mani una causa di interruzione del processo.

Anche a prescindere da tale considerazione, nessuna violazione del diritto di difesa può essere vista nella disciplina di legge, dal momento che l'art. 85 del codice di procedura civile stabilisce che la revoca e la rinuncia al mandato alle liti non hanno effetto, nei confronti dell'altra parte, finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore e che il rapporto fra difensore e cliente é regolato dalle norme sul mandato, con conseguente natura recettizia della rinuncia, che deve comunque avvenire in modo tale da non arrecare nocumento alla parte.

In conclusione, secondo l'Avvocatura, l'assistenza tecnica e professionale nel processo non potrà mai venir meno per effetto diretto della rinuncia del difensore, ma solo in conseguenza della negligenza della parte che non provveda tempestivamente alla nomina di un nuovo patrono, ovvero della infedeltà del difensore che, rinunciando alla procura in modo od in tempo tali da causare danno al cliente, si renda così inadempiente agli obblighi derivantigli dal mandato ricevuto e si assoggetti, quindi, alle conseguenti responsabilità contrattuali. Ma contro la negligenza della parte o la infedeltà del difensore l'art. 24, secondo comma, della Costituzione non appresta garanzia alcuna.  

Considerato in diritto 

1. - Con l'ordinanza di rinvio viene denunciata la violazione dell'art. 24, comma secondo, della Costituzione che si addebita al terzo comma dell'art. 301 del codice di procedura civile pel fatto che la rinuncia al mandato alla lite nel corso del giudizio, ivi prevista, non ne produce l'interruzione, pur in assenza di ogni obbligo, sia del rinunciante di documentare l'avvenuto invito alla parte perché si munisca di altro procuratore, e sia del giudice di assicurarsi che la parte stessa sia messa in grado di provvedere alla propria difesa.

2. - La questione é infondata. Non é contestabile, come la Corte ha statuito nella sentenza n. 46 del 1957, ricordata nell'ordinanza, nonché in altre successive, che il diritto inviolabile alla difesa, garantito in ogni stato e grado del procedimento dall'art. 24, debba implicare l'effettiva assistenza tecnica e professionale, così da consentire alle parti di far valere, attraverso un regolare contraddittorio, le proprie ragioni. Ed é appunto in applicazione di tale principio che il primo comma dell'art. 301 dispone l'interruzione del processo nei casi di morte, radiazione o sospensione del procuratore costituito in giudizio.

Ma é chiaro che analogo effetto interruttivo non potrebbe ammettersi nelle ipotesi di cui al terzo comma dello stesso articolo: certamente non in quello della revoca della procura poiché la mancata tempestiva costituzione del nuovo procuratore si deve addebitare alla negligenza della stessa parte interessata; ma neppure nell'altro della rinuncia del mandatario, dato che essa é regolata dai principi generali dai quali é retto il rapporto di mandato, secondo cui la rinuncia, in quanto atto recettizio, deve essere portata a conoscenza del mandante, in modo ed in tempo tali che quest'ultimo possa provvedere altrimenti, secondo precisa l'art. 1727 del codice civile, e non ha effetto se non quando tale conoscenza si sia verificata. La ratio della norma denunciata quindi deve ritrovarsi non tanto né principalmente nell'esigenza pratica di impedire l'eventualità del rinnovarsi indefinito di rinunzie da parte di successivi difensori, allo scopo di paralizzare l'attività delle altre parti litiganti, quanto nell'applicazione al caso della menzionata disciplina propria dell'istituto del mandato, di cui quello alle liti costituisce una sottospecie.

É certo prospettabile l'ipotesi di inadempienza dell'obbligo gravante sul procuratore costituito in giudizio di dare tempestiva notizia dell'avvenuta rinuncia, ma da siffatti possibili inconvenienti pratici non può farsi derivare un vizio di incostituzionalità della norma, la quale ha riguardo all'id quod plerunque accidit, mentre, a prevenire e reprimere gli inconvenienti stessi, appaiono sufficienti, oltre alle sanzioni comminabili in seguito a giudizio disciplinare da parte degli ordini forensi, l'obbligo del risarcimento del danno che risulti arrecato al mandante.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondata la questione sollevata dal pretore di Pietrasanta con ordinanza 27 gennaio 1969 relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 301, ultimo comma, del codice di procedura civile, in riferimento all'art. 24 della Costituzione. 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 novembre 1970.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

  

Depositata in cancelleria il 2 dicembre 1970.