Sentenza n. 80 del 1970

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SENTENZA N. 80

 

ANNO 1970

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori Giudici:

 

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

 

Prof. Michele FRAGALI

 

Prof. Costantino MORTATI

 

Prof. Giuseppe CHIARELLI

 

Dott. Giuseppe VERZÌ

 

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

 

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

 

Dott. Luigi OGGIONI

 

Dott. Angelo DE MARCO

 

Avv. Ercole ROCCHETTI

 

Prof. Enzo CAPALOZZA

 

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

 

Prof. Vezio CRISAFULLI

 

Dott. Nicola REALE

 

Prof. Paolo ROSSI

 

ha pronunciato la seguente

 

 

 

SENTENZA

 

 

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 4, 31, 34, primo comma, e 39, primo comma, dell'Ordinamento giudiziario approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 14 novembre 1968 dal pretore di Bologna nel procedimento penale a carico di Moruzzi Armando, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 66 del 12 marzo 1969;

 

2) ordinanza emessa il 26 giugno 1969 dal pretore di Torino nel procedimento penale a carico di Borca Spartaco, iscritta al n. 398 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 280 del 5 novembre 1969.

 

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica dell'8 aprile 1970 il Giudice relatore Ercole Rocchetti;

 

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

 

Nel corso di un procedimento penale a carico di Moruzzi Armando, imputato di furto nei magazzini Standa, il pretore di Bologna, su istanza della difesa e su conclusioni conformi del pubblico ministero, con ordinanza emessa il 14 novembre 1968 ha proposto, come rilevanti e non manifestamente infondate, questioni di legittimità costituzionale concernenti gli artt. 4 (limitatamente alla espressione "di ogni grado"), 31 (limitatamente alla espressione "in sottordine"), 34 e 39, comma primo, dell'Ordinamento giudiziario approvato con R .D. 30 gennaio 1941, n. 12, ritenendole contrarie alle norme di cui agli artt. 101 e 107, comma terzo, della Costituzione.

 

Il pretore, in via pregiudiziale, esamina la proponibilità in genere di questioni di costituzionalità aventi per oggetto norme dell'Ordinamento giudiziario anteriore alla Costituzione, stante che la disposizione VII transitoria, col prescrivere che, in attesa di una nuova legge in materia, seguitano ad applicarsi quelle della vecchia legge, sembra aver precluso la proponibilità di tali questioni. Egli ritiene invece che esse siano, allo stato, proponibili perché anche se non é stata ancora emanata una nuova legge generale sull'Ordinamento giudiziario, molte parziali riforme sono state ad esso apportate con vari e numerosi provvedimenti legislativi i quali, avendo, nel complesso, trasformato l'ordinamento anteriore, inducono a considerare non più operante la preclusione che potesse comunque derivare dalla norma VII transitoria della Costituzione.

 

Quanto alla rilevanza, il pretore di Bologna osserva che la illegittimità costituzionale delle norme da lui denunciate, attenendo esse alla natura delle funzioni di cui egli é stato investito, inficierebbe la sua stessa capacità di giudice e, ai sensi dell'art. 185 n. 1 del codice di procedura penale importerebbe conseguenzialmente la nullità dei provvedimenti che egli adottasse nel giudizio in corso come in ogni altro giudizio.

 

In ordine poi alla non manifesta infondatezza, lo stesso pretore rileva che le disposizioni dell'Ordinamento giudiziario del 1941, da lui denunziate, devono ritenersi contrarie alle norme degli artt. 101, comma secondo, e 107, comma terzo, della Costituzione perché, mentre queste proclamano che "i giudici sono soggetti soltanto alla legge" e che "i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni" quelle - restate, a suo parere, sostanzialmente invariate nel loro contenuto anche dopo la emanazione della legge 24 maggio 1951, n. 392 - configurerebbero i giudici, e in particolare i pretori, come strutturati in ordine gerarchico; secondo si evincerebbe dall'art. 4 che parla di giudici "di ogni grado" delle preture, dei tribunali e delle corti e dall'art. 31, che parla di magistrati "in sottordine" destinati a coadiuvare il titolare della pretura nell'adempimento delle "sue" funzioni (art. 34); e di sezioni presiedute dal magistrato più "elevato in grado".

 

Concludendo, il pretore di Bologna rileva che la eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate "non intaccherebbe le necessarie attribuzioni del titolare, cui l'art. 38 dell'Ordinamento, che non si contesta, già riserva la direzione dell'ufficio, la distribuzione del lavoro fra le sezioni, la esclusiva competenza per le attribuzioni di carattere amministrativo, e la sorveglianza sull'ordinamento generale dei servizi".

 

2. - Le stesse questioni di legittimità costituzionale, in rapporto ai soli artt. 31 e 34 dell'Ordinamento giudiziario e in riferimento, oltre che agli artt. 101 e 107, anche all'art. 25 della Costituzione, sono state proposte dal pretore di Torino con ordinanza 26 giugno 1969, emessa nel corso del procedimento penale a carico di Borca Spartaco, imputato del reato di cui all'art. 217 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267.

 

Il pretore di Torino, dopo essersi rimesso alle ragioni espresse dal pretore di Bologna nell'ordinanza sopra richiamata, aggiunge che la generica dizione delle norme denunziate, riferentesi a un rapporto di gerarchia, rende possibile quella prassi, che si attua nelle grandi preture ed in base alla quale vengono scisse ripartendole in separate sezioni, le funzioni istruttorie da quelle decisorie: il che faciliterebbe, da parte del titolare, la scelta del giudice d'udienza per ogni singolo processo, con violazione del principio del giudice naturale, preordinato per legge, ai sensi dell'art. 25, comma primo, della Costituzione.

 

3. - Mentre nel secondo giudizio non vi é stata costituzione di parti, nel primo é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, la quale, con deduzioni 5 febbraio 1969, ha chiesto che siano dichiarate infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal pretore di Bologna.

 

Secondo l'Avvocatura, il fatto che l'ordinanza sia stata emanata e che la Corte costituzionale sia stata investita delle questioni di legittimità prospettate dal giudice a quo, costituirebbe la prova più evidente della indipendenza dei magistrati addetti agli uffici della pretura. Tale osservazione varrebbe non solo ai fini della decisione di merito, ma anche dello stesso giudizio di rilevanza della questione.

 

Per quanto attiene al principio di gerarchia ravvisato dal pretore nelle norme impugnate, l'Avvocatura rileva che già all'epoca di emanazione della legge sull'ordinamento giudiziario, esso non poteva essere confuso col vincolo di subordinazione gerarchica di tipo amministrativo perché, all'enfasi autoritaria delle espressioni, non avrebbe corrisposto un condizionamento della capacità del giudice, indipendente e soggetto soltanto alla legge. A maggior ragione, se le norme impugnate vengono collocate nella luce delle disposizioni della Costituzione e della legge 24 maggio 1951, n. 392, le espressioni che, secondo l'ordinanza, si riferiscono ad una asserita subordinazione gerarchica, acquisterebbero un diverso significato in chiave di strutturazione amministrativa, in quanto esse varrebbero sul piano della organizzazione funzionale e della direzione dell'ufficio. L'Avvocatura infine rileva come lo stesso giudice a quo riconosca spettare legittimamente al titolare della pretura i poteri attinenti alla distribuzione del lavoro tra le sezioni, alla competenza per le attribuzioni di carattere amministrativo e alla sorveglianza sull'andamento generale dei servizi.

 

 

 

Considerato in diritto

 

 

 

Stante la parziale identità dell'oggetto delle questioni sollevate con le due ordinanze, le due cause vanno decise con unica sentenza.

 

1. - Secondo il pretore di Bologna, gli artt. 4, 31, 34 e 39 dell'ordinamento giudiziario, approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, sarebbero incostituzionali perché - enunciando che l'ordine giudiziario é costituito dai giudici di "ogni grado" delle preture, dei tribunali e delle corti, che alle preture sono assegnati, uno o più magistrati "in sottordine" i quali coadiuvano il titolare nell'espletamento delle "sue" funzioni, e che le sezioni sono presiedute dal magistrato "più elevato in grado" - configurerebbero una magistratura tutta ordinata in gradi, e cioè in ordine gerarchico; e sarebbero perciò in contrasto con gli artt. 101 e 107 della Costituzione, i quali dispongono invece che i giudici sono soggetti soltanto alla legge (e quindi non al superiore gerarchico) e che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni (e quindi non di grado).

 

Oltre ad aderire genericamente a questi rilievi, il pretore di Torino aggiunge poi che i poteri riconosciuti ai pretori titolari da tali norme dell'ordinamento giudiziario renderebbero possibile la prassi, invalsa nelle grandi preture, di costituire sezioni incaricate della sola istruttoria; prassi che, consentendo al titolare di scegliere, in sede di assegnazione delle cause al dibattimento, il giudice, violerebbe il principio del giudice naturale precostituito per legge, tutelato dall'art. 25, comma primo, della Costituzione.

 

2. - Il pretore di Bologna prospetta, in via pregiudiziale, la questione relativa alla stessa proponibilità dei giudizi di costituzionalità in rapporto alle norme dell'ordinamento giudiziario del 1941, stante che la disposizione VII transitoria, stabilendo che, fin quando non sia emanata la nuova legge sull'ordinamento giudiziario in conformità della Costituzione, continuano a osservarsi le norme dell'ordinamento anteriore, sembra aver voluto precludere la proposizione di questioni di costituzionalità in ordine ad esse.

 

Ma egli rileva altresì che, essendo stato, con vari provvedimenti legislativi, modificato in più parti l'ordinamento giudiziario del 1941, debba ammettersi che questo, anche se non rinnovato in toto, più non esista nella sua originaria struttura e che la norma che ne disponeva la provvisoria conservazione nel nuovo ordine costituzionale sia da ritenersi caducata, per essere venuto a mancare l'oggetto cui si riferiva.

 

3. - La Corte, condividendo la tesi così esposta, ritiene, in conformità della sua sentenza n. 156 del 1963, che (in qualunque modo dovesse essere interpretata la VII disposizione transitoria della Costituzione), una volta avvenuta la revisione, sia pure parziale, dell'ordinamento giudiziario preesistente, le norme conservate, cui si inseriscono e sovrappongono le nuove, non possano sfuggire al sindacato di legittimità costituzionale. E, si aggiunge, non possono particolarmente sfuggirvi quelle denunziate che, contrariamente a quanto si mostra di ritenere nelle ordinanze di rimessione, e secondo si dirà meglio in seguito, sono state incisivamente modificate e per così dire riplasmate, dalle disposizioni di cui alla legge 24 maggio 1951, n. 392.

 

4. - Quanto alla rilevanza, la Corte non condivide i dubbi di cui é cenno nelle difese dell'Avvocatura.

 

In proposito la Corte non può che riferirsi alla sua costante giurisprudenza, secondo la quale é rimesso al giudice del merito accertare se le questioni sollevate costituiscono presupposto necessario per la definizione della lite: accertamento che quando, come nel caso, sia sufficientemente motivato, si sottrae al controllo in questa sede.

 

5. - Passando all'esame del merito, la Corte rileva che nessuna delle questioni proposte é da ritenersi fondata.

 

Innanzi tutto é da porre in evidenza che, contrariamente a quanto si afferma nelle due ordinanze di rimessione, non é esatto che la legge 24 maggio 1951, n. 392 - della legittimità costituzionale delle cui disposizioni non si discute - non abbia sostanzialmente mutato la normativa anteriore quanto alla divisione dei magistrati per gradi. Quella legge, all'art. 1, stabilisce, in conformità della formula della Costituzione, che i magistrati ordinari "si distinguono secondo le funzioni" e si dividono, appunto in base ad esse, in magistrati di tribunale, di Corte di appello e di Cassazione. Da quella legge non possono quindi non ritenersi modificati, anche nella loro espressione letterale, gli artt. 4, comma primo, e 39, comma primo, del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, nei quali, al riferimento ai gradi, va sostituito quello di funzioni. Né si dica, come appare al pretore di Bologna, che col mutare i termini non si risolve la questione di sostanza perché, attraverso le funzioni, sarebbero conservati i vecchi gradi (così, ad esempio, potrebbe osservarsi che, se, per l'art. 39, la presidenza della sezione va attribuita al magistrato più elevato "in grado", nulla cambia se leggiamo ora che va assegnata al magistrato più elevato "nelle funzioni", in quanto, comunque lo si chiami, il designato é sempre lo stesso).

 

Ma tutto ciò non implica nessuna contraddizione con la norma costituzionale che, pur distinguendo i magistrati secondo le funzioni, non esclude che le funzioni siano fra loro graduate secondo la importanza che esse hanno nello stesso ordine del processo e non postula affatto che ai magistrati venga riconosciuta una posizione di assoluta parificazione, giacché nella stessa Costituzione, all'art. 105, si prevede che fra i magistrati intervenga avanzamento per promozioni, assegnandosene il relativo compito al Consiglio superiore della magistratura.

 

Questa Corte, già nella sentenza n. 168 del 1963, ebbe a ritenere che una parificazione tra i magistrati esiste, in relazione all'art. 101 della Costituzione (i giudici sono soggetti soltanto alla legge), solo per quanto riguarda l'esercizio delle funzioni istituzionali e gli atti ai quali esse si ricollegano. Quegli atti sono infatti emanati in base alla legge e sono sottratti a qualsiasi sindacato, che non sia quello espressamente preveduto dalle leggi processuali.

 

Tale parificazione, invece, non sussiste relativamente alla posizione soggettiva che, al di fuori delle predette funzioni, i magistrati assumono nell'ordinamento giudiziario, nel quale ovviamente, in vista della crescente importanza delle funzioni in rapporto alle fasi del processo, sono connessi affidamenti di incarichi direttivi e titolarità di uffici.

 

6. - Quanto alle disposizioni contenute negli artt. 31 e 34 dell'ordinamento giudiziario, che qualificano in sottordine i magistrati di pretura in contrapposizione al titolare dell'ufficio, é ovvio che anch'esse vanno ora lette in rapporto alla nuova terminologia e soprattutto allo spirito della legge del 1951 che ha distinto, come vuole la Costituzione, i magistrati secondo le funzioni: ed esclude quindi fra loro una subordinazione gerarchica del tipo di quella che regola i rapporti tra i funzionari della pubblica amministrazione e che, del resto, i magistrati non possono subire, perché incompatibile con la natura stessa della loro funzione.

 

Quella terminologia arcaica é ora da ritenersi del tutto impropria: e la riprova della improprietà, per quanto concerne i magistrati così detti "in sottordine", é fornita dalla stessa legge la quale, determinando quali siano i poteri del titolare nei loro confronti, li elenca, nell'art. 38, in modo del tutto ortodosso in rapporto anche alla nuova concezione costituzionale dell'ordine giudiziario, giacché stabilisce che "il titolare della pretura dirige l'ufficio e distribuisce il lavoro delle sezioni". Ed aggiunge che: "sono di sua esclusiva competenza le attribuzioni di carattere amministrativo e la sorveglianza sull'andamento generale dei servizi". Tale disposizione sembra anche al pretore di Bologna ineccepibile nel suo contenuto e nella sua formulazione, onde egli afferma, nell'ordinanza, che i poteri con essa conferiti al titolare dell'ufficio sono necessari e non vanno contestati, né possono risultare intaccati da una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme da lui impugnate.

 

Ma, così dicendo, lo stesso pretore ammette che queste ultime norme, per quanto improprie nella loro terminologia, non possono essere affette da incostituzionalità, dal momento che sono immuni da tale censura le norme che determinano i poteri del titolare, cui corrispondono i correlativi doveri degli altri magistrati addetti alla pretura, comunque essi siano qualificati. Se, come é certo, oltre a quelli elencati nell'art. 38, e ritenuti legittimi, il pretore titolare non ha altri poteri nei confronti dei magistrati dell'ufficio, questi, anche se qualificati "in sottordine", non subiscono infatti alcuna menomazione delle proprie attribuzioni, né viene lesa la relativa tutela costituzionale. Il che é quanto dire che la eccezione di costituzionalità é infondata, perché investe una terminologia, che si può senz'altro ritenere discordante con quella della Costituzione, ma che, non concretando alcun contenuto normativo lesivo di quest'ultima, non può dar luogo a pronunce di incostituzionalità. Perché é ovvio che le norme possono annullarsi in rapporto al loro contenuto, contrastante con la Costituzione, e non alla sola improprietà lessicale delle parole che lo esprimono.

 

7. - Esaminando infine le questioni sollevate dal pretore di Torino sulle norme degli artt. 31 e 34 dell'ordinamento giudiziario, in riferimento agli artt. 25, comma primo, 101 e 107, comma terzo, della Costituzione, la Corte rileva che esse debbono essere dichiarate egualmente infondate.

 

Valgono per le censure da lui proposte, e comuni nelle due ordinanze, gli argomenti già svolti.

 

Si aggiunge soltanto che la prassi, che si dice in uso nelle grandi preture per agevolare il lavoro dei magistrati nell'interesse del servizio, e consistente nel riunire in una o più sezioni la sola attività istruttoria e quindi dividere ogni processo fra due magistrati, uno che l'istruisce e uno che lo giudica, ovviamente non può essere denunziata sul piano costituzionale se non in riferimento alle norme che l'autorizzano.

 

Ed il pretore di Torino, che ciò avverte, indica le norme, ma in modo ipotetico, giacché aggiunge che "se questa prassi si fonda sugli artt. 31 e 34 dell'ordinamento, che la consentono, le norme sono in contrasto anche con l'art. 25, primo comma, della Costituzione".

 

Ciò posto, e pur rilevando che la denominazione dei pretori, qualificati "in sottordine", non ha collegamento alcuno con quella prassi, deve osservarsi altresì che fra le norme che quella qualificazione contengono e per la ragione che la contengono, e l'art. 25 della Costituzione, che enuncia il principio del giudice naturale, non vi é parimenti alcuna logica connessione e nessun possibile contrasto. La facoltà di cui fa uso il pretore titolare nel creare sezioni volte alla sola istruzione dei processi va valutata in rapporto ai suoi poteri, i quali sono enunciati nell'art. 38, articolo a proposito del quale, e secondo si é già visto, in una delle due ordinanze di rimessione si esclude espressamente ogni dubbio di costituzionalità.

 

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, 31, 34, comma primo, e 39, comma primo, dell'ordinamento giudiziario approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, questioni proposte, con le ordinanze citate in epigrafe, in riferimento agli artt. 25, comma primo, 101 e 107, comma terzo, della Costituzione.

 

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 1970.

 

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

 

 

Depositata in cancelleria il 3 giugno 1970.