Sentenza n. 94 del 1970
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SENTENZA N. 94

ANNO 1970

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZI'

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2221 del codice civile e dell'art. 1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare), " con tutte le norme di legge che ne derivano", promosso con ordinanza emessa il 27 giugno 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Segantini Franca, iscritta al n. 80 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 78 del 26 marzo 1969.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nell'udienza pubblica del 5 maggio 1970 il Giudice relatore Giuseppe Chiarelli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Il tribunale di Roma, con sentenza 30 giugno 1967, dichiarava il fallimento di Franca Segantini, esercente un negozio di generi alimentari. A suo carico veniva successivamente promosso procedimento penale per bancarotta semplice, per omessa tenuta dei libri e delle prescritte scritture contabili.

In sede di dibattimento la difesa dell'imputata sollevava la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2221 del codice civile e 1 della legge fallimentare, "con tutte le norme di legge che ne derivano ", in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

Il pretore di Roma, con ordinanza 27 giugno 1968, rimetteva la questione alla Corte.

Il pretore ha ritenuto la questione non manifestamente infondata, osservando che le norme impugnate comportano una discriminazione in base al censo tra l'imprenditore commerciante e il non commerciante, mentre altra disparità di trattamento é operata tra gli stessi commercianti, poiché non é ammesso il fallimento del piccolo imprenditore. La distinzione tra piccolo e grande imprenditore é inoltre lasciata all'arbitrio della amministrazione finanziaria, la quale, accertando un reddito inferiore al minimo imponibile, può dare o no ingresso alla procedura fallimentare, mentre una ulteriore discriminazione in base al censo é subordinatamente operata a seconda che il capitale investito nella impresa sia superiore o inferiore alle 900.000 lire.

La ordinanza era ritualmente notificata, comunicata e pubblicata.

É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto 10 gennaio 1969, nel quale si osserva che il problema prospettato é di politica legislativa e non di legittimità costituzionale e si chiede che la questione sia dichiarata infondata.

Le medesime conclusioni sono state confermate, dalla difesa del Presidente del Consiglio, nella discussione orale.

 

Considerato in diritto

 

La questione non é fondata.

Nell'assoggettare alle procedure del fallimento gli imprenditori commerciali, e non la generalità dei cittadini, la legge ha avuto riguardo alla natura dell'attività da essi esercitata, e non, come si assume nell'ordinanza, al loro censo.

Non vi é pertanto violazione dell'art. 3 della Costituzione, giacché lo svolgere attività commerciale organizzata ad impresa costituisce una situazione obbiettivamente diversa da quella di chi svolge un'attività di diverso tipo, e non é irrazionale l'aver limitato alla prima la disciplina concorsuale, né sono arbitrari i motivi di tale limitazione, anche se de iure condendo può discutersi sull'opportunità di una diversa determinazione del campo di applicazione di quella disciplina.

Le stesse ragioni valgono circa l'esenzione del piccolo imprenditore dal fallimento. Anche nel configurare questa discriminazione nell'ambito della categoria dei commercianti, la legge ha tenuto presente una diversità obbiettiva di situazioni, in relazione alle dimensioni dell'impresa, diversamente valutando l'interesse pubblico ad applicare la legislazione fallimentare al loro stato di insolvenza.

Come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare (sent. n. 43 del 1970), la esclusione dal fallimento del piccolo imprenditore e dell'insolvente civile si basa su una valutazione di politica economico - sociale e di opportunità giuridica, che non può essere ripetuta in questa sede.

Non é, comunque, esatto che le norme impugnate abbiano posto in essere una discriminazione tra i cittadini in base al censo e alla condizione sociale. I limiti di applicabilità delle procedure fallimentari sono stabiliti non in relazione alla diversità delle condizioni economiche e patrimoniali dei cittadini, ma in relazione, come si é detto, alla natura dell'attività da essi svolta e alla sua organizzazione imprenditoriale, nonché in relazione all'entità dell'impresa, desunta dalla misura del reddito obbiettivamente accertato e, subordinatamente, del capitale investito, anche in considerazione delle diverse ripercussioni che può avere il dissesto nell'economia generale. Né il riferimento al reddito accertato ai fini dell'imposta di ricchezza mobile assoggetta ad arbitri dell'Amministrazione l'applicabilità della procedura fallimentare, perché trattasi di accertamento compiuto a fini tributari e non in funzione di tale assoggettabilità, e in ogni caso non rimesso all'arbitrio della Pubblica Amministrazione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2221 del codice civile e 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) "con tutte le norme di legge che ne derivano", sollevata con l'ordinanza in epigrafe indicata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 1970.

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

 

Depositata in cancelleria il 16 giugno 1970.