Sentenza n. 142 del 1970

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SENTENZA N. 142

 

ANNO 1970

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE 

 

composta dai signori giudici:

 

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

 

Prof. Michele FRAGALI

 

Prof. Costantino MORTATI

 

Prof. Giuseppe CHIARELLI

 

Dott. Giuseppe VERZÌ

 

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

 

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

 

Dott. Luigi OGGIONI

 

Dott. Angelo DE MARCO

 

Avv. Ercole ROCCHETTI

 

Prof. Enzo CAPALOZZA

 

Prof. Vezio CRISAFULLI

 

Dott. Nicola REALE

 

Prof. Paolo ROSSI,

 

ha pronunciato la seguente  

 

SENTENZA 

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa l'8 novembre 1968 dal tribunale di Udine nel procedimento fallimentare di Pilutti Bruno, iscritta al n. 259 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969;

 

2) ordinanza emessa il 12 giugno 1969 dal tribunale di Livorno nel procedimento civile vertente tra Spadoni Aldo, la società Fincase e il fallimento della ditta Lamplastic, iscritta al n. 392 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 280 del 5 novembre 1969.

 

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 3 giugno 1970 il Giudice relatore Michele Fragali;

 

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto 

 

1. - Il tribunale di Udine e quello di Livorno con le ordinanze rispettivamente dell'8 novembre 1968 e del 12 giugno 1969 hanno denunciato a questa Corte l'art. 147 secondo comma del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare) per violazione dell'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione; il tribunale di Udine ha posto anche in dubbio che la norma predetta fosse in aderenza all'art. 3, primo comma, della Costituzione stessa e al successivo art. 25.

 

La norma sospettata di illegittimità costituzionale dispone che, se, dopo la dichiarazione di fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata, risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su domanda del curatore o d'ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in camera di consiglio.

 

Essa, per il tribunale di Udine non concede adeguate garanzie di difesa, perché il procedimento descrittovi é improntato ad estrema sommarietà, le possibilità difensive dell'interessato si riducono esclusivamente alla sua audizione in camera di consiglio, audizione che non é intesa in senso uniforme dalla prassi, per cui talora si risolve in un semplice interrogatorio a carattere inquisitorio, senza che l'interessato abbia il diritto di farsi assistere dal difensore, di prendere visione delle prove fornite dal curatore e di discuterle, dato che generalmente consistono in qualche indizio, in presunzioni varie o elementi ricavati dalla contabilità della società fallita e dal fascicolo fallimentare. Il tribunale predetto ha rilevato inoltre che l'accertamento di una società fatto dal giudice del fallimento ha, come conseguenza la sottrazione del terzo al giudice naturale, e che il processo dovrebbe svolgersi nelle forme di quello di cognizione ordinario, secondo le norme ordinarie sulla competenza.

 

Il tribunale di Livorno ha rilevato, per sua parte, che la norma impugnata preclude ad ogni creditore la possibilità di chiedere, sia nell'ambito del processo fallimentare sia nelle forme del giudizio ordinario, la dichiarazione di società relativamente ad una impresa dichiarata fallita come impresa individuale; ha osservato, inoltre, come il tribunale di Udine, che l'accertamento del rapporto sociale non può sottrarsi all'ordinario processo di cognizione, perché l'audizione dell'interessato in camera di consiglio non garantisce il diritto di difesa.

 

2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri é comparso soltanto nella causa promossa dal tribunale di Udine.

 

Ha obiettato che le diverse prassi notate sul modo dell'udienza di camera di consiglio sono espressione o di diverso autonomo atteggiarsi di difese o di non coincidenti iniziative dei tribunali, non di una disuguaglianza normativa; ha opposto che lo stesso tribunale di Udine riconosce che le difese degli interessati si esplicano davanti a certi giudici anche con l'assistenza di persone tecnicamente qualificate, cui é consentito di parlare e scrivere nei modi da esse ritenuti più opportuni; ha rilevato che la norma in esame attribuisce a coloro ai quali il fallimento viene esteso le stesse facoltà di difesa che vengono attribuite al fallito, e cioè l'opposizione, l'appello e il ricorso per cassazione; fa presente che il processo fallimentare esige uno strumento di immediata efficacia, che non può consentire lo svolgimento di una fase istruttoria prolungata e complessa, e consiglia lo spostamento di tale fase nel momento successivo a quello della dichiarazione di fallimento; che l'attribuzione al tribunale fallimentare della cognizione del rapporto di società é una delle tante applicazioni della vis attractiva del fallimento, ed é un criterio di competenza risultante da una predeterminazione legale, di rango eguale a quello più generale del foro del convenuto; che la sottrazione della res iudicanda al giudice naturale si ha quando la competenza nasce successivamente all'avverarsi del fatto sul quale il giudice é chiamato a decidere.

 

3. - All'udienza del 3 giugno 1970 l'Avvocatura generale dello Stato ha confermato le proprie tesi e conclusioni.  

 

Considerato in diritto 

 

1. - Le due cause debbono essere decise con unica sentenza perché concernono questioni identiche e connesse.

 

2. - É preliminare l'esame della questione concernente l'asserta illegittimità costituzionale della norma che attrae nella sfera del tribunale competente per il fallimento di una società a responsabilità illimitata la controversia sulla dichiarazione del fallimento di un nuovo socio.

 

Il dubbio all'uopo prospettato, che viene riconnesso al divieto di distogliere dal giudice naturale, é rimosso dalla giurisprudenza di questa Corte, per la quale giudice naturale precostituito é quello la cui competenza é determinata dalla legge con riferimento a fattispecie astratte, realizzabili in futuro, e non a posteriori; in relazione cioè ad un fatto già verificatosi o ad una regiudicanda già insorta (sentenze 3 luglio 1962 n. 88 e 4 luglio 1963 n. 130). Nella specie, la competenza per le controversie di cui si é detto, per ragione di connessione, é stabilita a priori dalla norma denunciata, e non lascia adito a deroghe discrezionali; si pone sullo stesso piano dei criteri che informano il sistema degli artt. 7 e seguenti del codice di procedura civile, il quale, giova ricordarlo, poggia su una pluralità di regole di collegamento, a seconda della materia controversa, e contiene inoltre il principio generale della vis attractiva di una determinata competenza a motivo della connessione. Questa Corte ha ritenuto che la connessione é uno dei criteri fondamentali di ripartizione del potere giurisdizionale, e provvede all'esigenza di evitare incoerenze o incompletezze nell'esercizio del potere stesso (sentenza 1 aprile 1958 n. 29 e sentenza citata 4 luglio 1963 n. 130). Mai, come nella materia fallimentare, la regola del simultaneus processus presenta presupposti di razionalità, avuto riguardo al carattere generale dell'esecuzione fallimentare; che può attuare la par condicio creditorum soltanto attraverso la concentrazione presso unico giudice dei processi inerenti all'accertamento delle pretese creditorie e alla formazione della massa attiva.

 

3. - La sommarietà alla quale é ispirato il procedimento previsto nella norma denunciata non pregiudica il diritto di difesa, come invece si sostiene nelle ordinanze di rimessione.

 

Nel processo di dichiarazione di fallimento preme la esigenza di accertamenti rapidi e di pronta attuazione, che altra volta questa Corte ha riconosciuto causa ragionevole di abbreviazione dei termini di impugnativa dei provvedimenti degli organi fallimentari (sentenze 13 novembre 1962 n. 93 e 28 giugno 1963 n. 118; sentenza di pari data n. 141) e, nella specie, la sommarietà suddetta soddisfa alla necessità di immediate misure conservative del patrimonio dell'insolvente o del suo socio, che fa ritenere nociva all'interesse generale ogni remora istruttoria.

 

Ma sommarietà del processo non deve significare eliminazione del diritto di difesa: la predetta sentenza di pari data, nel ritenere che il tribunale ex art. 15 legge fallimentare deve disporre la comparizione dell'imprenditore prima di dichiararne il fallimento, ha giudicato che, nell'occasione di tale audizione, deve essere dato alla difesa il più ampio spazio compatibile con il carattere sommario ed urgente della pronuncia che il giudice é chiamato ad emettere (una più penetrante difesa potrà esperirsi nella fase di impugnazione di tale pronuncia). Entro questi limiti, ma solo in essi, anche l'articolo 147, secondo comma, é illegittimo. Così della difesa risulta pienamente assicurato lo scopo e la funzione.

 

Non si può obiettare che, nell'ipotesi del citato art. 147, secondo comma, legge fallimentare, dovendosi accertare la più ampia base soggettiva del rapporto sociale, la cognizione diviene complessa e non si presta ad una delibazione. In pratica ciò non é esatto in tutti i casi; ma se, in qualche ipotesi, l'indagine non risultasse semplice, sorgerà soltanto l'esigenza di caute decisioni, date le gravi conseguenze cui un'inconsulta pronunzia può dar causa, non l'impossibilità di emettere un giudizio fondato sulla valutazione degli elementi probatori acquisiti. Anche l'indagine sommaria richiede un certo grado di approfondimento, e il giudizio conclusivo non può essere basato su supposizioni o su congetture, che non potrebbero poi resistere all'impugnazione: nel caso dell'art. 147, secondo comma, non potrebbe sorgere necessità di indagini più complicate di quelle che talora si richiedono per il riscontro dell'esistenza dei presupposti del fallimento individuale. L'ordinamento non può precludere provvedimenti di urgenza solo perché essi si collegano a fattispecie di sostanza complessa; soddisfa ugualmente il diritto di difesa il procedimento di controllo della pronuncia urgente, nel quale il contraddittorio si svolgerà come nel giudizio di normale cognizione. É un problema di politica processuale quello delle scelte concrete, il cui esame sfugge alla competenza della Corte; e gli inconvenienti che si sono esposti a proposito dell'applicazione della norma denunciata, non sono rilevabili agli effetti del giudizio di legittimità costituzionale.

 

L'art. 147, secondo comma, della legge fallimentare deve perciò essere dichiarato illegittimo nella parte in cui non consente ai soci illimitatamente responsabili di una società fallita di esercitare il diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura del procedimento di camera di consiglio previsto per la dichiarazione di fallimento.

 

4. - Fondata é anche la questione di legittimità costituzionale della norma predetta nella parte in cui nega al creditore la legittimazione a domandare il fallimento del socio del fallito.

 

La disposizione si suole ricondurre al criterio che domina il processo fallimentare, per cui, messo questo in movimento, non v'é azione del creditore che non vi si debba inserire; ma l'applicazione di tale principio non deve togliere al creditore la legittimazione a proporre istanze al giudice fallimentare a tutela del proprio interesse, compatibilmente con la struttura del processo fallimentare. Il creditore ha poteri di iniziativa per la dichiarazione di fallimento e questo potere non deve mancargli quando trattasi di implicare i soci del fallito nel concorso generale: l'istanza del creditore, in tal caso, non sbocca in una di quelle azioni esecutive individuali che, per il carattere generale del concorso fallimentare, sono vietate dall'art. 51 della legge speciale, ma intende dare al procedimento concorsuale la sua giusta dimensione. Deve necessariamente esercitarsi mediante ricorso al tribunale, così come é prescritto nell'art. 6 della legge stessa; e non viene perciò a turbare le linee del procedimento o a modificarne i principi, così come non turba queste linee e non ne modifica i principi la domanda del curatore ammessa nella stessa norma denunciata.  

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE 

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare), nelle parti in cui:

 

a) non consente ai soci illimitatamente responsabili l'esercizio del diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura del procedimento di camera di consiglio prescritto per la dichiarazione di fallimento;

 

b) nega al creditore interessato la legittimazione a proporre istanza di dichiarazione di fallimento di altri soci illimitatamente responsabili nelle forme dell'art. 6 del regio decreto predetto.

 

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma già citata, proposta con le ordinanze su indicate in riferimento agli artt. 3 e 25, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui attrae nella competenza del tribunale fallimentare la causa di dichiarazione di fallimento degli altri soci illimitatamente responsabili di una società fallita, e assoggetta i necessari accertamenti ad indagini di carattere sommario.  

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1970.

 

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

 

Depositata in cancelleria il 16 luglio 1970.