Sentenza n. 81 del 1970

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SENTENZA N. 81

 

ANNO 1970

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori Giudici:

 

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

 

Prof. Michele FRAGALI

 

Prof. Costantino MORTATI

 

Prof. Giuseppe CHIARELLI

 

Dott. Giuseppe VERZI'

 

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

 

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

 

Dott. Luigi OGGIONI

 

Dott. Angelo DE MARCO

 

Avv. Ercole ROCCHETTI

 

Prof. Enzo CAPALOZZA

 

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

 

Prof. Vezio CRISAFULLI

 

Dott. Nicola REALE

 

Prof. Paolo ROSSI

 

ha pronunciato la seguente

 

 

 

SENTENZA

 

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 237 e 238 del R.D. 23 dicembre 1865, n. 2701 (c.d. tariffa penale), promosso con ordinanza emessa il 6 dicembre 1968 dal pretore di Guastalla sull'istanza di dilazione del pagamento di pena pecuniaria presentata da Quaranta Giovanni, iscritta al n. 2 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52 del 26 febbraio 1969.

 

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 22 aprile 1970 il Giudice relatore Paolo Rossi;

 

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

 

A seguito di condanna alla pena di mesi quattro di arresto e lire 30.000 di ammenda per il reato di guida senza il prescritto tipo di patente, emessa dal pretore di Guastalla, tale Quaranta Giovanni veniva tradotto in espiazione presso le carceri di Poggioreale, mentre la cancelleria della competente pretura procedeva ai necessari atti esecutivi per la riscossione della pena pecuniaria, atti che si concludevano con verbale di pignoramento negativo.

 

Accertata ritualmente l'insolvibilità del condannato ai sensi dell'art. 40 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, il 16 novembre 1968 veniva emessa dal pretore ordinanza di conversione della pena dell'ammenda in giorni sei di arresto, a norma dell'art. 136 del codice penale.

 

Successivamente il condannato presentava istanza diretta alla cancelleria della pretura di Guastalla con la quale chiedeva di essere ammesso alla dilazione del pagamento della pena pecuniaria.

 

Il giudice a quo premesso che l'istituto della predetta dilazione delle pene é disciplinato dagli artt. 237 e 238 del R.D. 23 dicembre 1865, n. 2701, e constatato che per il conseguimento della rateizzazione del pagamento da parte della pubblica amministrazione, é necessaria la presentazione di garanzie immobiliari o la fideiussione di un garante solvibile, sospendeva l'ordinanza di conversione della pena pecuniaria, sollevando d'ufficio la questione di legittimità costituzionale delle citate norme della tariffa penale per contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

 

In particolare il giudice a quo rilevava che la disparità di trattamento tra cittadini abbienti e non abbienti presa in considerazione dal citato art. 237 ai fini della concessione della rateizzazione del credito erariale, contrastava con il principio costituzionale d'uguaglianza, osservando altresì che la costituzionalità del principio della conversione delle pene pecuniarie in pene detentive, riconosciuta dalla Corte con sentenza n. 29 del 1962, non poteva esplicare rilievo nella nuova fattispecie prospettata, perché l'ammissione incondizionata del condannato alla dilazione della pena avrebbe consentito, in caso di inadempimento, l'esecuzione effettiva della pena mediante ordinanza di conversione.

 

Si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato l'11 febbraio 1969, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione sollevata.

 

Ha rilevato l'Avvocatura generale dello Stato che gli impugnati artt. 237 e 238 della tariffa penale prevedono che il debitore, cui sia stato notificato l'avviso di pagamento, può presentare istanza per la dilazione o rateizzazione del debito, mentre il cancelliere può sospendere gli atti di esecuzione civile solo se siano presentate garanzie immobiliari o fideiussioni di persone solvibili. Il ricorso, inoltrato al procuratore della Repubblica per il parere, viene trasmesso all'intendente di finanza che decide in proposito, salvo che l'organo competente a decidere dissenta dal parere del procuratore della Repubblica, nel qual caso provvede il Ministero delle finanze con atto definitivo.

 

Nel merito la difesa dello Stato premette che secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, a situazioni oggettivamente diverse deve corrispondere una normativa differenziata, istituzionalmente spettante al legislatore ordinario, legittima, purché non esercitata contro il principio della ragionevolezza; e rileva quindi come sia razionale attribuire alla amministrazione finanziaria il potere di concedere la dilazione nel pagamento a chi sia in grado di fornire idonee garanzie e negarla a chi non si trovi in tale condizione, proprio per la intrinseca diversità delle rispettive situazioni.

 

Soggiunge infine che se tale diversificazione di disciplina viene criticamente prospettata per le conseguenze che ne derivano sul regime della libertà personale, il problema si risolve in quello già affrontato e superato da questa Corte con la sentenza n.29 del 1962, con la quale é stato sancito il principio della inderogabilità della pena, e respinta l'eccezione di incostituzionalità sollevata contro l'istituto della conversione della pena.

 

 

 

Considerato in diritto

 

 

 

La Corte costituzionale é chiamata a decidere se contrastino o meno con il principio costituzionale d'uguaglianza, per disparità di trattamento tra cittadini abbienti e non abbienti, gli artt. 237 e 238 del R.D. 23 dicembre 1865, n. 2701 (c.d. tariffa penale), nella parte in cui richiedono al condannato di prestare garanzie immobiliari o personali perché l'amministrazione finanziaria possa concedergli la dilazione del pagamento della pena pecuniaria.

 

Occorre preliminarmente esaminare se la questione sollevata sia ammissibile in riferimento alla circostanza che il giudice a quo, a seguito della presentazione al cancelliere dell'istanza di dilazione, non era autorizzato ad emettere alcun provvedimento decisorio, ma un semplice parere, necessario perché la domanda stessa potesse venire inoltrata all'amministrazione finanziaria ai fini della decisione di merito.

 

É noto che la riscossione delle pene pecuniarie avviene istituzionalmente a cura dell'amministrazione finanziaria dello Stato, alle cui dipendenze operano, nel settore specifico, le cancellerie giudiziarie, e che ai sensi delle impugnate norme, modificate dall'art. 5 del R.D. 22 gennaio 1922, n. 200, compete all'intendenza di finanza accordare la dilazione al pagamento delle pene suddette qualora concordi nell'avviso espresso dal procuratore della Repubblica o dal pretore. In caso di dissenso, invece, l'intendente di finanza deve riferirne al superiore ministero che provvede in modo definitivo, salva, ovviamente, secondo i principi generali oggi vigenti, la possibilità di esperire i comuni ricorsi giurisdizionali avverso il provvedimento ora menzionato.

 

Da quanto precede risulta che le norme impugnate esplicano la loro efficacia nell'ambito di un procedimento meramente amministrativo, al quale l'organo giudiziario preposto all'esecuzione penale rimane estraneo, eccetto che per l'emanazione di un parere.

 

Il controllo giurisdizionale della legittimità del provvedimento emesso appartiene al giudice amministrativo. Consegue pertanto che il giudice a quo, cui non compete alcun potere decisionale in applicazione delle norme impugnate, non ha veste per poter sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale innanzi a questa Corte: la questione stessa deve essere quindi dichiarata inammissibile.

 

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 237 e 238 del R.D. 23 dicembre 1865, n. 2701 (c.d. tariffa penale), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal pretore di Guastalla, con ordinanza 6 dicembre 1968.

 

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 1970.

 

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

 

 

Depositata in cancelleria il 3 giugno 1970.